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lunedì 28 febbraio 2011

Preoccupati?

Commento alle letture liturgiche della VIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Il Vangelo di questa domenica è – in Matteo – la “naturale” continuazione del discorso sulla Felicità immanente alla storia dell’uomo (le Beatitudini) e non come nel nostro schema religioso solo “ultraterrena”. Ci siamo “sopra” da cinque settimane, ma a ben vedere, è un lavoro che dura tutta la vita perché ne è la ragione e il nutrimento.

Questa settimana si chiariscono ulteriormente le implicazione del clamoroso annuncio di Gesù: “Felici i poveri”! E noi che credevamo che per essere (almeno un po’) felici bisognasse – come spesso diciamo – “non proprio essere sfacciatamente ricchi, ma insomma stare economicamente bene per non avere problemi economici”!
Ebbene “oggi” si capisce meglio chi è il “povero” per Gesù e come essere poveri per essere felici.
E come sempre, il Vangelo si rivela spiazzante rispetto alla cultura, “al nostro modo di vedere” sulla e della povertà. E proprio per questo si rivela “da Dio”.

La prima cosa che rompe i nostri schemi sta nella affermazione che “la ricchiezza” è un padrone! Anzi nella logica del testo, l’unico padrone. Siamo letteralmente al capovolgimento delle nostre prospettive. E chi l’avrebbe mai detto? Noi chiamiamo padrone chi possiede dei beni! Per questo aspiriamo a diventare almeno dei “padroncini”. No! ci dice Gesù, sono i beni che la fanno da padrone. E decidono determinandola, della tua vita. Non in sé però, altrimenti non si potrebbe chiedere “dacci oggi il nostro pane quotidiano”! Vediamo allora come!

Il termine che la versione CEI traduce in “ricchezza” ha nel testo originale la parola mammona. Mammona, letteralmente vuol dire “proprietà” da cui per estensione i beni che uno possiede e quindi “mammona” diventa sinonimo di “ricchezza”. Per ben sei volte nel brano evangelico di oggi appare il verbo “preoccupare” nelle sue diverse declinazioni, per invitarci a “non” fare dei beni l’orizzonte della nostra vita. Questa insistenza sta a indicare che qui siamo al centro di ciò che il discorso di Gesù vuole trasmettere: non sono i beni il problema, ma la preoccupazione!

Il problema quindi non sta tanto nel discorso “ricchezza sì! ricchezza no!”. Anche! (I ricchi non si illudano: il discernimento sull’accumulo prima o poi va affrontato! Altrimenti il Regno dei Cieli se lo possono scordare!). Solo che il discorso così impostato oltre ad avere come unica soluzione la riduzione schizofrenica del nostro agire, è banalmente fuorviante rispetto alla profondità di quello che vuole dirci il Vangelo. Perché al centro del discorso di Gesù sta “la preoccupazione”! La preoccupazione per la vita! La preoccupazione per la vita che porta alla ricerca inquieta, angosciata, ossessiva, maniacale, spasmodica – infinite sono le sfumature della paura! – dei beni, del cibo, dei vestiti, dello status sociale, degli amici, dei soldi, di tutto quello insomma che noi consideriamo “vita” e vitale alla vita. Fino – oramai vittime di questa angoscia – a dedicare tutta la propria vita all’accumulo di ciò che riteniamo “bene” per noi. Diventandone schiavi. Il problema anche qui non è ancora sapere se ciò che riteniamo bene è veramente un bene: Il problema qui è centrato sulla preoccupata ricerca di… sostentamento alla vita.

Allargando il concetto di “vita”, per “bene” possiamo ritenere non soltanto i beni primari (che forse qui sarebbe meglio chiamare ancestrali perché fanno in qualche modo riferimento al racconto adamitico sul cibo e sul vestito che Dio stesso si cura di procurare e addirittura confezionare con le sue mani!), come negli esempi di Gesù, ma potremmo includere non solo – come detto – il bisogno di affetto, di amicizia, ma persino i beni che potremmo chiamare per intenderci “spirituali” (cfr seconda lettura).
Ma per non disperderci troppo limitiamoci pure all’esempio del Vangelo anche perché la dinamica del nostro comportamento nelle piccole cose è fondamentalmente identica a quello che abbiamo con le grandi. E fermiamoci un attimo a porci qualche domanda…

Cosa ci preoccupa? Cosa ci dà ansia? Cosa ci angoscia? Cosa ci inquieta? Cosa cioè assorbe in modo preminente i nostri pensieri, i nostri desideri, il nostro lavoro? Nel dialogo con gli altri, di cosa parliamo spesso? E quando ne parliamo, ne parliamo tenendo d’occhio soprattutto quale aspetto? Cosa all’interno di un discorso diventa per noi il principio base su cui ruota ogni altra argomentazione?

In casa, in famiglia, qual è “il problema” su cui spesso ci accapigliamo? Nella stragrande maggioranza dei casi non litighiamo “per i soldi”? E qui non ci sono ricchi e poveri (socialmente intesi) che tengano. Tutti guardiamo principalmente al tornaconto. Di cui quello economico non è secondario… Non parliamo poi quando si tratta di spartirsi il gruzzolo, piccolo o grande che sia, dell’eredità… Non basta dire “Che pena!”. Dobbiamo domandarci perché! Perché “i soldi” hanno un ruolo così importante nella nostra vita? Perché glielo diamo?
Anche l’organizzazione del tempo, ci potrebbe essere da guida per cogliervi gli indizi di una nostra inquietudine esistenziale.

Ancora… Quando parliamo dei problemi politici, sociali, quando affrontiamo il problema dell’immigrazione, o la crisi a cui assistiamo nel Nord Africa… di cosa siamo veramente preoccupati?

Se ci capita in questi giorni di parlare della Libia… siamo preoccupati del prezzo della benzina che aumenta o della sete di libertà e di giustizia per cui lottano e muoiono i libici?

E quando parliamo dell’immigrazione? Nel cuore, c’è l’accoglienza che cerca di riparare alle ingiustizie subite dai migranti o perpetuiamo queste ingiustizie per timore di dover rinunciare alle sicurezze del nostro benessere? Su questo quadruplice crimine[*] si fondano le politiche di alcuni partiti a cominciare – per parlare solo dell’Italia – dalla Lega Nord e del suo boss la cui mentalità evangelicamente criminale come un cancro sociale sta appestando l’anima degli italiani e invadendo – pur di finalmente vincere (come vuole strategicamente D’Alema) – anche uomini di partito o di chiesa che si riempiono la bocca del sociale.

Ci scandalizziamo di Gheddafi che bombarda i suoi cittadini, ma chi è più criminale? Chi spara o chi fornisce la pistola? E chi è peggio, chi fornisce la pistola o chi “gli dà le ragioni” (nb.: non dico che gli dà ragione!) per sparare? Difficile rispondere… certo è che tutti si troveranno in pessima compagnia all’inferno che hanno seminato nella storia. È troppo comodo dare del pazzo a Gheddafi senza rendersi conto che lui è “coerente” fino in fondo alla stessa logica che guida la nostra esistenza e la nostra cultura. In qualche modo ce ne mostra il vero volto perverso che noi mascheriamo dietro il nostro “buon cuore” pronto all’elemosina pur di non cambiare la storia!

Il Vangelo di oggi sbaraglia veramente le carte e butta all’aria il tavolo del nostro perbenismo.
E allora ridomandiamocelo: perché per i soldi siamo disposti a venire a patti col diavolo, a perdere la nostra dignità a volte, ad ammazzarci di lavoro sacrificando le relazioni umane al lavoro e in famiglia? Perché sull’altare della nostra economia, siamo disposti a sacrificare ogni cosa: dio, patria, famiglia… affetti, amici… a volte persino la salute?

Perché il futuro, ci fa paura! Anzi il futuro, il presente e il passato ci fanno paura. Non vogliamo essere – complici i nostri stessi genitori! – come erano i nostri genitori che dovevano “faticare per vivere”… il presente non ci basta mai perché del futuro non abbiamo certezze e non vediamo nel presente i segni di un mondo migliore… quindi “non si sa mai”, meglio mettere da parte qualcosa nel caso che “le cose si mettano male”… E facendo così impediamo al futuro e al presente di essere migliore!

Noi pensiamo che i beni “di nostra proprietà” ci diano sicurezza! Più se ne ha, più ci si sente al sicuro per ogni evenienza futura. Scuola migliore (meglio se gestita da ecclesiastici, ben contenti di arricchirsi sulle paure dei ricchi), medici migliori, avvocati migliori, amici numerosi (anche se peggiori perché difficilmente non interessati)… Case, terreni, ville, macchine… chi più ne ha più ne metta, perché più ne abbiamo più ci sentiamo al sicuro. Ma sarà poi vero? “La ricchezza – si dice – non ti prolunga la vita ma la rende migliore”! Ma ne vale la pena? A quali condizioni? Eppoi è proprio vero che la rende migliore? Migliore in cosa? Se non troviamo neanche più il tempo a pensare a noi stessi!

Eppure noi crediamo che i soldi ci facciano sentire vivi (perché senza ci sentiremmo morire). E se fossero veramente tanti ci fanno sentiremmo “un dio”, perché “adorati” dagli amici e “invidiati” dai nemici… Ma è solo una illusoria sensazione perché in realtà l’angoscia del futuro ci ha resi schiavi del presente. Questa angoscia del futuro è ciò che ci spinge a non vivere di fede ma di magia, consultando oroscopi, maghi, fattucchiere, ecc., alla ricerca di assicurazioni di successo per accumulare ricchezze… e ad assordando Dio e i nostri fratelli con le nostre suicide invocazioni. Sempre alla ricerca di una sicurezza che i beni in sé non possono darci (nemmeno quelli “spirituali” come acutamente osserva san Paolo).

Oggi il problema della sicurezza si impone alla cronaca quotidiana delle nostre città… i partiti si riempiono la bocca sulla questione della “sicurezza” ma in nome di questa sicurezza (politica, economica, sociale, di “ordine pubblico”…) varano leggi che alimentano l’ingiustizia che ha creato l’insicurezza, a cominciare di un tessuto sociale che ha smarrito la dimensione comunitaria del vivere. Al grido di “si salvi chi può” e “ciascuno curi e difenda il proprio orticello”, non si può fare altro che aumentare ulteriormente la vulnerabile solitudine di ognuno. Realizzando, per quanto armata, un di più di insicurezza!
Non si creda che stiamo uscendo fuori tema, perché la riduzione individualista delle nostre società a cui accennavamo, sono emanazione diretta della preoccupazione economica a cui accenna il Vangelo.

“La sicurezza non è né di destra né di sinistra…” dicono tra gli altri Veltroni, Cofferati, Cacciari, Renzi… e chi più ne ha più ne metta, anche qui, purché siano tutti sindaci o ex-sindaci e rigorosamente di sinistra! Per forza! avendo rinunciato a porsi la domanda sulle ragioni vere e non apparenti dell’insicurezza non ci resta che armarsi per imporla a chi la minaccia (sempre l’altro!), magari con qualche rattoppo cosmetico nel sociale pur di indorare la pillola e tacitare la coscienza. Ciò che conta è che non si affronti mai il problema alla radice per non disturbare il sonno ai vari Marchionne e agli uomini forti della finanza internazionale! Ipocriti!
Questa sinistra non vince e non vincerà perché la sua alternativa a Berlusconi è il berlusconismo! E se vincerà questa sinistra è perché ha vinto Berlusconi. Solo che lui non ha saputo mantenere le promesse (per fortuna!) e allora gli italiani daranno il voto alla sinistra che finalmente realizzerà le promesse del berlusconismo senza il Berlusconi che non le ha mantenute! Paradossale vero? Solo apparentemente perché che sia rossa o sia nera, sempre idolatria è: quella del denaro! E il denaro, come mammona, non né di destra né di sinistra!

E si capisce il fascino che “quella sinistra” hanno per la Lega: “Loro razzisti (anzi forse no direbbe Bersani – sic!), noi (comunque) certamente no! Ma in fondo vogliamo le stesse cose!”. Doppio sic! Cambia la casacca ma non cambia la mentalità! A che pro’ dunque votarli? Meglio l’originale o sperare in una fotocopia sbiadita che diluisca attenuandoli i danni dell’originale? Fate voi! Ma l’alternativa sembra essere tra scegliere di dover morire lentamente di fame o più rapidamente di sete: a ciascuno i suoi gusti di morte.

Perché se affidiamo la nostra sicurezza al nostro benessere, il benessere a cui aspiriamo diventa un padrone che ci succhierà la vita. E si mangerà l’Italia. È il vero patto col diavolo scritto col sangue della nostra vita oltre che con quello dei nostri figli e vicini, nell’illusione di sfuggire se non alla morte, al proprio declino.

Povero allora per il Vangelo è colui che “vive di insicurezza” verso il proprio futuro. Sciogliendo la propria angoscia nella fiducia del rapporto col Padre che si sa non viene mai meno come una madre verso il proprio figlio. Non lasciandosi condizionare nemmeno dai comportamenti ingrati del figlio (prima lettura).
Povero è colui che costruisce il proprio futuro nell’incontro con l’a/Altro. Di cui ci si fida, senza sospetto, nel percorrere insieme una strada, un cammino dove, nella occupazione quotidiana, ciascuno si senta veramente di casa.

Per essere poveri allora non basta passare dalla “proprietà privata” alla “proprietà collettiva” o dal conto in banca personale al conto in banca comunitario. Perché non cambierebbe la logica interna delle ragioni del possedere (insieme o da soli): la paura del futuro. Per questo certe presunte rivoluzioni hanno fallito, perché hanno preteso di “fare la rivoluzione nello stesso bicchier d’acqua” (Balducci). Perché cercare sicurezza al di fuori della giustizia di Dio è il vero modo per creare insicurezza uccidendo in ogni uomo il proprio futuro.

Il Vangelo di oggi ci dice ancora che per essere poveri evangelicamente non basta la fede, non basta l’amore. Ciò che impedisce alla fede di diventare razzista e omicida perché intollerante; ciò che impedisce alla carità di diventare cinica perché con una mano cura le ferite provocate dall’altra mano, eternizzando il dolore e l’ingiustizia, è solo la certezza di un amore a cui affidarci senza pretendere di afferrarlo impossessandocene (contrariamente a quanto noi facciamo anche nei rapporti interpersonali!). Perché questo amore ci promette di precederci nell’accoglienza di ogni nostro vero bisogno. Questa è la speranza cristiana! La sola capace di darci sicurezza perché è l’unica capace di affidarsi a un progetto sicuro. Quello di Dio che ci consegna ogni fratello come luce e sale per la nostra vita.
Ma noi non ci fidiamo di Dio, e preferiamo fidarci di noi stessi. Prego, si accomodi! ma attenti a quello che tra le righe ci avverte anche san Paolo: persino la nostra coscienza (quella vera, non quella che spiattelliamo davanti agli altri), la parte più “nobile” di noi, è più tirannica di un Dio che si rivela premurosa madre.

E allora mi vengono in mente le parole di Gesù: quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora degli uomini capaci di credere a quest’amore provvidente di Dio, o troverà gente tutta intenta ad affidare la propria speranza al proprio conto in banca o ai beni nascosti nel materasso?

Ecco perché la cosiddetta “preghiera di domanda” non è una banale preghiera semplicemente interessata ma è esattamente il modo con cui l’uomo diventa povero inserendo i propri bisogni vitali all’interno del progetto del Regno di Dio e vi partecipa attivamente. Ed è per questo che ha bisogno di poche parole se vuole restare nella dimensione della speranza. E logicamente a questo brano seguirà la preghiera per eccellenza “il Padre Nostro”, che guarda caso è una “preghiera di domanda” e insegna a domandare senza uscire dall’affidamento a Dio e dalla comunione col fratello!

Come si vede questo è un Vangelo veramente strano: lo si capisce solo se lo si vive. Questo è vero per ogni Parola di Dio, ma forse qui mi appare con più chiarezza: mi sapete dire infatti come si fa a credere di poterci fidare di Dio, se non osiamo mai fidarci di lui? O detto altrimenti: mi sapete dire come si fa a fare esperienza della sicurezza che dà il “camminare sulle acque solide della speranza”, se continuiamo ad affidare le nostre sicurezze alle nostre ricchezze? L’unica esperienza che potremmo fare è accorgerci che i beni, come il serpente biblico, non mantengono ciò che promettono… ed essere abitati dalla disperata disillusione. Questo invece è veramente un Vangelo scritto da dei poveri così, per dei poveri così, che solo dei poveri così possono accogliere gioiosamente per vivere fin d’ora felici abbracciato ai fratelli e sorelle nel grembo della Madre!
__________________________
[*] sostenendo o non smantellando un sistema che li riduce in miseria a casa loro fino a costringerli a lasciare il proprio Paese, la propria cultura, i propri figli, gli amici… col cuore dilaniato dagli affetti lacerati, per poter cercare di sopravvivere e  – come se non bastasse – quando arrivano o li cacciamo o li riduciamo a rinunciare ai loro valori e li riduciamo in miseria, al punto da costringerli a ritmi di lavoro e livelli di salario tipici dello schiavo e qualora pretendessero i nostri stessi diritti e peggio qualche legge lungimirante li concedesse, gridiamo all’ingiustizia e li accusiamo di “rubarli” togliendoli ai “nostri poveri” omettendo di porre la domanda su un sistema che ci produce dei poveri in casa.

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