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martedì 8 maggio 2012

VI Domenica di Pasqua


Perché ci sia uno scatto nella natura e nella portata della nostra fede trinitaria e cristologica, è necessario mettere mano alle forbici e operare una netta semplificazione della nostra vita. Ma dove cercare questa sintesi semplificante? Dice l’apostolo Giovanni: colui che non è nell’amore non conosce Dio. Quindi, se vogliamo fare una revisione della nostra fede battesimale e cristiana, dobbiamo parlare del nostro amore: la sintesi semplificante e fortificante non la possiamo trovare altro che in una considerazione nuova del nostro amore e della nostra carità.





Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare. Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. Neri, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza di Etty Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»;o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».

Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.

Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.

I testi che la liturgia ci propone per questa Sesta Domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni.


Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati, quando proprio di merito non si parlava («Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», Rm 5,8; «In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio»). E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che di volta in volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. Ubbiali, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].

In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore».

L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.

La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, altrimenti non sono più gesti dell’amore…

Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, compromettendosi dunque, impegnandosi in una relazione, in uno sbilanciamento, in un legame, in una congiunzione di destini, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro…

E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…

Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:

- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. Dossetti, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].

- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…

È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.

È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica: è nella sua prospettiva quando sa dare la vita («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»).

Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.

E questo dilaterà i confini del nostro cuore, perché se impareremo a guardare ad ogni uomo con lo sguardo con cui guardiamo “ai nostri” – e lo potremo fare solo stando in mezzo a loro – faremo nostra l’intuizione illuminante di Pietro, che stando in casa di Cornelio, si accorge che «Dio non fa preferenze di persone».

E così, potremo davvero tentare di seguire quando ci suggerisce l’apostolo Giovanni nella sua Lettera («amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore»), senza che l’amore per tutti scada nell’amare nessuno, ma diventi determinazione a non abbandonare, a non lasciare soli quelli che ci circondano, a dare una carezza a chi non l’ha mai ricevuta… a esserci… facendo spazio, per chi non ha casa… offrendo le nostre braccia, come casa, i nostri petti, le nostre spalle.

Io credo che sia questa la risposta alla domanda che ogni volta che si parla di amore ci sale alle labbra: “Cosa vuol dire amare?”. Io credo sia proprio questo: offrire spazi di sé, perché altri li abitino.

E se qualcuno vuole approfondire qualche tratto che io ho delineato, ma ho lasciato un po’ implicito, qui sotto trova un pezzo della lectio di Giuliano di tre anni fa…

Anch’io sono un uomo come te!  Ma adesso finalmente mi sono accorto che…

            È una delle “scoperte” più importanti e determinanti della genuinità della nuova “fede” a cui sono chiamati i discepoli. La visione che Pietro ha appena avuto (At 10,11ss) del lenzuolo contenente ogni specie di bestie impure… purificate dal Signore, trova sempre (lungo i secoli… fino ad oggi!) una opposizione dura e sorda…che tenta invincibilmente di attenuarne l’esplosività, ridividendo il lenzuolo dell’umanità in zone di maggiore o minor purezza o ortodossia o vicinanza a Dio, secondo i criteri culturali, razziali, religiosi, morali… che impregnano le diverse identità delle persone e dei popoli. Ma tutte queste barriere culturali sono ormai relativizzate dall’irruzione nel cuore della gente – i singoli e i gruppi! ‑  dello Spirito mandato da Gesù! Con due effetti dirompenti. Il primo effetto dello Spirito è l’apertura del cuore dei discepoli alla fraternità universale degli uomini nella loro uguale dignità, secondo le misure sconfinate del cuore del Padre, che annulla ogni discriminazione, compresa quella religiosa o sacrale. Il convertito fa fatica a capirlo, perché vorrebbe ‘sacralizzare’ tutto quanto l’ha effettivamente aiutato a incontrare il Signore. Ma il Signore non si ferma nelle forme sacre attraverso le quali passa storicamente, le quali anzi, se “assolutizzate”, disviano dall’incontro con il Signore, che ci chiama sempre più avanti nel cammino! La seconda è l’altra esperienza di Pietro, che per uscire dalle strettoie insuperabili dalla sua invincibile diffidenza verso i pagani, è stato “spinto” ad andare a casa dell’altro. Non per insegnare o convertire … ma per “capire”, cioè per dilatare il cuore e comprendere sperimentalmente… “Andare a casa dell’altro” (la missione!) è già segno di amore, è smuoversi da casa propria, è portare lo Spirito… Una dinamica interiore essenziale alla maturazione della fede, perché fa scattare la scintilla delle due conversioni che si incontrano: mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro. La contemporaneità (mentre ancora parlava… lo Spirito…) vuol esprimere la doppia azione dello Spirito, che non è “portato” da Pietro, ma è da lui riconosciuto, accolto e annunciato, e per così dire garantito, con l’inserimento nell’intreccio ecclesiale attraverso il Battesimo. Ogni missione, dunque, è autenticata dalla retromissione, cioè dal ritorno dello Spirito che, annunciato dal discepolo, innesca sempre nuove sintesi di umanità convertita, nuove esperienze di fede, nuove relazioni di amore, nuove occasioni di speranza. Se queste sono accolte, ri/convertono a loro volta  il discepolo stesso, lo aprono a più ampi orizzonti e lo purificano dalle inevitabili incrostazioni storiche della sua fede di partenza. Senza queste “scoperte” o consapevolezze nuove, che l’ingresso dei pagani nella chiesa ha fatto fare a Pietro, Paolo, Barnaba… e poi alla comunità, il gruppo dei discepoli di Gesù sarebbe forse divenuto una sterile setta giudeocristiana…

Non siamo stati noi ad amare Dio… il primato dell’amore di Dio in ogni storia!

            In questo sta l’amore, dice Giovanni, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è stato lui ad amare noi. Perché? Perché il nostro amore è “bisogno”, ben motivato dalla nostra situazione di indigenza radicale…E non può essere subito amore dell’altro, ma è amore di sé! Non mira a far crescere l’altro, ma usa l’altro per accontentare sé! Come troppo spesso le nostre vicende quotidiane di competizione, di prepotenza e relative frustrazioni… ci confermano giorno dopo giorno! Non è questo l’amore di cui parla Gesù! L’amore esemplare, generativo di ogni vero amore, è quello del Padre, che ha mandato il figlio a salvarci, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui, a costo di fargli assorbire su di sé il veleno che ci faceva morireQuesto vuol dire divenire vittima di espiazione per i nostri peccati! Non poteva sopportare che noi ci perdessimo nella nostra miseria… perciò l’ha assunta, vissuta e disinquinata nel lungo tragitto della sua breve vita, da Betlemme, a Nazareth, a Gerusalemme. Questa esperienza umana del figlio, che ha vissuto nella sua vicenda storica in questo mondo il suo rapporto ineguagliabilmente intenso con il Padre, che gli donava la vita, la forza e la fede, ci ha coinvolti in questa sua originale dinamica vitale di amore. Ci ha aperto la strada all’apprendimento (ma è un dono del suo Spirito) di questo alfabeto nuovo dell’amore. All’inizio (e sempre da capo!) balbettiamo, mescolando parole vecchie e parole nuove, sentimenti egocentrici con desideri di gratuità, convinzioni discriminati con la consapevolezza che Dio non fa preferenze di persone: abbiamo i suoi mezzi (Parola – Eucaristia – nel tessuto ecclesiale che è il suo corpo) per imparare ad amarci nella storia, “come lui ci ha amati” ­ cioè con il suo amore, che è lo Spirito. Sono gesti, atteggiamenti, cenni di perdono o consolazione o vicinanza, umili espressioni sempre ricominciate, nelle quali apriamo il cuore alla benevolenza del Padre che passa attraverso di noi, per lo Spirito di Cristo Gesù. È il modo cristiano di “conoscere” vitalmente Dio. Una conoscenza che ha bisogno delle mani, della pelle, degli occhi, della bocca… del cuore, nelle umili faccende quotidiane, dove, imitando questo primato dell’amore divino, ci sbilanciamo ad amare gli altri, senza verifiche e senza misure, senza giudizi e senza ricatti, senza paure di fallimenti o di inutilità, perché anche solo il desiderio o il tentativo… è “generato in noi da Dio” ed ha già tutto il suo compenso dentro di sé!

Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici

            Questa trasformazione radicale del rapporto con Dio, che da servi legati a un padrone (è l’origine della “religione”!) ci ha aperto la strada dell’amicizia con Gesù, è appunto il frutto di questa nuova conoscenza vitale di cui abbiamo ricevuto la forza e il mandato. Questo è il testamento di Gesù. Non è una conoscenza intellettuale, ma esistenziale ed operativa, come un rapporto profondo di amore e dedizione interiore che investe il cuore e dal cuore impregna la testa, le parole i sentimenti e le opere che si fanno. Gesù ha imparato e vissuto nel quotidiano questo riferimento appassionato e totale al Padre, che l’ha travolto e gli ha impregnato di gioia e di pienezza la vita. E ora non ha altro desiderio che comunicarcelo: tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non per essere ringraziato o venerato o ubbidito… ma per amicizia, che è la voglia spontanea del cuore che il tuo amico goda di tutto ciò che tu sei e che hai, a partire dall’esperienza fondamentale della sua vita, il rapporto con il Padre!

1 commento:

maria sole ha detto...

Grazie.
Solo in questi commenti riesco a trovare quello che più mi necessità in questo periodo.

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