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martedì 1 maggio 2012

V Domenica di Pasqua




Le letture che la Chiesaci offre in questa Quinta Domenica di Pasqua, sono davvero ricchissime e bellissime.

Siamo ancora all’interno della riflessione sulla risurrezione, che prosegue anche se in modalità nuove. La questione sembra infatti quella della domanda di vita del discepolo: quasi che Gesù in questo stralcio (Gv 15,1-8) del lungo discorso fatto durante l’ultima cena (Gv 13,1-17,26), voglia rispondere all’anelito più vero dell’uomo, quello sul senso del vivere.

E la risposta sembra essere molto perentoria: il segreto per la Vita è rimanere in Lui, proprio al modo in cui il tralcio rimane nella vite. Come infatti un tralcio non può vivere, non può ricevere linfa vitale, senza il restare ben ancorato alla sua pianta, pena il seccare, il non dare frutto e dunque l’essere tagliato e gettato nel fuoco, così l’uomo non può Vivere se non rimane in Lui, dove questo Vivere con la “V” maiuscola indica non solo e non immediatamente la vita eterna (anche!), ma piuttosto una diversa qualità di vita, che vale sia per l’aldiqua che per l’aldilà: una vita cristicamente piena, degna, riuscita, amata…

Il problema diventa allora cosa voglia dire questo “rimanere in Lui”.


Il rischio di queste pregnanti espressioni evangeliche è infatti sempre quello di risultarci vuoto, lontano, di fatto insignificante per la nostra vita quotidiana… E se anche immediatamente ci suscitano qualche emozione, spesso non riusciamo ad andare molto più in là della reazione sentimentale, umorale, superficiale… e perciò stesso, passeggera… mai veramente incidente sulla nostra vita.

La questione è infatti che cosa significhi questo “rimanere in Lui” nella concretezza delle scelte, del decidere delle cose e di noi; nel vortice quotidiano delle mille cose da fare e a cui pensare; nella drammaticità delle nostre relazioni, dei nostri affetti, delle nostre idealità, del nostro corpo, delle nostre inconsistenze…

Purtroppo su questo intreccio tra la relazione col Signore e il resto della vita, su questo impregnamento degli interstizi storici con la sua Parola, è necessario ancora soffermarsi… Proveniamo infatti da decenni (anteriori al Concilio Vaticano II) segnati da una predicazione che spesso – forse inconsciamente – riproduceva uno schema dualistico della realtà: c’era la vita “profana” – da una parte – e “le cose che riguardano Dio” – dall’altra; e l’unico legame diventava il timore che “le cose di Dio” avessero un impatto negativo sull’altra vita, quella normale, quella di tutti i giorni, quella profana, che la gente avvertiva come “più sua”: l’altra è “roba dei preti”. Tant’è vero che ancora oggi nel leggere il brano del vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, immediatamente certe espressioni ci rimandano a quello stesso orizzonte di senso peccaminoso-infernale: il rimanere in Gesù infatti sembrava più dovuto alla paura di fare la fine del tralcio che si secca e non produce frutto (che immediatamente noi associamo a colui che vive una vita immorale) e dunque viene tagliato e bruciato (cioè va all’inferno). In realtà, se si osserva da vicino il discorso, si vede con chiarezza come Gesù non vada per niente in questa direzione; e non è necessario essere esegeti per accorgersene: se infatti – anche solo ad un puro sguardo grammaticale – si leggono queste frasi senza pre-comprensioni, si evince in modo inequivocabile la positività del messaggio del Signore, il suo tentativo di infondere adesione, speranza, incoraggiamento (altro che minaccia, paura, ritorsione…).

Ma perché fare questa digressione sul passato e non andare dritti alla risposta alla domanda: Cosa significa “rimanere in Lui”? Perché forse la nostra forma mentis (nostra sia in senso personale che ecclesiale) è ancora troppo pre-conciliare…

Da un lato infatti questo emerge – come detto – dal fatto che anche a noi viene subito in mente la lettura peccaminoso-infernale descritta sopra (“rimanere in Lui” vuol dire non far la fine del tralcio che si secca); dall’altro, perché, ad un’osservazione più approfondita, questa lettura immediata ci giunge alla mente perché la sua radice errata (il dualismo) non è ancora stata pienamente estirpata, nonostante il Concilio sia iniziato 50 anni fa!



Questa radice consiste sostanzialmente in una confusione: Gesù aveva detto «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» – aveva cioè focalizzato l’attenzione sulla nostra relazione personale con Lui e sull’impossibilità per l’uomo di un’auto-fondazione di se stesso; aveva cioè dato connotazione estremamente positiva al “rimanere in Lui” (“Rimanere in lui” infatti significava entrare in quella relazione che fonda una vita bella, una vita pensata come unitaria, come impregnata e sostenuta per intero da quella relazione!) –, noi invece il discrimine lo abbiamo posto ad un altro livello, che è quello morale. A noi infatti viene immediatamente in mente che il tralcio che non porta frutti e che si secca è l’uomo dal comportamento etico riprovevole, è quello che fa i peccati, è quello che non rispetta i precetti (per dirla col linguaggio degli anziani) o è quello che è interessato ad altro o non è interessato a niente, che non viene mai alle proposte della parrocchia, che non si fa coinvolgere (per dirla col linguaggio dei nuovi pretoriani del vangelo). “Rimanere in Lui” perciò assume la connotazione negativa di cercare di scampare l’inferno, accettando qualche sacrificio, sempre con il solito vecchio meccanismo per cui il male (che senza alcun rispetto per la nostra personale titolarità morale, associamo acriticamente a ciò che “altri” dicono essere male) sarebbe migliore, ma ci asteniamo dal farlo per evitare conseguenze nefaste (terrene o eterne) e sempre con la solita prospettiva dualistica: Dio non c’entra con la mia vita, semplicemente la dovrà giudicare, per cui nel “mondo del sacro” adempio i precetti che lo rabboniscono (precetti magari totalmente estrinseci rispetto al mio modo di essere) e nel profano cerco di evitare di scatenare le sue ire…

Anche l’educazione cristiana va in questo senso: andare a messa, dire le preghiere, confessarsi almeno una volta ogni tanto, non avere comportamenti morali (in particolare sessuali) riprovevoli, ecc… Questo fa un buon cristiano… Ovviamente non sono cose sbagliate… Ma bisogna stare attenti: proposte in questo modo rischiano infatti di rimanere alla superficie della nostra identità (quando mai arriveremo invece a decidere insieme a Dio, l’intonazione migliore da dare al “Ti amo” che vorremmo sussurrare all’orecchio di qualcuno?). e che si rimanga alla superficie, lo si vede benissimo se si pone la questione al rovescio, cioè se ci si chiede se le cose elencate qui sopra bastino a fare di un uomo un “buon cristiano” (come diceva don Bosco). E io credo che la risposta inconscia di molti purtroppo sia “Sì”, mentre Gesù contro chi ragionava in questi termini ha scagliato parole di fuoco: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,6-8).

Perché il comandamento di Dio – come ci ricorda sempre Giovanni nella sua I lettera – non era un’adesione a un codice etico o a una precettistica cultuale – per salvarsi la vita –, bensì: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri».

Il discorso – è bene chiarirlo – non vuole andare nel senso di un discredito di una correttezza morale o di una legittima scrupolosità cultuale: piuttosto ciò che si vuole ribadire è la loro non decisività. Sono cose importanti, ma non sono il nocciolo incandescente della fede cristiana. Questo è il punto: “rimanere in Lui” è ben più che garantire un’irreprensibilità morale o rispettare le norme liturgiche della propria comunità religiosa. “Rimanere in Lui” è l’entrare in relazione con Lui, il decider-si per Lui, il coltivare un intreccio di libertà che impregna ogni tempo della vita. Questo vuol dire credere «nel nome del Figlio suo Gesù Cristo»: riconoscere cioè l’impossibilità per l’uomo di fondare se stesso (e questa è un’evidenza della storia, prima ancora che un dato di fede: nessuno sceglie di nascere; tutti hanno bisogno di qualcuno per crescere e più radicalmente per vivere; nessuno può salvarsi la vita dalla morte) – «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, così neanche voi» – e dare credito all’affidabilità del fondarsi in Gesù – «senza di me non potete far nulla».

È questo ritenere credibile il fondare la vita su di Lui che apre ad un entrare in relazione con Lui: è perché in Lui – cioè nella storia di Gesù – intuiamo la promessa di Vita, che lo scegliamo come Signore della nostra vita. “Rimanere in Lui” è dunque godere della sua compagnia. E se dietro a questo “Lui” siamo capaci di non immaginarci un Signor Nessuno, imprevedibile e pericoloso per i poteri che ha, ma di riconoscere il volto di Gesù che la sua storia lascia intravedere, il “rimanere in Lui” non può che essere liberante.

Ecco perché Giovanni si azzarda addirittura a dire che «se il nostro cuore non ci rimprovera nulla», allora vuol dire che «abbiamo fiducia in Dio»; che è una frase potentissima, che scardina dal di dentro tutta una morale fondata sui sensi di colpa… Se qualcuno infatti venisse a dirci che il suo cuore non gli rimprovera nulla, noi certamente penseremmo che è un superficiale, o uno che ha abbassato o azzerato le soglie della consapevolezza di sé… E chissà perché non ci verrebbe in mente invece di trovarci di fronte a qualcuno che ha avuto così tanto coraggio da dar credito davvero al Signore, da entrare fattivamente in un rapporto con Lui, in un “rimanere” che gli alimenta la Vita e lo libera dalla paura della morte e dunque del peccato…

Il fatto è che le logiche sono diverse: come prima diversi erano i piani del discorso. Gesù ha sempre parlato al livello profondo del senso delle cose, della verità dell’esistenza, della salvabilità dell’identità di ciascuno attraverso l’amore, della possibilità per tutti di essere sé di fronte a Lui, dunque di essere tenuti, voluti, amati, salvati… La nostra ricezione invece rischia sempre di scivolare a delle applicazioni pratiche (Cosa devo fare? Andare a messa, andare a confessarmi, non toccare, non toccarsi, non farsi toccare, ecc…) che perdono il senso delle cose, la freschezza di una relazione, la straordinarietà del parlare a tu per tu con Dio, la gioia vera del vivere secondo il vangelo, di amare i fratelli…

Forse perché ultimamente sappiamo, come si vede dalla I lettura, che chi con coraggio ci prova a introdursi in questa relazione, poi – per amore – rischia sempre di fare una brutta fine: Paolo, da quando incontra il Signore, continua a essere oggetto di desideri omicidi e infatti scappa prima da Damasco con la cesta, poi da Gerusalemme per aiuto dei fratelli…
Ma la paura di perdere la vita non si placa con un goffo tentativo di pagare a Dio la nostra vita eterna… essa perde la sua ragione di esistere quando si entra in relazione autentica col Dio-Amore di cui ci si fida!

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