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martedì 24 aprile 2012

IV Domenica di Pasqua


In questa Quarta Domenica di Pasqua, la Chiesa ci propone il testo evangelico di Gv 10,11-18, in cui Gesù dice di sé “Io sono il buon pastore”.

È una dichiarazione identitaria molto forte, ricca di tanti echi, che – come tutte le dichiarazioni identitarie – funge come da posizionamento o riposizionamento di chi parla e di chi ascolta. Una posizionamento, una ricollocazione, che trova conferme anche nelle altre due letture, in particolare:

-          quando Pietro, nel suo discorso riportato da Atti 4, dice: «Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In  nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»;

-          e quando Giovanni nella sua Prima Lettera, afferma: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio».

Testi, questi, in cui i paradigmi del ricollocamento sono il suo essere pastore/ pietra e il conseguente fare di noi dei salvati / sue pecore / figli di Dio.

Sono tutte parole ben note, già molte volte sentite, ricche di rimandi e riferimenti che la nostra testa e il nostro cuore, in maniera immediata (cioè non mediata da uno sforzo riflessivo) produce, automaticamente.

Ma – dato che l’automatismo, per noi popolo di dura cervice e cuori di pietra, è sempre pericoloso, perché rischia di partire non da ciò che la Scrittura dice di Dio e del suo Figlio Gesù, e quindi di noi, ma dall’idea deformata di dio che abbiamo in testa – è forse necessario soffermarsi un attimo su cosa intenda Gesù autodichiarandosi in questi termini.

Dicevamo, Egli dice di sé: “Io sono il buon pastore”, attingendo in questo modo a quell’immaginario campestre, che gli forniva una potenza metaforica fortissima: Egli è colui che conduce le pecore. E che le conduce in maniera buona: non è solo un pastore e nemmeno semplicemente il pastore, ma “Io sono il buonpastore”.

E che cosa fa di un pastore un buon pastore? «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore».

Dunque ciò su cui l’affermazione identitaria di Gesù vuol far cadere l’attenzione è questo: il pastore è buono perché è affidabile, a costo di dare la vita.

E per sottolineare maggiormente quanto qui stia il centro del suo auotaffermarsi, ecco il paragone (in negativo) col “pastore” mercenario: «Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è mercenario e non gli importa delle pecore».

Il “pastore” mercenario è quello che controlla le pecore, le cura, ma non se ne prende cura… perché non gli appartengono e – dunque – al sopraggiungere del pericolo (il lupo) pensa a salvare la propria pelle, non quella delle pecore, di cui «non gli importa».

Sarebbe interessante rileggere la storia di chi si fa pastore (nei vari ambiti che costituiscono il nostro umano vivere) da questo punto di vista… Chi è / è stato buon pastore e chi è / è stato “pastore” mercenario…?

Sarebbe ancora più interessante guardare alla nostra vita personale, a quando noi ci facciamo pastori, e rileggerci in questa prospettiva… Quando siamo / siamo stati buoni pastori e quando siamo o siamo stati “pastori” mercenari? Dove? Con chi? Perché?

Ma ci porterebbe troppo lontano… e forse è bene che ognuno maceri tra sé e sé questa riflessione…

Anche perché – nel testo – la figura del “pastore” mercenario, funge semplicemente da contrasto a quella del pastore buono: è lì per dire cosa Gesù non è! Non è uno a cui le pecore non appartengono (dunque è uno che sente sue le pecore: con loro ha legato i destini per sempre, qualunque cosa succeda, senza che da questa scelta si possa tornare indietro); non è uno che quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge (dunque è uno che non abbandona e non scappa via, mai, qualsiasi sia il pericolo, lo spavento o l’abisso che si presenta, foss’anche morirci); infine non è uno a cui non importa delle pecore (dunque è uno che ha stretto legami profondi con le sue pecore, con loro ha intessuto le viscere, ha scritto la storia, si è scavato l’anima, così che non sia più possibile capire dove comincia l’una e finisce l’altra, sono tessute insieme).

Da cui il senso di quel “conoscere” contenuto nella ripresa finale del discorso: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore».

È una ripresa ribadente (si ripete infatti il “Io sono il buon pastore” e il “dò la vita per le pecore”), che però, come sempre ama fare Giovanni, allarga il diametro del medesimo cerchio, aggiungendo una seconda relazione, quella del buon pastore con il Padre, dove la cosa interessante è il parallelismo che viene instaurato: il rapporto di Gesù col Padre è come quello che Egli ha con le sue pecore… ha la stessa matrice…

Che è una cosa che detta così, sembra una cosettina, ma che invece, se ci pensiamo bene, è di una potenza strepitosa: Gesù ha con me la stessa intenzione relazione che ha col Padre suo!

Che è un ulteriore elemento del suo autodichiararsi…

Allora… per tirare un attimo le somme…

A noi – spaventati grumi di sangue, gettati in una storia che sembra aver perso una qualsiasi idea di rotta, perennemente alla ricerca di due braccia tra cui morire e per cui vivere, che ci assicurino un poco di calore, di casa, di sicurezza, di illusione di durata, che fingiamo di credere affidabili, ma che sappiamo benissimo non esserlo (proprio come le nostre) – il Signore sopraggiunge con questa autodichiarazione: Io sono uno che ti considera mia, che non ti abbandona e non scappa via, perché di te mi importa più che di me e non perché mi sto sbagliando sul tuo conto, ma proprio perché ti conosco, così tanto, quanto il Padre mio.

E nemmeno la morte potrà rompere questa promessa di affidabilità, «perché io dò la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».



Io credo sia questa la ricollocazione in cui l’autodichiararsi di Gesù in questi termini ci pone. È di questa relazione che il cristiano vive: tutto il resto arriva sempre dopo.

È questo il vangelo da annunciare fino ai confini del mondo (quelli esterni e quelli dell’animo nostro): la prossimità affidabile del Signore…

Che – proprio perché è congegnata così, come una relazione di prossimità – diventa annunciabile solo in una relazione di prossimità.
Ecco che allora, le nostre inaffidabili braccia, le nostre dubbie intenzionalità di cura, i nostri sempre ambigui gesti di amore, trovano la loro verità (anche se rimangono maldestri, un po’ pasticciati, mai univoci), perché hanno dentro l’annuncio della sua affidabilità!


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