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lunedì 16 aprile 2012

Il dito in ciò che fa paura. Ovverossia quando la Croce si fa Pace.


Ecco un Vangelo (Gv 20,19-31) che i secolari strati di precomprensione ideologica ci hanno impedito di gustare in tutta la sua freschezza originaria. Erasmo da Rotterdam ha scritto l’“Elogio della follia” forse sarebbe bene che qualcuno pensi a scrivere l’“Elogio della polemica”. Davanti al testo biblico, la lettura “passiva” ci impedisce di coglierne il significato autentico. Col testo biblico bisogna litigarci, contestandone spesso le affermazioni, rifiutando un lettura secondo i luoghi comuni. E spesso non credere al significato immediato che cogliamo alla prima lettura. In una parola “polemizzare”. Chi non polemizza vuol dire che non ha cervello da usare, idee da mostrare, verità da comunicare, vita da donare…

Per questo pretendiamo di chinarci sul testo… torturandolo!
E così leggiamo proprio all’inizio qualcosa che non quadra: “…mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei…”. Immediatamente pensiamo che i giudei dessero la caccia agli apostoli… e gli apostoli per paura si fossero barricati in casa! Sbagliato!

Intanto notare il lapsus: ho scritto apostoli… quando il testo invece usa un termine discepoli, che indica una platea più ampia dei Dodici, oramai Undici! Tutto il doppio racconto quindi non parla del gruppo ristretto degli apostoli ma di tutta la comunità credente. E infatti non solo agli apostoli ma a tutta la comunità credente si rivolgerà nel prosieguo Gesù stesso! Ci ritorneremo.
Poi la storia dei giudei che cercano i discepoli non è credibile! Da quando in qua i giudei davano la caccia ai discepoli di Gesù? In tutti i vangeli non ce traccia alcuna. E cominciano ora che hanno – mi si perdoni l’espressione –tagliato la testa al gruppo? Suvvia! A loro interessava solo Gesù. La paura degli apostoli quindi era infondata. Immaginaria. Sostanzialmente irrazionale, quindi stupida! Ma quel che è scritto è scritto e il testo non si può cancellare a nostro piacimento. Allora la domanda si approfondisce: quale senso dare all’affermazione dell’evangelista? Non certo quello immediato perché privo di logica. Certo la paura spesso è irrazionale… ma se l’annotazione ci volesse dare un indizio di ciò che la comunità dei discepoli e discepole stava vivendo? La risposta che dobbiamo cercare deve anche accordarsi col resto del racconto, che segue e che precede… Vediamo.

Un discepolo, e che discepolo, uno dei Dodici, aveva consegnato Gesù. Gli altri lo avevano abbandonato (tranne le donne!)… spergiurato di non conoscerlo… Immagino allora questi discepoli che si accusano l’un l’altro di avere tradito il Maestro. Di essere in fin dei conti la causa della sua morte. E che morte, da schiavo! Immagino il loro sguardo impaurito nel guardarsi reciprocamente: tra di loro c’era un nemico e non lo sapevano! E forse altri come Giuda potevano trovarsi in mezzo a loro? Una domanda sola li attanagliava: tra i discepoli c’erano degli “infiltrati”? Ecco di quali “giudei” avevano paura, non di quelli fuori, ma di quelli dentro al gruppo. Ancor più stupido allora era chiudersi dentro… ma si sa la paura è cattiva consigliera! E se anche non avevano paura degli altri discepoli, c’erano sufficienti ragioni per non fidarsi nemmeno più di se stessi: se la paura aveva addirittura spinto Pietro a tradire il Signore… cosa non avrebbe fatto contro gli altri discepoli? Come lo stesso Pietro, poteva fidarsi di Pietro? Aveva giurato fedeltà e si era ritrovato a spergiurare tradimento!
Questa paura era così forte che il “vedere e credere” di Giovanni e Pietro al mattino non era stato sufficiente a sciogliere quella morsa che li attanagliava alla bocca dello stomaco. La testimonianza di Maria Maddalena non era stata di maggior aiuto a sciogliere il cuore. E in questo stato arrivano a sera. Come sempre in Giovanni, il buio di fuori, mostrava un buio ancor più fitto dei cuori. Il buio ancestrale (cfr Gn 1,2) della paura.
E mentre sono riuniti, uniti come potrebbero esserlo due che si accapigliano, “venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Gesù arriva, sta, in mezzo, e dice. L’evangelista non dice “appare”, perché è un arrivare, un stare, un stare in mezzo e un dire, che appartiene all’ordine della fede. Mai in tutto il vangelo (e nella bibbia) c’è qualcosa che esula dalla fede. Lo stesso Gesù vive nella fede il suo rapporto col Padre. Non diversamente i suoi discepoli di ieri e di oggi. Anche la resurrezione non sfugge alla stessa logica. Se vedono, “vedono” solo nella fede. Quella dei discepoli è e sarà sempre una esperienza di fede, non tangibile e dimostrabile. Gesù è presente in mezzo ai suoi… la morte non lo ha separato da loro. Per questo “sta”. E non a fianco, ma “in mezzo” come ponte che li unisce dentro ogni conflitto, divergenza, sospetto… E dice, cioè dona facendola, l’unica cosa che quel gruppo (ogni gruppo) ha veramente bisogno: la Pace! Il dissolvimento di ogni paura non basta, perché sotto forme diverse ritornerebbe. Occorre di più, occorre la Pace (cfr Gn 1,3). E come fa a donarla? Mostra i segni che i discepoli – indirettamente, ma non meno responsabilmente – gli hanno inflitto! Forse temevano che Gesù tornasse per vendicarsi? Se anche l’avessero pensato, con questo gesto Gesù dissolve ogni dubbio. E ogni paura. E finalmente i discepoli gioiscono nella pace.

Curioso questo presentarsi di Gesù. Ma forse è vero, che noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28; ). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

E allora Gesù può dare di nuovo la Pace: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Se accogliere le ferite (le Sue e le nostre), sono il primo passo della pace, il secondo è “spalancare le porte” che avevamo sbarrato! Già altre volte i discepoli erano stati inviati in missione (cfr Mt 10,15; Lc 9.1ss; 10,1ss). Non è qui che il Signore “dà il mandato” anche se così appare nella struttura del vangelo di Giovanni. Semmai ora c’è bisogno di ribadirlo (come in Mt 28,19s; cfr anche Mc 16,20 e Lc 24,47), perché la paura glielo aveva fatto dimenticare. Non sono stati chiamati a seguire Gesù per stare al chiuso. Il mondo ha bisogno di pace. E non è lasciandoci vincere dalle sue paure che potremo donarla. Dei discepoli che hanno paura del “mondo”, sono già stati vinti dal “mondo”. La paura non appartiene al cristiano, appartiene a coloro che sono sotto il potere di satana (Eb 2,15 )! Ecco chi è satana, è la paura che ci abita. Ma c’è chi ha vinto satana: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”. Lo Spirito del Risorto è Colui che ha vinto ogni paura. Anche di Dio! perché ce lo ha mostrato Padre misericordioso. Figuriamoci del resto!

Il cristiano è colui che non ho paura di Dio, perché Dio è suo amico; non ha paura del diavolo, perché Dio l’ha sconfitto; non ha paura del peccato perché in Cristo è stato perdonato; non ha paura della morte perché ora non può che dargli la vita; non ha paura di niente, perché niente può essergli tolto. (cfr Rm 8,31ss)

Finché vive nel perdono, accolto e donato, la paura non lo possederà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Ecco qui un’altra bella espressione che per secoli abbiamo travisato. Qui Gesù non sta dando nessun potere ai preti. Il sacramento della confessione qui non c’entra niente. Infatti si rivolge a tutti i discepoli, uomini e donne, e non a una categoria ben precisa. D’altronde a pensarci bene che me ne faccio del perdono di Dio o del sacerdote, se quando torno a casa, le persone che amo, con cui vivo, con cui lavoro, sono incapaci di perdonarmi? È del loro perdono che ho bisogno! Vero sacramento di quello di Dio (Mt 5,23ss). Abbiamo relegato il perdono negli angoli bui delle nostre chiese, e abbiamo dimenticato che se quel sacramento esiste il suo scopo è trasformare tutta la nostra vita in una continua riconciliazione.
Per questo l’evangelista ci avverte della responsabilità che i cristiani hanno nel “vanificare” storicamente la passione di Cristo. Gesù sta dicendo: aprite quella benedetta porta, andate ad annunciare al mondo la pace della riconciliazione degli uomini tra di loro e con Dio. Se questo non accadrà (non saranno perdonati), questa sarà la vostra responsabilità perché non siete stati capaci di perdonare (a coloro a cui non perdonerete). Può un discepolo non perdonare quando il Cristo nel mostrare le sue ferite e nel dono dello Spirito di Dio, rivela il perdono senza limiti del Padre? Assolutamente no! Se non perdona è perché si lascia vincere dalla paura (del mondo). In tal modo cesserà di essere testimone della gioia pasquale. Se il mondo non ha pace – e il mondo in quanto “mondo” non può darsi pace – è perché i cristiani non si lasciano guidare dalla gioia pasquale. Una chiesa che passa il tempo a stilare nuovi elenchi di peccati è una chiesa che rinuncia ad annunciare nuovi modi di accoglienza e perdono. È una chiesa non più pasquale.
Se c’è un “peccato contro lo Spirito Santo” (cfr Mc 3,28s) che non può essere perdonato è proprio questo: colui che non perdona, non può essere perdonato. Lo proclamiamo anche nel “Padre Nostro”. La chiesa riceve lo Spirito per donarlo, se non lo dona per paura, tradisce la propria missione!
Insomma la pace nel mondo dipende dalla nostra capacità di perdonare, e se il mondo non troverà pace è e sarà colpa di coloro che non sanno comunicarla perdonando sempre e comunque. Credere nella Risurrezione è creare sempre e comunque cammini di riconciliazione.

Ma Tommaso non c’era… simpatico questo Tommaso. Intanto subito una qualità: lui non aveva paura! E lo dimostra anche con le sue pretese. Ovvio che se i discepoli erano rinchiusi per paura e Tommaso non c’era, Tommaso era “fuori”. In mezzo a quei giudei che gli altri temevano. Una fatto in più che giustifica quanto dicevamo sopra: la paura degli altri discepoli era immaginaria. Tommaso infatti va e viene. Passa una settimana a discutere (gli dicevano). Ma la fede non si trasmette con ragionate parole, ma mostrando il cuore cambiato dalla gioia della pace. Ed è quella che Tommaso doveva cercare di vedere negli altri discepoli: le paure che si erano trasformate in gioia. Ammesso che perdurasse! Perché stranamente otto giorni dopo, ancora le porte erano chiuse… Forse i dubbi di Tommaso rendevano meno salda la gioia degli altri? Possibile! Nessuna nostra certezza è così insensata da essere priva di dubbi, se poi qualcuno ce li mostra, allora le nostre certezze sono incapaci di testimoniare gioia, ma solo ostinate convinzioni. Che non convincono nessuno. E allora anche qui come prima, all’apoteosi del diverbio, quando sembra di non poterne venire a capo, col rischio di perdere altri discepoli e sfaldare ulteriormente la già indebolita comunità, Gesù si presenta “in mezzo”. E tutta la comunità credente, nelle mani di Tommaso, può finalmente infilare le dita nelle piaghe che facevano tanto paura e che ora invece donano la pace della fede nel perdono.

Il grido di Tommaso deve diventare il nostro grido, se solo osassimo fare altrettanto! Eh sì! Perché anche questo episodio mi sembra sia stato travisato non poco. Intanto senza vedere non si può credere (cfr Gv 20,8)… i segni del quarto vangelo sono tutti lì a ricordarcelo. E non bastano! Il problema allora non è tanto cosa vedere, ma soprattutto come guardare!
E allora mi sembra che tutto il racconto sia una pedagogia alla fede. Si illude di poter credere colui che pensa di poterlo fare senza guardare le “piaghe” del Signore. Si illude di poter credere colui che passa oltre le piaghe del fratello (Lc 10,33ss). Si illude di arrivare alla fede colui che non infila le dita e le mani nelle ferite della storia. Guardare non basta: è bastato poco per spazzare via la gioia che i discepoli avevano sperimentato (la porta era ancora chiusa!). Occorre infilare le dita, tendere la mano sulle ferite. Solo quel gesto ci fa capire il senso della sofferenza che abbiamo inflitto all’altro ed è stata inflitta a noi. E chiedere e offrire il perdono. Non abbiamo bisogno di uscire dalla storia per credere (Perché mi hai veduto, tu hai creduto… beati quelli che non [mi] hanno visto…). Per fare esperienza della gioia pasquale (beati) è necessario chinarsi sulle piaghe con cui Gesù si è identificato: beati quelli che non hanno preteso di vedermi per credermi presente in mezzo a loro nelle piaghe del fratello ferito! Beato colui che non si scandalizza della fragilità di una comunità (credente o non credente) per scoprire la mia presenza in mezzo alle ferite di questa stessa comunità.

L’itinerario della fede comincia dalla capacità (ricevuta!) di vedere attraverso le ferite del fratello, le ferite stesse del Dio di Gesù Cristo. Che mi liberano.
Colui che passa il tempo a recriminare contro le ingiustizie del mondo, dimentica che Dio ha mandato proprio lui per rimuoverle. In attesa che lui si decida a scegliere l’impotenza del proprio agire (questa è la Croce!), Dio ha scelto di condividere l’avventura della vittima (anche per questo Gesù mostra le piaghe: solo quelle sono vincenti!). Per salvare anche il carnefice. Se si vuole che Dio per noi risorga (Mio Signore e mio Dio!), lo si liberi dalla morte liberando il fratello da ciò che lo uccide…
Questa esperienza è l’unico modo di conoscere il Risorto.

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