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venerdì 22 giugno 2012

Natività di Giovanni Battista





Il 24 Giugno la Chiesa festeggia la Natività di Giovanni Battista.

E se anche – apparentemente – questa può sembrare una festa tra le altre, una delle tante indicazioni del calendario liturgico, in realtà, almeno due elementi dovrebbero subito farci attenti al fatto che in gioco vi è qualcosa di particolare:

-          Innanzitutto il fatto che la festa di un santo sostituisca le letture della domenica!

-          In secondo luogo che si tratti della festa della nascitadi un santo, non del suo martirio (che è festeggiato il 29 Agosto)… cosa che accade solo per Gesù e per Maria!

Si tratta dunque di un personaggio speciale, sul quale peraltro ci si sofferma anche in altri periodi liturgici (penso in particolare all’Avvento), ma che molto spesso noi tendiamo a dimenticare, facendo l’implicito ragionamento che se è solo il precursore, tanto vale concentrarsi sul protagonista, Gesù!

E se questo pensiero, indubbiamente, ha una sua parte di verità, non si può però nemmeno dimenticare l'altro versante, quello cioè per cui ciò che è scritto nei vangeli non è semplicemente il racconto di una storia, ma il cammino che la prima Chiesa ha delineato per accedere alla fede.

In questo senso Giovanni Battista non può essere guardato meramente come un “fase” preliminare del racconto che, quando si entra poi nel vivo, può passare in secondo piano, ma deve essere assunto in tutta la sua pregnanza di attestazione della struttura credente: noi siamo Giovanni Battista e continuiamo a esserlo anche dopo aver avuto accesso all’esperienza storica di Gesù.

Per comprendere questa cosa è forse utile ripercorrere la parabola del Precursore, così come ce la attestano i vangeli.


Per prima cosa, Giovanni è il personaggio evangelico che forse più di tutti – come scrive Giuliano in “Con Marco in cammino verso il Regno” – mostra come «l’esperienza di Dio non viene mai prima», la nostra conoscenza di Gesù, il nostro contatto con lui è sempre storico: «Niente noi possiamo avere di non storico». E storico vuol dire carnale, temporale, mescolato a sudore e sangue... Vuol dire – riferito al rapporto col Signore – che esso non è mai scioglibile dalla nostra umanità, fatta anche di limiti, inadeguatezze, stanchezze, ritardi, infedeltà...

L’annuncio del Battista mette in luce proprio questo: il desiderio di arrivare a Lui è inestricabilmente legato alla nostra impossibilità di produrre questo incontro.

L’esperienza che fa Giovanni infatti è proprio quella di desiderare la venuta del Signore e allo stesso tempo di esserne incolmabilmente distante. Ecco perché, insieme a tutta una tradizione di asceti, mette in atto una serie di tentativi che dicono il desiderio di colmare questa distanza: vesti di peli di cammello, digiuno, deserto... in una parola «quelle regioni sacre, le possibilità di vita umana che noi riteniamo meno compromesse con la storia, con la malvagità, con la distanza da Dio».

Giovanni Battista infatti ha come prima caratteristica quella di essere il profeta penitente. Questo termine nella Bibbia non ha propriamente il significato di mortificazioneche ha assunto ai giorni nostri; piuttosto con penitenza si intende «il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto “convertirsi”».

Giovanni vuole dunque preparare il cuore del popolo all’avvento del Messia, convincendosi e convincendolo della sua distanza da Dio e dunque della necessità della conversione. In questo senso il suo annuncio suonerebbe più o meno come un: “Guardate che siamo lontani da Dio, bisogna cercare di arrivarci!”.

È quanto anche noi spesso tentiamo di mettere in atto quando ci accorgiamo che le cose non vanno: facciamo un po’ di violenza su noi stessi in modo da scuoterci e dire: “No. Adesso basta. È ora di cambiare. Di rivolgerci al Signore”.

«Ma la coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile. Giovanni Battista ne aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco”». La penitenza dunque è sterile, inutile, addirittura inacidente, se è fine a se stessa, se non mantiene sempre la consapevolezza di essere pedagogica: di servire perciò a preparare sé e gli altri ad accogliere Qualcuno.

Ecco perché il Battista oltre a essere il profeta penitente è anche il profeta “ultimo”, perché «uno che ha ricevuto il Vangelo [l’annuncio del possibile incontro tra Dio e l’uomo per volontà e ad opera di Dio in persona!] non può più illudersi che ci sia ancora spazio per salvarsi con questa penitenza: [...] il Signore ha rivelato che dopo Giovanni Battista le penitenze, se non sono dirette al Signore, non servono a niente, non cambiano il cuore di fronte a Lui. Il Vecchio Testamento è finito con il Battista».

Gesù in Matteo 11,11 ribadisce proprio questo: «Tra i nati di donna non è sorto mai nessuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui»: è (solo) il più grande del Vecchio Testamento, non era possibile fare di più, infatti il più piccolo del Nuovo Testamento è più grande di lui. «E si capisce perché: ha ricevuto in regalo Dio nella sua storia, nella sua vita!».

Ma proprio qui si innesta l’imprescindibilità e l’insuperabilità di Giovanni Battista, del nostro essere strutturati come lui: perché anche quando abbiamo incontrato Gesù e ci siamo sbilanciati verso di lui, la nostra carne fatica ad essere definitivamente persuasa del ribaltamento teologico di cui Egli è portatore, quello cioè per cui non è l’uomo che può e deve arrivare a Dio, ma è Dio che – perché Padre – è in cerca dell’uomo.

Sembra quasi un gioco di parole, ma se provassimo ad assumerlo sul serio, ci accorgeremmo di quanta parte del nostro essere, del nostro pensare, pregare, scegliere andrebbe “convertito”.

Innanzitutto perché ci renderemmo conto che ciò che anima la nostra relazione al Signore, molto più che il nostro interesse di trovare (guadagnare!) una salvezza (per l’aldiqua e l’aldilà), è il suo interesse di avere parte con noi. Interessa molto più a Dio di me, di quanto a me interessi di Lui! Questo è ciò che senza ombra di dubbio emerge dalla lettura dei vangeli!

E questo sfonderebbe la dinamica della paura di Dio (che è ancora quella di Giovanni e nostra, di noi novelli Battisti), per la quale il nostro modo di stare al mondo si orienta sull’essere a Lui graditi o meno… che è una cosa molto diversa da quella che dice Teresa di GB che viveva orientata a “far piacere” al Signore (“piacere” a Dio e “fargli piacere” sono lontanissimi!): «Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo piccolo giocattolo. Gli avevo detto di non servirsi di me come di un giocattolo di valore che i bambini si accontentano di guardare senza osare toccare, ma come di una piccola palla di nessun valore che poteva gettare a terra, spingere con il piede, bucare, lasciare in un angolo o anche stringere sul cuore se questo Gli faceva piacere. In una parola volevo divertire il piccolo Gesù, fargli piacere», [Manoscritto A].

Per Giovanni Dio è ancora colui dal quale ti puoi aspettare tanto il bene quanto il male, magari non in maniera indiscriminata (come era per gli dei capricciosi dell’Olimpo) ma retributiva (il bene ai buoni, il male ai cattivi; il bene a me quando sono buono, il male a me quando sono cattivo), mentre per Gesù no: tutta la sua parabola storica può essere letta come un grido implorante all’uomo perché gli creda quando dice che Dio è Abbà.

Ed è perché Teresa gli ha creduto, che può dire quel che dice. Ed è per questo che è santa! Perché nella lotta spirituale (che non è quella contro i vizi, ma è quella contro le false immagini di Dio!) ha rotto definitivamente la dinamica della paura, ha mandato in frantumi il volto del Dio pauroso con cui la sua cultura le aveva tessuto l’anima.

Ma Giovanni non va disprezzato né superato, perché tutte le nostre anime sono state tessute col filo della paura di Dio (forse questo è il cosiddetto “peccato originale”); lo ripeto ancora, noi siamo Giovanni. Ma dentro a questo tessuto, anche noi possiamo fare quell’esperienza (e la dobbiamo far fare ad ogni uomo!) che Teresa traduce scrivendo: «Compresi che, se ero amata sulla terra, lo ero pure in Cielo» [Ivi].

Solo questa esperienza di due granelli di gratuità, seminati dentro all’insuperabile Giovanni che siamo (e a cui sempre rispunterà il dubbio su Dio, sul suo volto, con i conseguenti tentativi di adoperarsi per piacergli, facendo sforzi per migliorarsi, resistere ai vizi, aderire ad un ideale irreale di umanità pura…), terrà aperto il canale perché invece lo Spirito d’amore del Padre e del Figlio ci faccia compagnia e si diverta a stare con noi.

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