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martedì 30 ottobre 2012

XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 6,2-6)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 7,23-28)

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario, è un testo fondamentale. Lo sono tutti, ovviamente, ma ce ne sono alcuni che hanno una capacità sintetica tale, da emergere quasi fra gli altri e funzionare come da icona.

Siamo ormai all’interno del racconto della passione (siamo infatti a Gerusalemme): «Chi ha seguito Gesù nel suo cammino, nel Vangelo di Marco, ha sentito con quale radicale determinazione annuncia una rivoluzionaria visione dell’uomo, riportandolo al progetto originario di Dio, nel cuore delle grandi relazioni che costituiscono la nostra umanità (sessualità e fedeltà nell’amore – economia e condivisione dei beni – politica e dono di sé, invece che competizione per il potere), fino a convincere chi lo ascoltava della totale incapacità (cecità) dell’uomo… a seguirlo. Ecco allora la preghiera del cieco di Gerico: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me! … che io riabbia la vista!

proseguendo il viaggio Gesù, con i suoi discepoli, arriva in città, a Gerusalemme… dove inizia lo scontro finale con i capi dei sacerdoti, i farisei e gli erodiani sul “covo di ladroni” quale era divenuto il tempio, sull’autorità con la quale Gesù si propone, sulla drammatica infedeltà di Israele, sulla moneta di Cesare, sulla risurrezione… e sempre più la lettura che Gesù fa delle situazioni che vede e delle questioni che gli presentano è totalmente diversa dalla mentalità corrente. Sentendo la profondità delle risposte di Gesù, uno scriba, cioè uno specialista delle Scritture, con simpatia (secondo Marco), interroga Gesù: Qual è il primo di tutti i comandamenti? Come a dire… e DIO? Dove va a finire, cosa ne è? – in tutto questo “stravolgimento” della legge, del tempio, delle tradizioni, delle mediazioni culturali ed etiche, che si erano faticosamente sedimentate nei secoli? Qual è la chiave di volta di tutta la storia della salvezza raccontata nelle Scritture? L’asse portante della vita e della interpretazione – o senso – di essa?

È l’amore, replica Gesù:“più grande di questo, altro comandamento non c’è?”» [Giuliano].

L’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Prima Dio, poi il prossimo…

Così sembra dire il vangelo di Marco, come anche quello di Matteo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Leggee i Profeti» (Mt 22,37-40).

E in effetti ci sembra scontato: noi abitualmente pensiamo così. Un buon cristiano innanzitutto ama Dio e poi (di conseguenza – quasi per far piacere a Lui che l’ha “comandato”) anche il prossimo. Tant’è vero che nella storia della Chiesa hanno sempre più assunto maggior peso e “odore di santità” le persone che lasciavano il mondo (i prossimi) per “stare più vicini a Dio”, per amare Lui solo, ecc… Anche oggi, tra le varie scelte di vita che un cristiano può fare, si pensa sempre che la vita consacrata o sacerdotale sia “un po’ più cristiana” delle altre, un po’ più vicina a Dio, appunto…

Eppure… qualcosa non torna in questo modo di pensare… Innanzitutto perché Gesù, per primo, ha passato molto più tempo per le strade e nelle case, che nelle sinagoghe, al Tempio o in luoghi eremitici; inoltre – se si guarda alla vita dei primi cristiani (leggendo per esempio gli Atti degli apostoli) – ci si accorge di quanto anche questi fossero sempre in giro, sempre immersi tra la gente, nelle vicende quotidiane dei suoi problemi (pensiamo alle lettere di Paolo) e poco rivolti col naso all’insù. Anzi gli Atti degli apostoli iniziano proprio con l’invito dell’angelo a tirar giù il nasone: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Forse allora quel “primo comandamento” e “secondo comandamento” non vanno pensati come se formassero una graduatoria… Forse lì dentro c’è qualcosa di un po’ più radicale.

Lo tratteggia l’evoluzione che questo passo ha avuto nei suoi paralleli di Luca e Giovanni.

Luca infatti, quando ripropone l’episodio di questo dialogo di Gesù con lo scriba, lo riscrive in questi termini (Lc 10,25ss): innanzitutto colui che si rivolge a Gesù è chiamato “dottore della legge” e formula questa domanda: «“Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”». È dunque in bocca al dottore della legge e non a Gesù che Luca mette l’associazione dei due passi dell’AT che formano il comandamento nuovo (Dt 6,5 e Lv 19,18), ma Gesù certifica quanto espresso dal suo interlocutore: «Hai risposto bene, fa questo e vivrai».

La cosa interessante è questo primo raccordo tra i due comandamenti, che – appunto – non sono più due, ma uno (manca infatti la dicitura “il primo è…”, “il secondo è…”, ma vengono espressi insieme con una “e” che li congiunge: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso).

Interessante poi che il prosieguo del testo di Luca si concentri sulla seconda parte di questo comandamento, quella che riguarda il prossimo. Il dottore della legge infatti disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?»; domanda alla quale Gesù risponde raccontando la parabola del buon samaritano, che si conclude con il contro interrogativo di Gesù: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», ribaltando il problema della prossimità, che non è più vista come delimitazione di una categoria (“Chi è il mio prossimo?” – e quindi “E chi non lo è?”), ma come disposizione interiore di ciascuno (“Chi è stato capace di essere prossimo al povero Cristo bastonato?” – e quindi “Cosa devo fare per essere capace anch’io di essere prossimo a chiunque?”).

Questo concentrarsi sull’amore per il prossimo (invece che sull’amore a Dio) a seguito del comandamento nuovo, lascia intuire che «Ama il prossimo tuo come te stesso è una conseguenza o esplicitazione storica dell’unico comandamento. Il dialogo vitale di amore tra gli uomini è il luogo della crescita reciproca nell’amore “divino” tra noi – secondo una dinamica interna che matura  progressivamente… e ci fa ricadere in Dio Padre, il solo capace di accoglierci (tutti insieme) nel cammino (nell’esodo) dalla nostra tormentata storia, a partire da Israele.

prima: "Prossimo" è il parente quelli della stessa tribù o popolo, appartenenti alla stessa alla grande famiglia allargata, che condivide sangue, lingua, religione, struttura sociale

poi: "Prossimo è colui a cui mi avvicino, o che si avvicina a me. A poco a poco, il concetto di prossimo si allargò, con diverse interpretazioni fino al tempo di Gesù, quando alcune scuole pensavano si dovesse uscire oltre i limiti della razza. Fu così che un dottore rivolse a Gesù questa domanda polemica: "Chi è il mio prossimo?" Gesù rispose con la parabola del buon Samaritano (Lc 10,29-37), in cui il prossimonon è né il parente, né l'amico… ma colui che si avvicina a te, indipendentemente dalla religione, dal colore, dalla razza, dal sesso o dalla lingua.

infine: la misura dell'amore al "prossimo" è amare come Gesù ci ha amato» [Giuliano].

Non a caso l’ultimo evangelista completa la parabola della fusione dei due comandamenti, esprimendosi così: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35), dove ciò che emerge è che Gesù non dice «Amatemi come io vi ho amato»,

 

              DIO
                |
                |
UOMO

 

ma («Amatevi [tra voi!!!] come io vi ho amato»).

Il comandamento nuovo, cioè, invita ad un amore debordante (nel senso letterale: che deborda):

 

    DIO
                  |
                  |
UOMO ---- ALTRI UOMINI

 

Anche perché – ricorda ancora Giovanni nella sua Prima lettera – «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

La parabola evangelica sul comandamento nuovo ci ha condotto allora a questo: il modo in cui Dio vuole essere amato coincide con il dirottamento del nostro amore sul prossimo. Un amore che ha la misura del suo: «Amatevi, come io vi ho amato».

Mi piacerebbe che a partire da queste considerazioni, provassimo – a livello personale ed ecclesiale – a ripensare a tanti luoghi comuni sull’amore di Dio e del prossimo che ancora ci abitano.

E vi lascio con i pensieri di Annalena Tonelli che sei anni fa, Giuliano riportava nella sua lectio:

“ … la vita ha senso solo se si ama. Nulla ha senso al di fuori dell'amore. La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli, ho rischiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell'uomo, la sua perversità, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare.

Se anche Dio non ci fosse, solo l'amore ha un senso, solo l'amore libera l'uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, in particolare solo l’ amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l’ amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce, perché non sa quello che fa, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo... Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Ed è allora che la nostra vita diventa bellezza, grazia, benedizione.

Ed è allora che la nostra vita diventa felicità anche nella sofferenza, perché noi viviamo nella nostra carne la bellezza del vivere e del morire”.

1 commento:

maria sole ha detto...

Annalena Tonelli viveva senza ruolo alcuno, nella più assoluta libertà la sua piena, totale conformazione in Cristo.
Era stata scelta, chiamata per nome, come il cieco Bartimèo, figlio di Timèo.
Grazie del ricordo.

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