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venerdì 1 febbraio 2013

IV Domenica del Tempo Ordinario (C)

Dal libro del profeta Geremìa (Ger 1,4-5.17-19)

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,31-13,13)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4,21-30)

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

 Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Quarta Domenica del Tempo Ordinario, è la precisa continuazione di quello letto la settimana scorsa. Là la liturgia aveva fatto la scelta di concentrarsi sulla prima parte della vicenda di Gesù a Nazaret – quella della sua auto-proclamazione come compimento della citazione di Isaia 61,1-2, ripresa anche all’inizio del brano odierno –, senza preoccuparsi delle reazioni suscitate nei suoi ascoltatori. Qui invece l’attenzione va precisamente su queste conseguenze: la meraviglia iniziale («tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca») si tramuta improvvisamente in rifiuto («tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fino al ciglio del monte per gettarlo giù»).

Curiosamente non sono i compaesani di Gesù ad esprimere la motivazione di questo cambiamento, ma è Gesù stesso che li previene: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Il problema immediato sembra dunque consistere nel fatto che Gesù faccia miracoli fuori dal suo paese e non li faccia invece in patria…

Problema che solo Luca identifica in questo modo: Marco (6,1-6) e Matteo (13,53-58) fanno infatti piuttosto riferimento ad un’altra ragione che avrebbe originato il rifiuto dei nazaretani, e cioè l’umile origine di Gesù, la sua condizione di falegname, che anche Luca ricorda (dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»), ma sulla quale non si attarda. Inoltre rispetto agli altri sinottici, Luca è l’unico a porre quest’episodio all’inizio del ministero pubblico di Gesù, trasformando quest’esperienza del rifiuto in un episodio di apertura. Gli altri infatti ne parlano più avanti, a missione inoltrata.

Certo, come precisa B. Maggioni, dal punto di vista storico paiono più corretti Marco e Matteo: «l’episodio di Nazareth non è la prima apparizione in pubblico di Gesù: tanto è vero che gli abitanti di Nazareth gli rimproverano di aver già compiuto molti miracoli altrove. Né – sempre dal punto di vista storico – si può dire che il rifiuto sia stato la prima reazione che Gesù ha incontrato: raccontando, infatti, subito dopo i miracoli compiuti a Cafarnao, Luca annota che “la sua fama si diffondeva in tutta la regione” (4,37) e che “le folle lo cercavano” (4,42). Tuttavia – pur essendo al corrente di tutto questo – l’evangelista ha scelto come episodio iniziale un rifiuto. Non c’è dubbio sulla sua intenzione. Storicamente l’opposizione alle parole e alle azioni di Cristo è cresciuta a poco a poco, ma Luca vuole che il lettore la incontri subito, fin dalle prime pagine, e vi rifletta. In tal modo il punto più delicato dell’intera storia di Gesù – il fatto cioè che abbia incontrato l’opposizione del suo popolo e sia stato crocifisso – non è differito, ma affrontato immediatamente. Da una parte il Messia che annuncia l’oggi di Dio e offre la sua liberazione ai poveri e ai peccatori, dall’altra gli uomini che ne provano irritazione: ecco il contrasto già chiaro nell’episodio di Nazareth e di cui l’intero vangelo vuole essere un’ampia illustrazione».

Il problema che dunque ci si profila a partire da questo vangelo è il rifiuto a cui il volto di Dio che Gesù rivela, va incontro. Più precisamente: il problema non è il rifiuto di Dio. Ci sono infatti immagini di dio che doverosamente sono da rifiutare! Ma il rifiuto di questoDio, di Colui che – come dicevamo settimana scorsa e anche quella prima – è incontrovertibilmente il Dio della Vita degli uomini, dell’umanizzazione delle loro dis-umanizzazioni… Colui dal quale inequivocabilmente giunge all’uomo solo il bene.

Il problema profilato da Luca allora non è semplicemente quello della particolare malvagità da imputare a quellagenerazione o a quegli abitanti di Nazareth, ma la comune durezza di cuore che si incontra dappertutto e in ogni tempo.

Perché, dunque, il rifiuto di questo Dio?

Io credo che il testo di Luca indichi una duplice e complementare linea interpretativa. Innanzitutto il fatto che precisamente questo volto di Dio faccia problema; e in secondo luogo il tratto di questo volto in cui emerge l’universalità della dedizione.

In altre parole, Luca sembra dire che, per un verso, il rifiuto di questo volto di Dio dipenda dal fatto che è un volto che non giustifica più la cattiveria umana, la ricerca di potere, il continuo riproporre logiche di sopraffazione; questo Dio infatti, in quanto Dio della Vita dell’uomo, di ogni uomo – in particolare del più debole –, non può più essere strumentalizzato contro qualcun altro (il povero non è il maledetto, il malato non è il peccatore, l’altro non è il nemico, l’eretico non è quello contro cui scagliare un guerra santa…); l’altro – anzi – proprio a partire da questo volto di Dio è sempre e solo fratello… Ecco perché diventa un Dio scomodo… perché non giustifica più la mia lotta per imporre me stesso, il mio popolo, la mia razza, il mio partito, la mia ideologia…

Per altro verso, il rifiuto di questo volto di Dio che si propone come Padre di tutti, dipende dal fatto che precisamente questo suo essere di tutti, immediatamente viene percepito dalla logica competitiva umana come meno mio: il problema degli abitanti di Nazareth è infatti che lui faccia miracoli anche altrove.

È sempre la medesima insofferenza che ci nasce dentro quando capita qualcosa di buono a qualcuno che non siamo noi o che non è dei nostri: come se il bene che capita ad un altro fosse immancabilmente qualcosa che è tolto a me, ai miei…

Ecco, precisamente queste sono le dinamiche del rifiuto che Luca vuole mettere in risalto: l’inaccettabilità di un Dio che non coincide con il mio idolo, con il vessillo della mia ideologia, con il “come lo avevo pensato io”; e l’inaccettabilità di un Dio che è anche il Dio di qualcun altro… anzi il Dio di tutti!

Sostanzialmente l’inaccettabilità di un Dio che mi chiede di essere fratello/sorella del mio prossimo, sempre e comunque, dell’altro, sia esso ricco o povero, oppresso o oppressore, libero o prigioniero, cieco o vedente, peccatore o santo, eterosessuale o omosessuale, ebreo o nazista, berlusconiano o bersaniano, buono o cattivo… Solo chi vede l’altro come un fratello/sorella, infatti, non sente come rubato a sé il bene che gli capita, ma anzi, sa dare la vita perché il bene capiti all’altro… (come si evince bene dalla famosa Lettera a Pipetta di don Milani, che vi metto qua sotto).

Ma appunto… tutto questo non è altro che inaccettabile, impossibile… e un Dio così, in-credibile, cioè non degno di fede… Non conviene credere a un Dio così, si finisce male… Perché è vero – e Gesù l’ha sperimentato sulla sua pelle: non c’è nulla di più feribile dell’amore che si dona.

Eppure è altrettanto vero che se, per paura di donarsi (di morire), ci si trattiene da questa modalità di stare al mondo, il vivere si tramuta in un triste e sterile sopravvivere impaurito, dove l’altro rimane sempre e solo colui che mi potrebbe fare del male e da cui dunque devo difendermi, e dio sempre e solo l’ultimo baluardo idolatrico della mia ideologia...

L’inaccettabile Dio della Vita e la sua impossibile logica dell’amore che si dona (sempre) sono allora davvero la più autentica possibilità per l’uomo di essere Uomo e per la sua vita di essere Vita…

Io almeno non ne ho trovate altre così affascinanti e credibili, così appassionanti e dilatanti, così azzardate e così belle… Così vivificanti e umanizzanti…

 
Caro Pipetta,
ogni volta che ci incontriamo tu mi dici che se tutti i preti fossero come me, allora…

Lo dici perché tra noi due ci siamo sempre intesi anche se te della scomunica te ne freghi e se dei miei fratelli preti ne faresti volentieri polpette. Tu dici che ci siamo intesi perché t'ho dato ragione mille volte in mille tue ragioni.

Ma dimmi Pipetta, m'hai inteso davvero?

È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così.

E quel caso è stato quel 18 aprile che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. È solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che…

Mi piego, Pipetta, a soffrire con te delle ingiustizie. Ma credi, mi piego con ripugnanza. Lascia che te lo dica a te solo. Che me ne sarebbe importato a me della tua miseria?

Se vincevi te, credimi Pipetta, io non sarei più stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell'altro Pane che tu dal giorno che tornasti da prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m'hai più chiesto.

Pipetta, tutto passa. Per chi muore piagato sull'uscio dei ricchi, di là c'è il Pane di Dio.

È solo questo che il mio Signore m'aveva detto di dirti. È la storia che mi s'è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta.

Ora che il ricco t'ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco.

Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch'io sono l'unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita.

E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m'avresti mai veduto scendere là in basso, a combattere i ricchi.

Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione.

Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione.

Ma come è poca parola questa che tu m'hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m'hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: «Hai ragione». Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all'unico grido di vittoria degno d'un sacerdote di Cristo: «Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro».

Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.

Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. 

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