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domenica 20 ottobre 2013

Chi la dura la vince

contagio di luce

A una prima lettura appare evidente nella liturgia di oggi il riferimento all’impegno costante sia nella preghiera che nell’annuncio missionario…

Così nel libro dell’Esodo, Mosè con le braccia alzate appare il vero autore della vittoria di Giosuè contro i nemici di Israele. Non è la forza di Giosuè ma la costante preghiera di Mosè – e in ultima analisi, Dio – ciò che fa vincere Israele!
La conclusione appare quindi ovvia: Senza la preghiera non riusciamo a vincere (Esodo)… e ad ottenere giustizia (Vangelo)! A questo livello di interpretazione, avere fede è perseverare con la preghiera incessante, fiduciosi nella promessa di Dio. Fiducia in Dio che salverà il suo fedele nonostante la storia sembri smentirla! Riappare quindi nel Vangelo il tema della costanza nella preghiera che abbiamo visto in un Mosè stanco e sostenuto dalla comunità (rappresentata da Aronne e Cur)… Esortazione alla costanza (a “tener duro”, endurance) che ritroviamo in san Paolo nella lettera a Timoteo!
Fin qui la lettura “tradizionale” (In questa chiave anche la preghiera iniziale della Colletta: O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te).
Tutte cose belle e giuste e che ci hanno guidato per anni e guidano ancora la vita di molti cristiani. Ma mi chiedo, “sperare contro ogni speranza” anche quando i fatti sembrano contraddirla, è ancora speranza? È questo il senso che intendeva Paolo? Non siamo davanti a «un ottimismo che toglie alle decisioni morali e alle nostre azioni quel senso acuto di responsabilità che invece dovremmo avere»? (Ernesto Balducci). Tanto Dio – si badi bene: Dio! – prima o poi vince(rà)! E l’uomo? Personalmente penso che una fede siffatta non sia molto diversa da quella del bambino che crede alla Fatina delle favole. Non è fede, è fideismo! L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione (Antonio Gramsci) è da schizofrenici, non da uomini che fondano sulla lucidità del pensiero l’agire della volontà.

Leggendo e rileggendo passi interi della bibbia e del vangelo abbiamo imparato a conoscere la figura di Mosè, di Paolo e di Gesù. E così decidiamo di non sorvolare più su certe sue espressioni fino a ieri oscure, perché pian piano sembrano illuminarsi di luce propria mentre altre assumono riflessi di significato nuovo. Cosa vorrà dire per esempio la frase spiazzante di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Di che fede sta parlando?

E allora rifacciamo il percorso che abbiamo fatto tante volte, cercando di guardare con occhi diversi i testi che abbiamo imparato a conoscere!
E ci accorgiamo che nella prima lettura l’unico che prega, se prega, è Mosè… e gli altri? Ma sta proprio pregando? Almeno nel senso nostro di preghiera. Cioè se Mosè prega, che preghiera è? In cosa si differenzia dalla nostra?… C’è forse qualcosa nel nostro modo di pregare che non sia preghiera?
Già sappiamo dalla bibbia che c’è un modo di pregare che Dio non sopporta, perché non ci umanizza, perché ci rende schiavi di ritualità vuota. Le invettive di Isaia ci fanno tremare: 1,4 «Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!» 1,11 «Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero?… Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12 … chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13 Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14 Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15 Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue». Di che sangue grondano le nostre mani?

Torniamo a Mosè: Mosè non aveva bisogno di pregare… almeno non nel senso nostro! Salvato dalle acque, poteva ringraziare la figlia del faraone se era ancora in vita! Crescendo avrà fatto le sue offerte rituali al dio Rha insieme a tutta la famiglia del Faraone. Aveva tutto Mosè: forza, ricchezza, salute, giovinezza e potere… Che cosa poteva dargli di più un dio? Ci viveva in casa (Faraone)! Certo aveva un grosso difetto Mosè che gli uomini potenti credono di non potersi permettere perché temono di perdere il loro potere (tirannico): aveva un forte senso di giustizia che lo porterà ad uccidere pur di difendere l’operaio ebreo vittima dell’arroganza di un egiziano. E così come Caino, fuggirà nel deserto! Forse in quella vita da fuggitivo il rischio di Mosè era che vivesse di nostalgia… ma in fondo aveva una vita tranquilla… s’era persino sposato!

E qui, rifugiato nel deserto, che accade a Mosè? Un Dio fino ad allora a lui sconosciuto, gli parla attraverso un roveto ardente! Se qualcuno l’avesse visto l’avrebbe preso per matto: parlare con un rovo in fiamme!

Ma il dialogo tra Mosè e il “roveto” è significativo: è il “rovo” (e non un albero maestoso!) che si rivolge a Mosè e gli chiede di esaudire un suo desiderio che aveva coltivato da sempre: libera il mio popolo! Sembra una fiaba! Ma non racconta favole: La vita di Mosè cambia radicalmente per la terza volta e la sua vita consisterà nell’impegno – fino alla morte – ad esaudire la richiesta di Dio. Anzi non Dio, ma Yhwh! Non è Yhwh che esaudisce le sue richieste ma lui che esaudisce le richieste di Yhwh! Se Mosè chiederà qualcosa a Yhwh, sarà solo per realizzare efficacemente ciò che Egli gli aveva chiesto. Ecco perché quando Mosè si arrabbia – dice il testo – è punito da Yhwh. Come a dire: Mosè, non è mica un tuo progetto! Se ti arrabbi stai trasformando il progetto di liberazione di Yhwh in un tuo progetto di potere!
La vita di Mosè insomma ci insegna che la preghiera non è quella “cosa” con cui chiediamo a Dio di esaudire le nostre esigenze, ma è preghiera quella che cerca di comprendere i desideri di Dio per poterli esaudire nella storia! Anzi non di Dio, ma del Padre!
La vita dell’uomo si realizza, l’uomo si umanizza, nell’appagamento dei desideri dell’altro (Padre, prossimo) non dei propri! Perché i propri sono solo progetti di potere!

Yhwh sa che il popolo di Israele è la propria “memoria” storica. Se viene distrutto Israele, viene distrutta la sua presenza storica e Yhwh sparisce dalla storia! – Ogni antisemitismo mira a questo e anche per questo non potrà vincere mai! – Tra Israele e Yhwh c’è un solidum esistenziale sancito con Alleanza eterna mai superata e superabile. Così la storia dell’uno dipende dalla vita dell’altro e viceversa! La richiesta di Yhwh a Mosè, agli israeliti, a ogni uomo, in fondo è: “Fammi vivere”! Che è ciò che invece siamo soliti chiedere noi a Dio!

Nella Bibbia, i poli della preghiera quindi sono capovolti rispetto ai “nostri”! E scopriamo che solo esaudendo i desideri di Dio, possiamo esaudire i nostri! La radice dell’uomo immagine di Dio, sta a questo livello. Mangiare dell’albero della conoscenza del male (e del bene) è mangiare un frutto che nemmeno Dio mangia: l’uomo se vuol vivere non può che mangiare solo ciò che Dio mangia. Perché può nutrirsi solo se si nutre di ciò di cui si nutre Dio.

Le mani alzate di Mosè quindi non sono le preghiere di Mosè a Dio, ma l’esaudimento (da parte di Mosè) della preghiera fatta da Yhwh a Mosè: salva/libera il mio popolo e così salverai anche me e te con noi! Mosè accetta di essere strumento di questa liberazione di Yhwh e di Israele. E così costruisce la propria. Ha il “bastone di Dio” in mano, ma il vero bastone è lui, le sue braccia, la sua fragilità, la sua ostinata passione per l’avventura di Dio. Su cui Dio e la storia si appoggiano.

Tutto il popolo di Israele, e noi con lui, dobbiamo imparare questo passaggio per vivere la “preghiera” – il modus orandi – di Mosè: passare dalla preghiera dello schiavo (Dio liberami, salvami, guariscimi, dammi…), alla preghiera dell’uomo libero che si prende cura della libertà altrui (di Dio e dell’uomo).
A partire da questa rapida comprensione rinnovata, noi possiamo accedere alle altre letture con uno sguardo nuovo: la missione, l’annuncio del vangelo, se non vuole essere la realizzazione di un proprio progetto di potere, non può non partire da un ascolto assiduo della Parola di Dio! «Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture» (Paolo) per attuarle nella storia! Se c’è preghiera di domanda non può che essere in questa direzione: e infatti Paolo prega Timoteo di attuarla! Paolo non scrive come un padrone ai suoi sudditi… come un Cesare a Pilato…! Non ordina, supplica!

La parabola di Gesù non si discosta da questa logica: la preghiera non è relazione intimistica con Dio! Non è un abbraccio tra due narcisisti! E ancor meno un “volemose bene”, ma è il lavoro (braccia, gambe, lingua, sguardi…) diuturno di attuazione della giustizia del Padre nella storia: solo così il Padre vive e l’uomo con lui.

Il Padre non è colui che deve attuare la nostra giustizia, ma è colui che è giustizia già attuata. La sua! E che prega, supplica, sprona ciascuno di noi a farla propria! Storicizzandola!

Il linguaggio paradossale della parabola non può contraddire ciò che nella storia biblica è stato un guadagno culturale e cultuale dell’umanità!
Dire che Dio attua prontamente, significa che Dio da parte sua ha già attuato questa giustizia, semmai tocca all’uomo farsene carico! Dio c’è, è l’uomo che a volte, troppe volte, non c’è! Non siamo stati a Lampedusa come non siamo stati ad Auschwitz; non siamo a San Vittore come non ci siamo a Guantanamo; non siamo a Bruxelles perché non vogliamo essere ad Atene; non siamo a Wall Street come non siamo a Francoforte; fingiamo di esserci al Palazzo di Vetro come fingiamo di esserci a Palazzo Madama; eliminiamo ogni presenza umanizzante a Torino come la togliamo a Pomigliano… Crediamo di poterla difendere nella propria casa (“ah! casa, dolce casa”) ignorandola nel quartiere!...
E ci stupiamo poi di trovare tanto acida la casa che credevamo così dolce!

Ecco i luoghi (alcuni) dove avremmo dovuto custodire la fede nella giustizia e nei quali invece rischiamo di perderla! Per sempre!

Come l’ultimo gradino indifeso della scala sociale e religiosa della vedova; come il balbuziente Mosè; come il fragile e perseguitato Paolo (2Cor 11,23-12,10), l’attuazione di questa giustizia di Yhwh/Padre nella storia, non sta nella nostra forza, ma nella nostra disponibilità a rompere gli indugi e gli schemi sociali e culturali per farci incessanti rompiscatole. “Maggioranza rumorosa” contro ogni forma di ingiustizia e facitori di giustizia nuova. Nuova perché non nostra ma del Padre!
Solo così il “giudice dell’imperatore”, se non per convinzione, per spossatezza (spossatezza che il facitore della giustizia del Padre – seppur stanco – non ha! cfr 2Cor 4,8ss), vinto come il Faraone, diventa “giudice del Padre”. Attuatore storico – suo malgrado – della misericordia di Yhwh!

Giustizia che è già presente nella storia, accolta inizialmente solo dai poveri di Yhwh quale la vedova (che a mio avviso qui rappresenta Dio che ottiene soddisfazione da noi uomini cattivi cfr Mt 7,11)! Poveri che non badando alla propria insignificanza storica, e senza voler diventare “politicamente significativi” (sarebbe una lotta di potere!), se ne fanno audace istanza senza scoraggiarsi. E vincono sempre!
Al giudice iniquo infatti, come ad ogni promotore di ingiustizia restano dunque tre strade: o elimina il “disturbatore” della sua falsa quiete (con la certezza di diffondere ulteriormente la protesta dilazionandola), o accetta di lasciarsi perennemente disturbare (col risultato di minare la propria autorità), o più furbescamente cominciare, seppur controvoglia, ad ascoltare il popolo che sta opprimendo! In ogni caso, come si può notare qualunque scelta faccia, è scacco matto!
A una condizione però, lo ribadisco perché a mio parere è di decisiva importanza: La vedova bussa alla porta, non gliela sfonda! La rivendicazione della giustizia non può usare il metodo dell’ingiustizia che vuol combattere, altrimenti l’oppresso non solo giustificherebbe la propria eliminazione da parte del potere costituito, ma nel gioco della inversione delle parti, in caso di vittoria dell’oppresso non sarebbe eliminata l’ingiustizia! Il fallimento di ogni rivoluzione violenta è tutta qui!

La preghiera dopo questo percorso perde così ogni tradizionale connotazione spirituale per assumere una dimensione nuova in cui l’accoglienza del Sogno (cfr Lc 11,13) di Gesù e del Padre diventa discernimento operativo, fattualità storica!
Pregare vuol dire allora, non incrociare le dita o le braccia, ma assumersi la responsabilità di una ostinata, pacifica quanto scomoda “guerriglia” di rivendicazione della giustizia del Padre. Perché anche nella fede come nella vita, “chi la dura la vince”! E… non conosco nessuno più ostinato di Dio!

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