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martedì 29 ottobre 2013

XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 11,22-12,2)

Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (2Ts 1,11-2,2)

Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo. Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 19,1-10)

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Le lettura che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del Tempo Ordinario, sono costellate di “elementi noti” per le nostre “orecchie cristiane” o, comunque, per le orecchie di coloro che sono cresciuti a bagnomaria in una cultura cattolica come la nostra: si parla infatti di peccati, peccatori, conversioni, perdono di Dio…

Ma – come sempre – l’emergere di “fattori conosciuti” porta in sé un grosso rischio… quello cioè di dar per scontata la Parola di Dio, perché – sostanzialmente – ci si ritiene già esperti in proposito… o comunque si ritiene che la “solfa” ecclesiale sul bene e sul male, sull’espiazione e sulla misericordia di Dio sia giunta fin troppo volte a invadere il nostro spazio uditivo, arrivando fin a farci dire “Ne abbiamo abbastanza, sappiamo già tutto!”.

Il punto è che questo “tutto” che pensiamo di sapere e che ci salta in mente istintivamente, quando certi termini ricorrono nei discorsi ecclesiali e – ahi noi l’identificazione! – nei testi biblici, è il risultato di un’operazione logica che associa le parole prima elencate (peccato – peccatore – conversione – perdono di Dio) più o meno in questo ordine: l’uomo pecca, ritrovandosi in uno stato (quello di peccatore) da cui deve uscire – se vuole salvare l’anima o per lo meno l’amicizia con Dio – e, per farlo, deve mettere in atto tutta una serie di cose (pentimento, espiazione, penitenza o, se già morto, le preghiere, le messe, le offerte dei familiari…)… a quel punto non resta che sperare nella misericordia di Dio… che lo faccia deliberare per il perdono.

Questa è la morale che ci hanno insegnato: non bisogna fare il male, perché altrimenti si incorre in una punizione (prima si pensava terrestre, poi – dato che a volte non sopraggiungeva – celeste, cioè l’inferno); se lo si fa, bisogna in tutti i modi porvi riparo al più presto, per evitare che possa capitare di morire in stato di peccato e dunque – appunto – incorrere nel castigo eterno. Da cui la necessità di tutta una serie di atti riparatori che ripristino la possibilità di tornare ad essere guardati da Dio non come dei peccatori da punire, ma come dei pentiti da accogliere con misericordia.

In tutto questo ragionare il ruolo dell’uomo è quello di non fare il male per evitare la punizione e quello di fare il bene per meritare un premio, in un’esistenza che non ha senso in sé, perché unico scopo di questo mondo sembra essere quello di fare da banco di prova per decidere del nostro futuro eterno: se fai il bravo vai in paradiso, se fai il cattivo vai all’inferno, se sei così così vai in purgatorio.

Anche a Dio però in questo quadro non si dà un gran posto… Di fatto, al di là di porre gli uomini nell’esistenza, il suo ruolo sembra solo quello di ratificare l’esito delle varie vite: dire se uno è bravo e meritevole del paradiso oppure no… Sembra addirittura che non sia poi proprio Lui a salvare gli uomini – perché questi, se si comportano bene, si salvano da soli, si meritano il paradiso!

Dentro a questa mentalità – presentata magari in maniera un po’ essenziale (cioè senza i fronzoli che tentano di attenuare i vari passaggi, per renderli meno ridicoli), ma indubbiamente ancora assai diffusa nel pensiero cristiano medio (cioè in quell’imprinting che abbiamo dentro tutti e ci sale alle labbra in maniera automatica) – noi crediamo di sapere il “tutto” della proposta evangelica sul peccato… e dunque evitiamo di tornare a prendere in mano i testi o li leggiamo distrattamente…

Solo che quando invece si decide di far la fatica di andare a rileggersi le letture, ci si accorge che ci son lì due o tre bordate inconciliabili col nostro pre-sapere, cioè con la nostra conoscenza previa della tematica in questione.

Innanzitutto il libro della Sapienza, che di Dio dice: «Hai compassione di tutti», «chiudi gli occhi sui peccati degli uomini», «sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita»… qualcosa di un po’ diverso dal volto di Dio che emergeva nel nostro modo solito di pensarLo in relazione al nostro peccato…

Ma ancora più sconvolgente il vangelo, dove – a ben guardare – è proprio descritta la storia di un peccatore (Zaccheo)… solo che i passaggi che compongono la sua vicenda (pur essendo i medesimi citati in precedenza), sono come assemblati in una maniera fantasiosamente diversa da quella che automaticamente a noi era venuta in mente…

Infatti, anche se il punto di partenza è il medesimo (c’è un uomo che ha peccato – ripetutamente, tra l’altro – e dunque si ritrova nella condizione del peccatore), già il secondo elemento varia… non c’è l’esigenza di uscire da questo stato e dunque di mettere in atto tutti gli escamotage che possano “lavare l’anima”… Zaccheo non sembra particolarmente preoccupato del suo essere peccatore… anzi, quando si presenta sulla scena evangelica è presentato più come un pacifico curioso che vuol vedere chi è questo Gesù che passa per la sua città, che un martoriato peccatore in cerca di espiazione… anzi… sappiamo che è un pubblicano solo grazie al commento dell’evangelista, non perché i suoi gesti o le sue parole o i suoi pensieri lo lascino percepire come un peccatore o quant’altro: «In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là».

Cambiando la prima delle associazioni in gioco nell’elaborazione di una logica che tenga insieme gli elementi della vicenda del peccatore, cambiano inevitabilmente a catena anche tutti gli altri… e di fatti il passo successivo non è la richiesta di perdono di Zaccheo a Gesù, ma il fatto che Gesù decida di incontrare Zaccheo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”». È a questo punto che il peccatore si converte e mette in atto tutta una serie di scelte che lo porteranno a cambiare il suo comportamento: «Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”».

Allora… riassumendo…

Il nostro pensiero automatico era: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta a rischiare di incorrere nell’ira di Dio e nella sua punizione quindi deve convertirsi e fare tutto ciò che serve per espiare la sua colpa – a questo punto può sperare che Dio, nella sua misericordia, lo perdoni.

Mentre il vangelo dice: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta ad essere cercato dal Signore («Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto») e questa offerta di comunione, accoglienza, benevolenza, scioglie l’interiorità del peccatore, che per questo si converte, contagiato da quel bene che ha ricevuto.

La prospettiva è un po’ diversa… il volto di Dio in gioco è un po’ diverso… ma anche il volto dell’uomo… Il punto è decidere a quale dare credito, sapendo però che non si tratta di una scelta nominalistica (scelgo che etichetta mettere sulla scatola della mia fede ma poi il contenuto è comunque sempre lo stesso), ma di una scelta da cui dipende il mio modo di stare al mondo, di guardare al mondo, di inserirmi in questa storia… da questa scelta infatti dipende come guardo/penso Dio, come guardo/penso me stesso, come guardo/penso gli altri e dunque quali scelte faccio, a quali emozioni decido di dar peso e a quali no, su cosa investo e spendo energie e passione e dedizione e su cosa invece no… sapendo che – come per Zaccheo – il termometro dell’adesione vera alla prospettiva di Gesù è «il cambiamento delle relazioni e la gioia del cuore! È il passaggio da un rapporto di oppressione, competizione, imbroglio reciproco… magari frenato da normative morali e legali, che custodiscono una più o meno sopportabile convivenza … ad un nuovo rapporto conviviale, sbilanciato nella benevolenza sia verso i poveri e i deboli, sia verso chiunque abbiamo fatto soffrire… Una trasformazione inondata di gioia, perché ciò che inconsapevolmente soffoca la gioia dentro il cuore di tutti gli Zacchei che noi siamo, è la sofferenza che il nostro comportamento provoca negli altri, l’indifferenza alla loro sorte, per insensibilità di cuore, o il raffinato disprezzo che nullifica le persone. Il giovane ricco, che non ha avuto il coraggio di condividere i suoi beni con i poveri, come Gesù gli suggeriva, se ne andò triste… non per i propri peccati, che non aveva!... (Quando ci convinceremo che non sono importanti, i peccati, per la salvezza?… anzi nel vangelo sono proprio i peccatori che si convertono a Gesù, provocando gioia perfino negli angeli del paradiso – più che i giusti!). Se ne andò triste, comunque, perché aveva rifiutato di condividere i suoi beni con i poveri. Forse lui non lo sa, ma è la loro sofferenza che lo contagia e gli incupisce il cuore. Ancora una volta non si tratta di doveri morali adempiuti o trasgrediti, si tratta di relazioni umane da liberare e trasformare in amore, perdono e accudimento reciproco… Questa è la salvezza che Gesù è venuto a portare. [E infatti] Zaccheo si è ammalato della malattia di Dio. Questa è la vera causa dello “scioglimento dei peccati”, praticata da questo Rabbi! Zaccheo si è ammalato di compassione, cioè di passione per la vita degli altri, a cominciare dai poveri e da quelli che ha impoverito lui! E’ diventato “amante della vita”, non dei soldi. Perché gli è rinato dentro il vero amore dei viventi. E allora i soldi e i beni sono solo dei mezzi per vivere e far meglio vivere la gente. I capi e i responsabili del popolo e del tempio disprezzavano il pubblicano, ma usufruivano del servizio. Questo Rabbi non lo disprezza per niente, anzi si è autoinvitato a casa sua, tra lo stupore scandalizzato della gente, ma gli ha riempito di gioia il cuore e tutta la casa. Gli ha tolto di dosso per sempre il disprezzo e gli ha cambiato la vita, con questa seconda “celebrazione penitenziale evangelica” che Gesù ha celebrato, con intenso compiacimento e tenerezza. (La prima è stata in casa di Simone il Fariseo (7,36ss), con la prostituta che, anche lei tra il disprezzo dei benpensanti, non ha altro di suo da dargli che profumo e baci, lacrime e carezze… Non a caso sono i due i prototipi di tutti i peccatori che hanno accolto la salvezza e ci precederanno in paradiso!)» [Giuliano].

Ma… se a Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato così poco, cioè che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... e se questa logica è vera anche nella nostra esistenza (quante volte infatti ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...), se, infine, abbiamo un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», perché invece quando i peccatori sono gli altri, noi (come chiesa e come singoli) riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?

Forse “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione... come Gesù/Dio con Zaccheo/l’uomo…

Ma non quella formale dietro cui nascondere la nostra coscienza (tipo invitare alla festa dell’oratorio qualcuno che lì non si sente a casa… mettendo le persone nella condizione di avere la pelle d’oca per il disagio), ma quella vera, di chi impara a intercettare o riattivare i pezzettini di umanità nascosti sotto la pelle di ciascuno (anche le peggiori pellacce dure e incallite), senza mai acconsentire interiormente ad una rinuncia, perché a questo livello mai nessuno è una causa persa: infatti, ogni pezzetto di carne che si sente amato (per davvero e non per finta!) prima o poi si risveglia e torna a pulsare umanità.

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