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martedì 25 novembre 2014

I Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 63,16-17.19; 64,2-7)

Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti. Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 1,3-9)

Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 13,33-37)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 

Iniziamo quest’oggi un nuovo anno liturgico (l’anno B) – al seguito del vangelo di Marco.

E iniziamo anche un nuovo avvento, una nuova attesa del Natale di Gesù: non a caso l’invito incalzante del brano odierno è “vegliate!”.

Per comprendere però cosa voglia dire questo appello a non farci trovare addormentati, è necessario approfondire il testo e il suo contesto, perché è chiaro che Gesù non sta parlando del sonno fisiologico, ma che utilizza questa immagine in maniera metaforica.

Qual è allora il sonno (e per converso, la veglia) a cui siamo invitati?

Un piccolo ripassino sul vangelo di Marco (che non fa mai male, soprattutto all’inizio dell’anno liturgico in cui ci dovremo occupare di lui): è composto di 16 capitoli, di cui gli ultimi tre (cioè il 14, il 15 e il 16) raccontano la passione-morte-risurrezione di Gesù. Dunque tutto il resto della vita di Gesù è narrata in soli 13 capitoli. Tutti riguardano la sua vita pubblica, dato che Marco non parla dell’infanzia di Gesù, ma inizia subito a narrare gli eventi che riguardano Gesù trentenne.

Un momento di svolta del vangelo di Marco è il capitolo 8, che fa un po’ da spartiacque tra la prima parte del vangelo (che tratta del ministero di Gesù in Galilea) e la seconda parte (che la Bibbia CEI intitola “verso Gerusalemme”). In particolare i capitoli 11-12-13 narrano dei gesti e delle parole di Gesù a Gerusalemme: l’arrivo trionfante, la cacciata dei venditori dal tempio, le polemiche con i capi religiosi della città santa, fino ad arrivare al nostro capitolo 13 che contiene le parole cosiddette “escatologiche”, quelle sul fine della storia, sul suo senso, sulla sua destinazione ultima.

Come già abbiamo visto per il vangelo di Matteo, si tratta di un linguaggio particolare, di un genere letterario da decifrare, anche perché a noi molto meno familiare che al tempo di Gesù. L’importante è non farsi spaventare e non lasciarsi trasportare dai luoghi comuni e dalle precomprensioni.

Per comprendere dunque il brano che la liturgia ci propone per questa I domenica di Avvento è necessario rileggere tutto il capitolo 13 di Marco.

Esso esordisce – ai vv. 1-2 – con una constatazione sul tempio di Gerusalemme: «Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”».

Questa affermazione di Gesù, che potrebbe far riferimento alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei romani (che avverrà nel 70 d.C.), o – più in generale – alla distruzione cui prima o poi tutte le costruzioni umane sono sottoposte, oppure – ancora – all’esaurimento della religiosità del tempio di Gerusalemme, suscita negli apostoli una domanda sul “quando”: «Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?”» (vv.3-4).

Gesù inizia così il suo lungo discorso di risposta (anche se in realtà solo alla fine dirà qualcosa sul quando: «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre», v. 32), che occupa tutto il capitolo 13, fino alla parabola conclusiva che è il vangelo di questa domenica.

In questo lungo discorso – prima di giungere ai versetti che ci riguardano oggi – Gesù delinea sostanzialmente 3 tematiche:

1-      La vita di Gesù (compresa la sua morte e risurrezione) non esaurisce la storia, né la sua portata drammatica: si ripresenteranno guerre, terremoti, carestie. Anzi, in particolare per i suoi discepoli non si preannunciano tempi dorati: piuttosto, processi, percosse, tradimenti, uccisioni.

E proprio in merito a questi tempi duri che si preavvertono (dato che Gesù non è né uno sciocco, né un illuso e dunque sa che “toccare” agli ebrei il tempio e dunque il potere – così come ai romani e ad ogni altro popolo – vuol dire andare incontro a un’esistenza turbolenta) si introduce per la prima volta il tema che poi verrà ripreso nella nostra parabola: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (v. 13). Cioè, se all’interno di questi tempi difficili, causati per il discepolo proprio dal suo essere discepolo, cioè dalla sua fede in Gesù, egli saprà resistere (cioè continuerà a credere buona la fede in Gesù, che pure gli procura tanti patimenti), allora sarà salvato. Che è esattamente quello che è successo a Gesù: ha continuato a credere nel fatto che Dio lo amasse anche quando tutto sembrava dire il contrario. E ha infatti ritrovato la vita: Dio lo ha risuscitato.

Sembra cioè dire Gesù: se anche la vita pare dimostrare che Dio non c’è o che è cattivo, diverso da come ve lo ho fatto conoscere io, voi perseverate nel credermi, nel crederlo cioè vostro padre, vostro amante, vostro complice. Perché la fede in questa relazione fa trovare la vita vera (già nell’aldiqua).

2-      In questi tempi duri molti si presenteranno come salvatori: «Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui; ecco, è là”, voi non credeteci», v. 21. Cioè – come dicevamo prima – non fatevi confondere sul volto di Dio.

3-      Infine, la terza indicazione è che – per quanto questa storia drammatica e talvolta tragica che si snoderà anche dopo la morte e risurrezione di Gesù, una storia in cui tanti creano solo confusione urlando a destra e a sinistra le loro soluzioni, appaia senza Dio, cioè abbandonata da Lui – in realtà proprio questa storia non è da lui abbandonata: «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria». Questo v. 26 fa riferimento ad una profezia del profeta Daniele ed era molto famosa in Israele: essa costituiva il linguaggio con cui si parlava del ritorno del Messia, della presenza salvifica di Dio nella storia. Ecco perché Gesù la cita: questa storia così scombinata non è abbandonata da Dio.

Prende allora senso la nostra parabola e l’invito a vegliare: è questo “ritorno” del Signore che è da attendere, questa sua presenza da riscoprire, da riconoscere, da accogliere.

L’invito alla veglia non è dunque una minaccia – come spesso si è inteso: qui non si sta dicendo “Attenti a come vi comportate, perché il Signore arriva quando meno te lo aspetti e se ti becca in flagranza di peccato, sei spacciato!”. Si sta dicendo che questa nostra storia così affaticata, in cui ci pare di essere abbandonati in balìa della cattiveria nostra, degli altri, della natura, in realtà è avvolta da un’atmosfera di amore conturbante, che è Dio.

Non addormentiamoci dunque. Non rinunciamo a credere e a vivere di questa relazione con Lui, per quanto a volte egli prenda le sembianze di qualcuno che è partito e non si sa se tornerà.
Vegliamo, guardiamo, vediamo, impariamo a percepire e a vivere di questa relazione.

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