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martedì 2 giugno 2015

Corpus Domini


Dal libro dell’Èsodo (Es 24,3-8)

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,11-15)

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 14,12-16.22-26)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

 

Il tempo ordinario è ricominciato da due domeniche, ma – come settimana scorsa ci siamo trovati di fronte alla solennità della Trinità – anche questa domenica la liturgia ci propone di nuovo una solennità extra-ordinaria: la festa del Corpus Domini.

Sono feste che lasciano un po’ perplessi, in quanto forse – a ben guardare – ogni domenica è la festa della Trinità e ogni domenica è la festa del Corpus Domini… E, se pure si capisce l’intento pastorale di voler focalizzare l’attenzione della comunità credente su questi aspetti della fede cristiana, il rischio è, solennizzando, quello di fare della Trinità e del corpo e sangue di Gesù non delle realtà quotidiane da vivere e con cui interagire, ma dei “misteri” arcani percepiti come distanti.

Per questo la mia riflessione di questa settimana vorrebbe essere più che altro un invito a cogliere l’occasione di queste ricorrenze per riportare nel nostro vissuto la relazione con Dio Padre, Figlio e Spirito santo, passando per i gesti che Gesù ci ha lasciato: il dono del pane e del vino, segni del dono del suo corpo e del suo sangue.

Tante cose sono state dette sulla scelta del pane e del vino, sulla “spiegazione in anticipo” che Gesù nell’ultima cena fa della sua consegna sulla croce… ancora di più ne sono state dette sull’importanza della messa, dell’assolvimento del precetto domenicale, della comunione…

Ma la realtà è che il rito, un po’ sclerotizzato dall’abitudine e dalla concentrazione della predicazione sulla “obbligatorietà” di parteciparvi, non riesce più a farci prendere coscienza si cosa sia in realtà ciò che celebriamo.

E nemmeno il tentativo del Concilio Vaticano II di rendere la messa non più qualcosa a cui si assisteva, ma – con l’introduzione della lingua parlata dalla gente in sostituzione del latino e con altri accorgimenti liturgici – qualcosa a cui si partecipava, sembra aver davvero segnato una svolta.

Forse davvero bisognerebbe che ogni comunità credente che si ritrova intorno al suo fondamento (la Parola di Dio, la mensa eucaristica, la fraternità tra cristiani) provasse a mettersi intorno ad un tavolo per dirsi il senso di quel ritrovarsi, il senso di quel fondamento e magari a riscrivere una liturgia che riesca davvero a dire – in quel contesto, per quella gente – questo senso.

È evidente che questo lavoro chiama in causa tutta una serie di altri aspetti (per esempio il senso di essere una comunità, una comunità radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù, una comunità di fratelli e sorelle, una comunità di fratelli e sorelle radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù che vive immersa in un mondo di altri fratelli e sorelle umani, ma non cristiani, ecc…), ma se non si parte da qualche parte (che sia la messa, il senso della comunità, il fondamento che la costituisce, o qualsiasi altro aspetto del nostro essere cristiani), continueremo a vivere ogni atto della vita in maniera slegata da un sistema di pensiero, da un orizzonte di senso, da una logica pervasiva che tenga insieme tutto ciò che siamo e che renda ragione della nostra identità.

Provo a spiegarmi con un esempio: è come una coppia di persone che si amano che fanno abitualmente l’amore, ma hanno smarrito le ragioni della loro relazione: che non sanno più pensarsi come coppia, che non sanno più dirsi come fondati sull’identità che quell’amore e quella relazione gli ha dato.

Fare l’amore va bene, ma scollegato da un orizzonte di senso che riesce a dire chi sono io, rischia di diventare un gesto svuotato come l’involucro di una relazione che non c’è più.

Io credo sia così per la messa dei cristiani: è rimasto l’involucro, ma si è perso il senso della relazione che lì vi è in gioco. E hanno un bel parlare i preti sulla necessità di andarci, sul sacramento eucaristico come fonte e culmine della fede… hanno ragione, ma anche le loro parole sono vuote: dicono l’importanza di una cosa che però non esiste, se non nominalmente.

Eppure… se Gesù ha detto «fate questo in memoria di me», vuol dire che lì dentro c’è qualcosa che non si può perdere per strada. Ma tenerlo, così come lo si tiene oggi, vuol proprio dire perderlo per strada o far finta di non averlo già perso per strada.

Ecco perché la necessità di mettersi intorno ad un tavolo e chiedersi: ma perché, tra tutte le cose che Gesù ha detto e fatto, proprio di questa ha detto “fatela in memoria di me”?

Avrei la tentazione di dire immediatamente la mia, di riempire il vuoto che si crea accettando di ripensarci (perché ogni volta che si accetta di ripensare a qualcosa, al senso di qualcosa, si crea un vuoto che spaventa), ma il farsi prendere dalla fretta (dall’ansia) di riempire subito questo vuoto credo corrisponderebbe ancora una volta col mettere un rattoppo posticcio.

Forse, farebbe tanto più bene alla comunità credente e a ciascun cristiano, stare un po’ a mollo nel vuoto di senso delle nostre liturgie, perché questo sbaraglierebbe il campo dal facile rifugiarsi in formule o frasi fatte, in considerazioni chissà quante volte già sentite, e aprirebbe la strada a un vero ri-pensamento, che – come dicevamo prima – parta da un qualsiasi punto, ma arrivi a riscrivere l’insieme della vita della Chiesa.

Forse, come diceva p. Mario nell’ultima lectio qui nella Fraternità di Lessolo, davvero bisognerebbe immergersi in un sano ateismo che ci facesse abbattere un bel po’ di idoli (di cui i più perniciosi sono quelli smaltati di cristianesimo) per ritornare a farsi insegnare la vita cristiana dal vangelo di Gesù.

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