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lunedì 29 giugno 2015

XIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 2,2-5)

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 12,7-10)

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6,1-6)

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

 

Il vangelo di questa 14° domenica del tempo ordinario ci narra l’episodio di Gesù nella sua patria: un momento “normale” dopo la “extra-ordinarietà” dei primi passi del suo ministero pubblico. Secondo Marco, infatti, quando Gesù torna a casa sua, ha già ricevuto il battesimo da Giovanni, vinto le tentazioni, chiamato i discepoli, iniziato la sua predicazione, compiuto diversi miracoli… guadagnato una certa popolarità…

Questo ritorno – che anche letterariamente sembra una cesura, una parentesi – segna dunque come una pausa nel cammino in Galilea di Gesù, che peraltro riprende immediatamente già nell’ultimo versetto del nostro brano: «Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando». Eppure questa “pausa” non pare avere i contorni della riuscita… L’esito è deludente; nel parallelo brano di Luca addirittura tragico (cfr Lc 4,16-30).

Il brano non dice il perché di questa decisione di Gesù di tornare in patria, non emerge nessuna urgenza che possa aver determinato un impellente rientro, per cui pare proprio che Gesù ci tornasse come un fatto normale.

Tant’è che si rimette a fare le cose “abituali”: di sabato va alla sinagoga – commenta Luca «secondo il suo solito». Eppure proprio lì «dove era cresciuto» qualcosa è cambiato. Il modo di porsi, meglio, il modo di essere di Gesù esce dai canoni consueti con cui fino alla sua partenza era stato guardato, non rientra più nell’ordine di misura (normale) con cui era da sempre stato valutato: non combacia più con l’etichetta con cui l’avevano sempre pensato: «il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone». E questo scarto tra idea di lui e lui suscita stupore («rimanevano stupiti») e addirittura scandalo («era per loro motivo di scandalo»).

E Gesù soffre di questo mancato riconoscimento, di questa mancata accoglienza di lui in nome di un’idea diversa di lui.

Fin qui l’episodio… onestamente abbastanza comune: a tutti è capitato di fare esperienza di essere letti a partire da una pre-comprensione piuttosto che dalla realtà di ciò che si è.

Eppure, tutta questa sensazione di ordinarietà, di esperienza comune ai più, lascia aperta una domanda più radicale: Se si tratta di un’esperienza tanto normale, che si rifà in qualche modo a esperienze comuni a tutti, perché i primi cristiani hanno sentito il bisogno di narrarci questo fatto? Perché ha una valenza così significativa il fatto che Gesù venga rifiutato in patria? Verrà rifiutato anche dopo e in modo più radicale, dagli amici, dal suo popolo… Perché dunque non limitarsi a quei tradimenti, di portata di certo più consistente, e sottolineare anche questo che in prima battuta a noi sembra un episodietto, se non insignificante, almeno di una rilevanza piuttosto bassa?

La risposta può venire, provando a guardare questo episodio dal punto di vista dei compaesani di Gesù invece che dal suo: così facendo, non è che si possa poi tanto contestare la loro reazione… è normale che generi stupore il fatto che il ragazzino che avevano sempre visto e considerato in un certo modo, misurandolo con gli stessi canoni con cui misuravano gli altri ragazzini (di chi è figlio, che mestiere fa, se i suoi fratelli son venuti su bene…), con cui si misuravano tra loro proprio senza battere ciglio, tornasse al paese dopo qualche tempo e si rivelasse, pur nel tentativo di presentarsi normalmente, in una modalità nuova … Tra l’altro la sua è una novità di una portata esorbitante… insegna, compie prodigi… pian piano sviluppa la pretesa di essere il Cristo… Questo hanno di fronte i suoi paesani… ed è quello che abbiamo di fronte anche noi…

Ecco perché questo brano è stato sottolineato nonostante la sua apparente normalità: perché è scritto per chi già crede, per chi in un certo senso è dalla parte di questi compaesani, di chi pensa di conoscere (almeno un po’) Gesù. Perché quello scandalo lì è ancora il nostro: il Signore è il figlio del falegname.

E questo ci costringe ancora una volta a riconsiderare la nostra idea di Dio, per vedere, se in fin dei conti, non siamo anche noi come quei nazaretani che un Dio così, preferiscono rifiutarlo.

Infatti:

«C’è una reazione invincibile di fronte all’incarnazione: un processo storico partito dai suoi compaesani, e poi confluita in ogni chiesa, mai interrotto, di “normalizzazione sacra” – di ri/divinizzazione dell’incarnazione (è il processo inverso, di rimando al mittente del mistero – sostanzialmente perché è troppo di disturbo della quiete storico religiosa).

[…] E’ difficile per i compaesani di Gesù (come per noi) accettare la salvezza non da Dio direttamente, ma da uno di noi. Eppure è questo lo scandalo dell'incarnazione: Dio agisce attraverso l'uomo, nella debolezza e opacità della carne e nell’ambiguità delle vicende storiche; Dio non si serve di gente fuori dal comune (divinizzata o sacralizzata), ma di persone comuni» [p. Giuliano Bettati, ocd].

Il punto allora – ancora una volta – è: chi è il Dio in cui diciamo di credere? È quello del vangelo? O è un’immagine che si è formata nella nostra interiorità attraverso gli insegnamenti, le tradizioni, la “normalizzazione sacra”? E – ancora – che implicazioni ha la fede nel Dio del vangelo? La fede in Gesù, uomo, falegname, figlio di…, fratello di…? Per esempio, come è giusto pregarlo? Io ho provato così:

Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo,

carpentiere di Galilea,

fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone,

la mia relazione con te,

le mie aspettative su di te,

non possono non tener conto di chi sei stato,

di chi hai scelto di essere.

Non ti posso perciò chiedere di essere potente,

tanto meno di essere onnipotente,

semplicemente vorrei intrecciare la mia vita con la tua,

il tuo Spirito col mio,

per scrivere una storia che umanizzi chi mi incontra,

per quanto sarò capace.

Tanto lo so, che alla fine di questa storia,

incontrerò uno che sa che l’uomo

fa solo quello che riesce a fare

e mi accoglierà non per i miei meriti

ma perché da sempre mi ha guardata

con occhi incarnati

e scioglierà la complessità di ciò che sono

in una continuità di benevolenza.

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