Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

sabato 13 ottobre 2007

Un "frammento" dai nostri Esercizi Spirituali con P. Francesco Rossi de Gasperis


"…l’ultima realtà è soltanto il Signore Gesù. E questa signoria è così vera che io posso accettare tutti i superiori possibili e immaginabili, perché so che nessuno di loro è mio superiore: tutti sono segno e sacramento dell’Unico Re.

Servire Dio è regnare! Ma capire - d’altra parte -, come tutta la storia d’Israele ci insegna, che la regalità di questo Re ci chiede anche di vivere nella storia e quindi di obbedire a questi segni. (…)

Io posso sottomettermi a tutte le obbedienze in vista del Re e vivere nella Chiesa, nella famiglia di Dio, con una totale libertà perché la mia coscienza guarda LUI, non altri. Anzi – direi - che questa mia dipendenza dal Re, mi rende accogliente verso tutte le cose che incontro, verso tutte le cose più piccole e più, qualche volta, anche meschine, con il sorriso di chi sa che, oltre a tutte le apparenze, c’è LUI e che LUI non inganna nessuno.

…. Il Signore ha in mano la storia, il tempo, le cose che ci sono e quelle che ci saranno, quelle che stanno passando e quelle che passeranno.

..vivere nella gioia, nella pace, nella consegna di me a questo Re che è il Re dei re e il Signore dei signori e che mi insegna proprio che la regalità l’ha ottenuta attraverso la Croce. E dunque, non c’è nessuna croce che mi si possa presentare che non possa essere una via, una strada, per la libertà. Non c’è nessuna profondità – diciamo -, in cui io possa cadere, in cui non è già passato LUI.

Questo mi sembra – vedete -, il senso della Discesa di Gesù agli Inferi, che è un articolo della fede che forse non sempre capiamo bene che cosa vuol dire. Dire che “Gesù è disceso agli inferi”, significa che ha riempito l’abisso, che è passato dove nessuno di noi è più capace di passare perché già c’è passato LUI, che ha conosciuto la morte – soltanto Gesù, direi, è davvero morto, perché soltanto Gesù ha conosciuto una morte che nessuno ha redento per LUI; la morte di Gesù è incomprensibile per noi perché è morto di una morte non redenta e ha redento LUI la nostra morte -.

E dunque non c’è nessuna morte, nessuna croce in fondo, in cui LUI non sia già passato. E questo fa in modo che ogni croce che mi si presenta diventa un luogo di sequela di LUI che è andato avanti a me. E allora non c’è più d’aver paura della morte, non c’è più d’aver paura della croce, ma - come dicevo - anzi, ogni croce, anche la più nera può diventare la via della liberazione. Questo è tutto quello che hanno capito i martiri nella vita della Chiesa.

Sono alcuni pensieri da nutrire davanti alla Croce del Signore, sapendo che in questo modo LUI ha fatto giustizia, ma una giustizia del mondo che è anche la liberazione del mondo.

Cerchiamo, chiediamo, di vedere la concretezza di questo proprio nelle cose anche più piccole della nostra vita.

Dicevo che “Gesù resta sempre il bambino del Padre, che gioca davanti al Padre anche sulla Croce”: ci insegna anche LUI a giocare con le nostre croci.

Certe volte un modo di darci importanza è quello di dire, insomma, che stiamo soffrendo terribilmente, nella passione…relativizziamo: non c’è nessuna croce con cui non si possa giocare, proprio perché il Signore ha preso la Croce come suo trono.

E’ dunque con l’umorismo, se volete, di questo fatto, che, come dice il prefazio della Croce, colui che credeva di vincere con l’albero dall’albero è stato sconfitto – è stato sconfitto per la forza della Risurrezione che ha segnato l’ultima parola sulla morte, e quest’ultima parola è Vita, Vita che non muore più -.

venerdì 12 ottobre 2007

Bonhoeffer (lett a Eberhard, 21 luglio ’44)


[…] Mi ricordo di un colloquio che ho avuto tredici anni fa in America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo – e credo possibile che lo sia diventato –; la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contraddissi, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere.
Per molto tempo non ho capito la profondità di questa contrapposizione. Pensavo di poter imparare a credere tentando di condurre io stesso qualcosa di simile a una vita santa. Come conclusione di questo percorso scrissi Sequela. Oggi vedo chiaramente i pericoli di questo libro, che sottoscrivo peraltro come un tempo.
Più tardi ho appreso – e continuo ad apprenderlo anche ora – che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale!), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani. (Cfr. Ger 45!). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o demoralizzarci per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti.

La Fede matura – La Gioia della riconoscenza

Il sussulto di riconoscenza : il guarito – uno straniero – è tornato …
Gli stranieri evangelici ci annunciano che alle frontiere estreme della diversità, della malattia e dell’impotenza umana esiste solo l’uomo. Essere stranieri è una condizione culturale di “alterazione” per troppa diversità, di persone o gruppi, estraniati dall’umanità ‘normale’, tanto più se lebbrosi. Ma ogni diverso è una provocazione contagiosa… Il dramma più grave della storia dell’umanità è sempre questo: l’uomo incontra se stesso e non si riconosce. E così deturpa la propria umanità, ogni volta che rifiuta il volto dell’altro, nell’oppressione, nell’omicidio, nella guerra. Su questa frontiera invalicabile dell’ “altro” si gioca o si inceppa la dinamica di adempimento dell’alveo vitale di ogni uomo: tessuto di relazioni che rigenera e risana – o smagliatura senza rimedio, sfilacciamento di rapporti che svuota e consuma la persona.
Nel quotidiano il discorso è più duro. Ogni uomo, se respira, cerca, si dispera, lavora… si muove comunque - per una specie di statuto intimo che lo costituisce - verso un compimento! Che fa estrema fatica a individuare e riconoscere. Il discepolo ne ha imparato la direzione, l’orientamento, sia pure per simboli, e questa è la sua prerogativa di “credente”: sa che in Gesù è stato assunto e si è convalidato il senso di ogni dinamica umana, di ogni movimento – speranza o disperazione – dell’uomo verso il suo compimento. Nel cuore del Vangelo sta l’annuncio che solo lui ha sperimentato la conoscenza del Padre, è può insegnare ai suoi fratelli a ri/conoscerlo in ogni percorso umano, pur segnato e coartato da tante differenze e contrasti e cadute… Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da impregnarlo tutto della sua benevolenza, ma l’uomo riesce ad aprire il cuore alla salvezza… soltanto quando un volto ne rivela finalmente la presenza, fosse anche una meteora nella notte.

La parola di Dio non è incatenata
Non è stata un’irruzione improvvisa nella storia… Nell’intimo della materia, nella polvere di stelle da cui siamo nati, abita misteriosamente la forza creatrice della Parola che l’ha fatta, l’ha condotta con la sua forza tacita e tenace a superare le soglie dure della concentrazione inerte, fino alla coordinazione universale della fisica, all’emergere inspiegabile della vita biologica, all’intreccio emozionale sempre più complesso della psiche… come un fermento, una pulsione incontenibile, tra attesa e compimento. Ma la Parola di Dio non è incatenata. Non si tratta di qualche ostacolo nel cammino, ma di crescere e dilatarsi entro un sistema colmo di attese, ma sostanzialmente bloccato, duro e refrattario. Ci accorgiamo proprio per questo che non è parola umana. Naaman prima dubita che la Parola sia troppo banale, ma poi si affida, si tuffa nel fiume, come in un battesimo che gli rigenera la pelle come quella di un giovinetto. Infine scoppia di gratitudine e va cercando il volto del Guaritore, rischiando di confonderlo con quella del suo testimone. Che però lo orienta non verso sé, ma vero il Padre, generatore vero di ogni vita. Ma Naaman ha capito che quel posto, quella terra ha contenuto la sua salvezza, e se ne porta via qualche zolla, come viatico, per il suo cammino e per la sua casa, come un’eucaristia profetica che accoglie e trasmette la sua esperienza di liberazione dalla morte. E’ nella terra, nella fragilità della carne che sarà seminata la salvezza. Questo è il germe della grande notizia da non dimenticare mai, dice Paolo: che Gesù Cristo, un pezzo della nostra terra divenuta carne, è risuscitato dai morti. E’ arrivato al compimento finale di tutto l’anelito della creazione!

Anche l’uomo più lontano… Dio gli è vicino!
Ci avviamo alla tappa finale del viaggio verso Gerusalemme: Gesù ha spiegato che solo l’esperienza della misericordia può far intuire l’essenza intima di Dio (il figliol prodigo), ha indicato quali amicizie vere procacciarsi con i beni del mondo finché ci è possibile (l’amministratore accorto), ha squalificato la religione come strada adeguata a riscoprire il Padre, indicando piuttosto la sollecitudine per il povero (il ricco epulone), ha finalmente dichiarato che il cammino impervio del discepolo è imparare il difficile mestiere di servo inutile… Adesso mostra come avviene il miracolo del sussulto del cuore, che fa scattare la scintilla della fede piena, quella che non solo rimedia qualche problema dell’uomo, ma lo “salva”!

La fede è un cammino
Il primo passo della fede a cui Gesù conduce il discepolo è l’umile riconoscimento dell’inguaribile malattia umana dell’esser fatti di terra, fragile, friabile, piena di germi patogeni e già minata nella sua struttura interiore, degradante verso la consunzione. Questa consapevolezza apre il cuore ad un volto misericordioso di Dio e nasce l’anelito: Gesù Maestro, abbi pietà di noi! Ancor più commovente se proviene da tutti “insieme” – il dolore copre ogni discriminazione… Questa disposizione “commuove” sempre il Signore.
Il secondo momento importante, caratteristico della fede, è di credere prima di sperimentare. Disporsi alla guarigione, cioè mettersi in viaggio, prima di vederne gli effetti. Perché questo vuol dire “fidarsi” della promessa, affidarsi alla Parola di chi ti indica la salvezza in un rapporto libero, non di magia, o di causalità strumentale. La Parola è invito alla “responsabilità” personale, non per costringere, ma per far crescere la libertà. Dio almeno la usa solo così. Si rivolge all’uomo e lo guarisce proprio per far crescere gli spazi e le possibilità della libertà.
Il terzo passo - il più difficile - è quello che nasce dopo… lungo il cammino… : è sempre una “riscoperta”, un sussulto interiore che, quando già il bisogno è già stato esaudito, fa sgorgare in cuore ,a fame dell’Altro del desiderio, oltre il desiderio… sta nascendo la fede che matura! Quella che ricerca, che vuol ri/conoscere il volto che ti ha guarito e iniziare per lui un canto vitale di lode e adorazione (la consegna di sé per amore). La fede allora è dono, gioia, riconoscenza per essere stati amati.

E gli altri nove? Ma dove sono andati?!
… persi! : nei meandri degli uffici di anagrafe e di controlli sanitari, cultuali, ascetici, sacrificali, perché è tutto ciò di cui i preti e gli esperti di ogni cultura e di ogni religione sono competenti – se va bene. Tutti espedienti che fanno l’uomo semiconvertito, per un momento ha creduto, è risanato nella pelle, quindi riabilitato socialmente e personalmente… Ma non scardinato e coinvolto profondamente nel cuore. Allora, quando le pulsioni vitali gli premono dentro, quando le erbacce soffocanti o la zizzania, di cui dice Gesù dei campi in cui ha seminato la Parola…rispuntano, ecco che quasi tutti i discepoli (novanta % !) si perdono nei labirinti senza uscita della paura di rischiare la propria vita, e nei relativi riti propiziatori, o nelle mediazioni morali che annacquano il Vangelo, per rimandare o mascherare il sostanziale rifiuto di morire per il Maestro, come lui!

La gratitudine : dalla pelle al volto
Solo uno dei dieci lebbrosi, infatti, non soltanto è guarito, ma è anche salvato. Costui forse non arriva neanche al tempio, ma ritorna indietro sui suoi passi di miracolato, per lodare Iddio e rivedere la faccia di chi l’ha salvato. Perché è adesso che ha bisogno di lui! Questo è il vero miracolo! la guarigione è la preparazione occasionale. Il Maestro accoglie la fiducia di questo lebbroso samaritano, doppiamente emarginato. Escluso dalla vita sociale e religiosa del popolo eletto, per le sue origini e per la sua malattia, è destinato a morire di consunzione fisica e relazionale… La guarigione dall’emarginazione lo rimette nel circuito famigliare e culturale. Adesso è messo in grado di ridiventare un’ape operaia del cantiere antropologico, come tutti gli altri, non più inutile o dannoso al consorzio civile e religioso. Fisicamente, moralmente, religiosamente a posto. Ma basta questo per fare un uomo?

Ri/conoscere è rinascere
Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, è scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… E la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? gratis, per niente, per amore, … Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione.
Guarire non è semplicemente il grande dono di recuperare l’integrità fisica o morale, ma l’occasione per scoprire il medico, diventare amici del “guaritore”. Del resto l’uomo è ammalato di un male che non guarisce, di cui la malattia è solo un sintomo e il simbolo: la fame di amore. Il guarito si ammalerà ancora, bisogna farsi amico del medico, che ormai cammina con te verso Gerusalemme e così sei al sicuro per sempre. Il segreto della fede è la scoperta della differenza tra la vita della psiche, che gira attorno a sé, e non supera il livello antropologico ‑ e quella dello spirito - nel viaggio duro e affascinante della vita, accompagnati da chi lo ha già fatto per aprirci la strada… (p G.B.)

giovedì 11 ottobre 2007

XXVIII domenica del tempo ordinario (anno C)

«Ebbene, ora so che non c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele. […] Il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore».
Cos’è che fa pronunciare a Naaman un’espressione così univoca, radicale, unilaterale, soprattutto per uno straniero in Israele?

Com’è possibile che Paolo accetti di soffrire «fino a portare le catene come un malfattore», a sopportare «ogni cosa»?

E come mai uno dei lebbrosi risanati, quello samaritano, torna da Gesù «lodando Dio a gran voce», gettandosi ai suoi piedi «per ringraziarlo»?

Mi pare che la risposta a queste tre domande possa essere una delle chiavi di lettura per la liturgia di questa domenica: il fatto è che questi uomini hanno sperimentato nella loro carne, nella loro vita, nella loro storia la veridicità dell’incontro salvifico col Signore.

Le Scritture riguardo ad essi non ci raccontano una vaga esperienza del divino, ma ci portano dentro al loro cuore, irreversibilmente segnato dal tocco del Dio che salva (cioè proprio letteralmente di Gesù). Nessuno ormai potrà più convincere questi uomini a credere in altri dei (Naaman), nessuno li potrà più dissuadere dal dare la vita per questo Dio (Paolo), nessuno li persuaderà di essere lontani da Dio perché stranieri (Samaritano)… ce l’hanno scritto nelle viscere che “hanno ragione loro” (per dirla alla Mazzolari).

Mi è molto cara in questi giorni questa riflessione sul fatto che in fin dei conti non c’è nessuna ragione per il nostro credere, vivere e sperare che valga più di questo aver inciso nella carne la bellezza di questo incontro. E viceversa non c’è argomentazione che tenga nel tentare di dissuaderci dal fatto che la vita più bella che si possa vivere è quella evangelica: niente potrà più falsificare che solo essa ci ha fatto esplodere il petto, ci ha fatto brillare gli occhi, ci ha fatto sussultare le viscere.

Certo, non voglio essere fraintesa… qui non si sta parlando di quelle esperienze “miracolistiche”, emozionali, “visionarie” che fanno storcere tanto il naso all’uomo d’oggi (e un po’ anche a me)…
Si sta parlando di qualcosa (o Qualcuno) che incrocia la vita quotidiana, laica, concreta nostra e di questi uomini di cui ci parlano queste letture. E il bello è che come noi questi uomini di fatto non hanno niente di “speciale” in partenza:
- Naaman è malato e straniero, l’antitesi dell’uomo che ci si aspetti incontri Dio, soprattutto nella mentalità del tempo; eppure nella sua carne che «ridiventa come la carne di un giovinetto» si scrive una convinzione che niente e nessuno gli toglierà: «non c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele». Non c’è verità, non c’è vita, non c’è possibilità di un’esistenza bella se non in questo Dio!
- Paolo lo troviamo incatenato come un malfattore… non pare, almeno a prima vista, una gran bella situazione iniziale… eppure lo scopriamo animato da una determinazione che lascia a bocca aperta: dice di essere disposto a soffrire e a sopportare ogni cosa… Come può un uomo essere disposto a tanto? Quando, perché e soprattutto per chi noi saremmo capaci di soffrire e sopportare ogni cosa? Per un figlio, per un amico, per un fratello, per un ideale, per una giusta causa? Paolo dice «per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù». Paolo ha dunque sperimentato in vita che c’è una salvezza, che il cielo è sceso in terra, che il velo del tempio è squarciato, che Dio è per l’uomo... e vuole che anche gli altri scoprano (raggiungano dice lui) questa verità performatrice, trasformante, comunicabile solo con la dedicazione della vita. Questa è la perla preziosa del suo cuore, quella che lo rende disposto a tutto. Infatti il suo vangelo è «che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti» e dunque che Dio è il Dio della vita e l’uomo non è destinato a rimanere nella solitudine, nel non-senso, nel freddo di una tomba. E se davvero la morte è vinta e con lei anche ogni paura, allora veramente si può essere disposti a tutto perché ogni uomo lo sappia e viva con logiche vitali, solidali, inclusive!
- E infine il più simpatico, il lebbroso samaritano (quindi anch’egli malato e straniero…)… simpatico perché quasi non si accorge del momento in cui guarisce, ma guarito ci si ritrova: «trovandosi guarito»… Ma proprio questo rendersi conto, questo accorgersi che in lui, nel suo corpo si è scritta la firma salvifica di Dio lo rende non solo “guarito” (come tutti gli altri nove, che certo non sono ri-diventati malati per non essere tornati da Gesù), ma “salvato”. E di fatti vive uno dei segni più eloquenti della salvezza ricevuta e riconosciuta: la gratitudine («si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo»), la lode («tornò indietro lodando Dio a gran voce»)!

L’augurio per tutti è di cantare «al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi»!

martedì 9 ottobre 2007

Dio... ridi!



“Risplenda su di noi, Signore,
la luce del tuo volto
Salmo 4,7

venerdì 5 ottobre 2007

Auguri ai Collaboratori!

clicca sull'immagine

Grazie!
Per aver accettato di collaborare con me in questa nuova agorà...
__________________________________________

Colgo l'occasione per fare gli auguri ad Alex per il suo 30...

E chiedere a Hervé di dirmi quando farà i corsi di scuola guida, così cercherò di tenermi lontano da Milano...


Grazie per averci insegnato che:

Per gustare un frutto devi prima sbucciarlo.

H. Jackson Brown Jr.


giovedì 4 ottobre 2007

Lectio XXVII domenica del tempo ordinario (anno C)

«Fino a quando Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?».

La liturgia di questa domenica parte con uno dei gridi fondamentali dell’uomo… Uno di quelli che, quasi anche fisicamente, arrivano dalle tortuose profondità e tenebre del nostro cuore: “Perché Signore non hai ritratto la mia mano, quando si è alzata contro mio fratello? Perché non hai ritratto la mano di chiunque l’alzasse contro l’altro?”… Insomma: “Signore, perché non intervieni in questo nostro mondo?”…
Oggi forse la teologia (o chi per lei…) risponderebbe che la domanda è posta male… che il problema non è “Che fine ha fatto Dio?”, ma “Che fine ha fatto l’uomo?”… e per certi versi questa riflessione indirizza bene la questione…
Ma la radicalità del grido di Abacuc non può comunque essere eluso… Ogni risposta che si può tentare di dare, ogni riflessione che giustamente va fatta, deve però prima farsi esistenzialmente scarnificare dalla tragedia del dolore (in particolare di quello innocente), del male che l’uomo fa all’uomo, del terrore che questo grido rimbalzi inascoltato nello spazio infinito per sempre e che mai nessuno si farà carico (per dirla alla Sequeri) della ferita di un bimbo violato in qualche parte del mondo…
Non eludere, ma attraversare questa drammaticità della vita, della storia, del cuore dell’uomo, non vuol dire però diventare sordi all’eco di risposta che giunge alle orecchie del profeta: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà».
In effetti la scadenza attesa è arrivata…
Per la Chiesa Gesù è il termine del “silenzio di Dio”… è la sua risposta…
A prima vista una risposta che lascia un po’ sbigottiti… sembra una risposta che fa tutto tranne che rispondere: la questione del male resta non spiegata, tant’è che dopo duemila anni siamo ancora qui, con lo stesso grido che qualche secolo prima di Cristo aveva Abacuc nel cuore e sulle labbra…
Questo però non smentisce il fatto che Gesù sia la Parola di Dio, la rottura del suo silenzio, la sua Rivelazione… anzi… proprio perché parola di Dio, è così scostante rispetto alle parole degli uomini…
Gesù (o meglio il Padre, in Gesù) risponde al grido dell’uomo!
Ma risponde a modo suo
(“da Dio” qualcuno commenterebbe) non spiegando il perché o l’origine del male, ma assumendolo, attraversandolo: dopo quel crocifisso nessuno può più dubitare che “la ferita di un bimbo violato in qualche parte del mondo…” risuoni inascoltata per l’infinità vuota dell’universo.
Proprio questa “strana” risposta, costruita sulla logica della com-passione, del farsi uomo tra gli uomini di Gesù, tanto solidale da avere anche lui il suo grido “Dio mio perché mi hai abbandonato?”, diventa l’urlo soffocato di Dio all’uomo…
Solo ora, attraversata la tragicità dell’uomo e la tragicità di Dio, la risposta cui accennavamo prima diventa significativa: “Che ne è dell’uomo? Che ne è, in particolare dell’uomo in Cristo (= cristiano)?”…

Ed ecco l’ammonizione di Paolo: «Carissimo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te […]. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. […] Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita in noi».
All’urlo di Dio che trasuda la logica del com-patire, l’uomo può rispondere intrecciandosi con lo Spirito di Cristo… L’uomo diventa capace di rispondere all’urlo di Dio, che coincide con l’urlo di chiunque sia toccato dal male (cioè, ogni uomo), divenendo cristico, cioè inventando la sua vita assumendo la logica, la sostanza, il sangue, la carne, lo spirito, l’ essenza… di Cristo.

Questa è la fede che gli apostoli nel Vangelo chiedono a Gesù… Un rapporto talmente intenso che uno vive nell’altro (cfr. Paolo: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me»).

In tutto questo che senso hanno le parole di Gesù…? Perché parla di servi, doveri, inutilità? Non sono questi termini che hanno una connotazione opposta ad ogni rapporto d’amore?
La lettura classica (non necessariamente quella “bigotta” che han fatto i preti, ma semplicemente quella immediata che ci giunge alla mente, forse per il dio-idolo-despota che abbiamo nel cuore) ci riporta a pensarci come servi (schiavi) di un dio onnipotente a cui per forza io dovrò qualcosa… e certo questo qualcosa sarà sempre inutile, insufficiente…
Cosa ci permette di scartare questa lettura? Il fatto che l’idea di dio (padrone) e di uomo (soggiogato a doveri e alla continua frustrazione per la sua inutilità davanti alla divinità) non corrispondono né all’idea di Dio né all’idea dell’uomo che ha Gesù.
Mi fa sorridere in proposito ripensare al fatto che prima di ragionarci su in questi giorni, questo brano di Luca mi stava proprio antipatico: infatti, alcuni ragazzi dell’oratorio che frequentavo da ragazza lo avevano appeso in una sala e continuamente rinfacciavano agli altri tutti i servizi che loro facevano dicendo ad alta voce proprio questa frase “Eh… cosa vuoi… tanto poi alla fine siamo servi inutili…”. E non si accorgevano che ribaltavano il senso di quell’espressione...
Io credo infatti che il “dovere” di cui qui si parla («quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato») sia riferibile solo al dovere che nasce dall’amore, dalla com-passione… dal fatto che davvero non posso non fare il bene di mio fratello (perché è questo quello che ci è stato ordinato…), devo farlo: dovevo aiutare Ale a preparare il bac, dovevo accogliere in casa un’amica affaticata che mi ha riversato addosso 500.000 parole a volume impressionante, dovevo...
Ma è davvero il dovere degli innamorati… che davvero per l’amata/o farebbero qualsiasi cosa… sentono che devono e non lo leggono proprio come una costrizione frustrante!!
È il bene che vuoi all’altro che ti obbliga.
E in quest’ottica anche l’essere “servi” e l’essere “inutili” trovano un’altra risonanza…
Volere bene è sempre “mettersi a servizio”, esserci per l’altro e non per sé.
E questo è inutile di sicuro… non mi fa guadagnare (anzi nella logica del “do ut des” concretamente ci perdo di sicuro)… non mi fa guadagnare neanche “punti paradiso”… ma perché?
Perché non c’è niente da guadagnare… infatti “fare quello che dobbiamo fare” è proprio solo entrare nel Regno, vivere da innamorati con tutti, metterci al servizio, com-patendo con tutti i figli che, come dice De Andrè: “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”!

"Il Vangelo non è questione di lingua ma di cuore"

Il Vangelo non è questione di lingua ma di cuore perché voi siete tutti fratelli”. (dall’omelia di mons. Coletti sabato 25 agosto presso l’Eremo del Carmelo)

Mons. Diego Coletti, vescovo della nostra diocesi di Como, ha desiderato trascorrere due giorni di fraternità con i “diaconi permanenti” della diocesi e i relativi familiari, e lo ha fatto presso il nostro Eremo del Carmelo. Due giorni di riflessione intensa sul significato della “diaconia” oggi e del perché, uomini, insieme alle loro spose e ai loro figli, hanno scelto di mettersi al servizio della Chiesa, della Parola di Dio, del loro Vescovo e della Comunità che Egli guida. Ma anche momenti di gioiosa condivisione fraterna che si è manifestata, per esempio, con la passeggiata fino alla chiesetta di san Giuseppe, o durante i giochi organizzati dai figli dei diaconi, alla sera, dopo cena (anche questo un felice momento in cui si è potuto sperimentare l’umanità e la familiarità che il nostro vescovo ha saputo manifestare e condividere con tutti egregiamente, mettendo così a proprio agio chiunque avesse a che fare con lui).

Più che fare una cronaca minuto per minuto di ciò che è successo durante la presenza del vescovo, mi preme sottolineare, brevemente, alcune sue considerazioni manifestate ai “diaconi permanenti”, ma che, come lui stesso suggerisce, valgono per tutti i cristiani.

Innanzitutto che «il Vangelo non è una questione di lingua ma di cuore perché noi siamo tutti fratelli». Un vangelo, quindi, che si presenta quale “buona notizia” rivolta e donata all’uomo per liberarlo dal male e dalla schiavitù di se stesso. Perché questo accada, però, è necessario un costante e perseverante cammino di conversione che ci insegni a passare dalla religione alla fede. La fede, infatti, implica un rapporto di fiducia, cioè di relazione con il solo Dio che per primo ci ha amati. Un Dio il cui contenuto della sua volontà si esprime alla luce di Cristo Gesù, ieri, oggi e sempre! Riporre al centro la figura di Gesù Cristo è la condizione essenziale per cercare di comprendere di quale Dio stiamo parlando.

Un altro aspetto sottolineato da mons. Diego, come problema principale che riguarda ancora una volta la vita di tutti: laici, preti, religiosi e vescovi, è la salvaguardia degli equilibri che significa riuscire, in una vita sovraffollata di mille impegni, a mettere le cose giuste al posto giusto: nel nostro caso si tratta di considerare come questione primaria il riconoscere il valore della “vita interiore”, luogo in cui è possibile trovare Dio e il senso della nostra esistenza: «cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Si tratta, cioè di imparare, insieme, a dissotterrare dai nostri cuori il vero tesoro che non teme nulla di questo mondo, un tesoro «dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,20-21).

Ci auguriamo, pertanto, che questo nuovo anno pastorale ci veda tutti coinvolti in questo lavoro comune di preghiera, di condivisione, di desiderio di sane relazioni per aiutarci vicendevolmente a disseppellire dai nostri cuori ciò che realmente conta nella nostra vita!

Siamo grati, dunque, al nostro vescovo mons. Diego per averci dato la possibilità di accoglierlo e di ascoltare la sua parola, così come siamo altrettanto grati alla Comunità di Cassano V.- Ferrera - Rancio che si è prodigata al meglio per offrire ed accogliere con affetto e calore umano il suo Pastore, allo stesso modo di come un tempo le prime comunità cristiane accoglievano e ascoltavano la parola degli apostoli che annunciavano la “buona novella” di Gesù.

Buon cammino a tutti!

sabato 15 settembre 2007

Una storia... "Infinita"!

Concludevamo il precedente articolo, affermando che la Missione della Chiesa consiste in un annuncio di liberazione che si attua nella comunione amicale con Gesù Cristo e con coloro che egli “associa a sé”, cioè con ogni uomo e ogni donna (cfr Matteo 25,31ss) che in quanto tali domandano una proposta concreta di cammino di liberazione (Provate a meditare in questa prospettiva la liberazione di Barabba descritta in Luca 23,18!)L’“annuncio” cristiano quindi che non è semplice annuncio verbale ma è concreta attuazione storica di itinerari praticabili di liberazione: e questa, dicevamo, è la forma storica, e quindi vera dell’Amore, almeno come ci è stato tramandato dalla Bibbia e dalla Tradizione.Questo “annuncio” di libertà è il luogo dove si fa sintesi di ogni verità e di ogni amore che non si riducano a “dottrina” astratta o a “sentimento” narcisista, ma diventano vita, senso-orientamento dell’esistenza di ogni persona perché è per ogni persona.Una “vecchia” enciclica del 1888 di Leone XIII che fin dall’inizio proclama solennemente che questa è la missione della chiesa, la dice lunga su quanto poco cammino, sia a livello teologico che pastorale, è stato fatto, anche nella chiesa, per attuare quello che è la ragione stessa della missione della chiesa nel mondo! Certo il documento è scritto più per contestare una certa visione non cristiana della libertà e al suo interno le argomentazioni e il linguaggio stesso sono più debitrici di una certa filosofia che di una meditata teologia biblica… Ma l’affermazione, certamente clamorosa per le orecchie diseducate di molti “spiritualisti” resta. Fin dall’inizio si proclama solennemente che “Gesù Cristo è il liberatore del genere umano” e che “missione della chiesa”, è “diffondere in tutto il corso dei secoli i benefici recati a noi da Gesù Cristo”(leggi) eppure di acqua sotto i ponti ne è passata da allora: c’è stato un Concilio, preceduto e seguito da un “risveglio” (evidentemente prima “dormivano”! cfr Matteo 25,5), degli studi teologici, biblici e liturgici oltre che una consapevolezza maggiore del ruolo di ogni componente della comunità ecclesiale all’interno della chiesa (laicato, episcopato, vita religiosa, movimenti, ecc.). Ci sono stati tentativi e deviazioni che hanno sollecitato altri interventi magisteriali, ma l’affermazione di fondo resta: “Il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forza di liberazione”come cita il documento Vaticano Libertatis Nuntius del 1984 [1].

La “paura” di sbagliare non può soffocare in noi e nella storia umana, l’“annuncio di gioia” del dono della libertà attuato da Dio in Gesù Cristo a cominciare dalla “creazione” del popolo di Israele e che si attua e diffonde nella storia con la “creazione” continua del “popolo di Dio”…

Ma evidentemente non basta scrivere dei bei documenti o articoli per cambiare la storia, per cambiare la vita, occorre il coraggio della speranza perché “la proposta cristiana” diventi storia…E questo capacità di osare che spesso ci manca. Osare nel pensare e ripensare: giudizio. Senza dare per definitivamente acquisite le nostre conoscenze, senza voler trasformare ogni verità in dogma. Osare nell’agire storico: discernimento. Senza dare per definitivamente acquisite le nostre soluzioni. Perché la storia cammina, e dobbiamo camminare con essa e portare quell’annuncio di liberazione là dove l’uomo si trova.Osare nel “creare” la storia come Dio Padre sogna che essa sia per ogni uomo e ogni donna (cfr Luca 16,8: “poiché i figli di questo mondo, nella loro generazione, sono più avveduti-saggi-prudenti
[2] dei figli della luce”).Osare che è accettazione prima di tutto del rischio di sbagliare (Cfr la “Parabola dei talenti” in Matteo 25,14-30), e che ci dà la vera misura di noi stessi (umiltà: la paura di sbagliare rivela forse la nostra pretesa adamitica di volerci come Dio?). Ma che è anche rischiarci di proprio perché questo annuncio accada anche oggi, per l’uomo che incontriamo adesso, ora, come abbiamo “visto” in modo “paradossale” in Luca 23,18.È questa mancanza di coraggio che rattrista il cuore di Gesù e il nostro! Che ci impedisce di vivere una vera comunione col Padre, perché è mancanza di fiducia nella sua Parola, è indocilità all’azione dello Spirito e alla Loro proposta di vita nuova, di vita vera, di libertà autentica in un amore liberante. Per questo la nostra preghiera diventa illusoria, “monologo alienante”… È la nostra missione e il nostro annuncio “inappetibili” e incapaci di dialogo autentico.È davanti agli occhi di tutti il fallimento di un annuncio che non affascina più… Le chiese sono vuote e continuano a svuotarsi; le nostre liturgie sono “tristi”; i giovani sono spariti; le vocazioni languono; il matrimonio è in crisi e molto prima dei fatidici sette anni; la società è ridotta a mercato sempre meno equo e sempre meno solidale; le ideologie si pervertono in integralismi; le conversioni nei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, sono spesso più illusorie che reali (le statistiche che sembrano mostrare una crescita quantitativa del cristianesimo non si parlano della loro effettiva consistenza: come mi diceva un teologo, “Non ci si converte, si trasloca” di religione!)…Invece di lamentarci che le cose non vanno più come una volta o come vorremmo. Invece che ripiegarci su noi stessi in una nostalgica, nonché sterile, riesumazione dei tempi che furono che non torneranno mai più, dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione il nostro modo di vita e il nostro stesso modo di pensare e interpretare la realtà e di “organizzarla”… Dobbiamo avere il coraggio di “rifondare” evangelicamente “il tutto”, che poi in realtà è un “tornare” al fondamento della nostra vita, della nostra libertà.Come le vergini avvedute-sagge-prudenti (ancora phrónimoi! cfr nota 2) del Vangelo (Matteo 25,2), se ci siamo ri-addormentati poco importa, ma ora lo “Sposo è arrivato” e il grido dell’umanità è assordante, è il momento di ri-svegliarci e senza paura, ora, “usciamo” per andargli incontro! ___________

[1] Scarica l'intero documento in formato pdf
[2] In greco Phrónimos. Espressione che allude alla lucidità nel cogliere la gravità della situazione e nella prontezza di darne una soluzione nella consapevolezza di vivere un momento storico decisivo (kairós) e il conseguente coraggio di arrischiarsi nel prendere delle decisioni. Phrónimoi dovrebbero dimostrarsi i discepoli di Gesù nel “lavorare” per il Regno (cf Matteo 10,16: il che ci dice quanto poco “evangelico” sia il nostro concetto di prudenza).

martedì 3 luglio 2007

La Libertà come Missione

Al lettore attento (e fedele) non sarà sfuggito che la prospettiva da cui parto in ogni articolo è proprio quella che è inaugurata dall’esperienza di Mosé descritta nel libro dell’Esodo.

Al lettore fedele (e attento) non sfuggirà che gli articoli che seguiranno, per il tempo e lo spazio che mi sarà dato, restando all’interno della stessa prospettiva, cercano di svilupparne il contenuto. E questo perché se il “libro” della Bibbia, come qualunque altro libro, va letto e sfogliato girando le pagine, pagina dopo pagina, per una sua “profonda” comprensione, dopo averlo letto e meditato, bisognerebbe chiuderlo e tenendolo chiuso metterlo come in controluce quasi a volerne attraversare con un solo sguardo tutte le pagine, quasi a domandarsi: “Qual è la “logica” che “attraversa” e tiene insieme tutte queste “pagine”?

Ci chiediamo quindi: "Qual è la “parola-azione” chiave che può “rivelare” tutta l’azione di Dio ivi descritta e il faticoso cammino dell’uomo nell’accoglierla?". Nello spazio che ci è dato proviamo a dare una nostra risposta, senza per questo escluderne altre… in fondo penso che ciascuno dovrebbe trovare la propria… Ebbene, penso che la “chiave” di comprensione sia data proprio dall’esperienza di Mosé descritta nel nostro libro dell’Esodo. Non intendo addentrarmi in una spiegazione scientifica (esegesi), o una lettura spirituale (lectio divina), “modi” certo indispensabili per un corretto approccio alla bibbia, ma vorrei cercare di capire la Logica che “presiede” a tutto il brano… e quindi a tutta la Bibbia, e da qui a tutta la storia della Chiesa e dell’umanità intera! Infatti se da un lato, esiste un’esigenza umana fondamentale di cogliere in unità le infinite connessione tra le “cose”, e questo non solo al livello scientifico: questa vita moderna, spesso parcellizzata e frantumata tra “le mille cose a cui tener testa”, esige ancor più che in passato, uno “sguardo” unificante e pacificante, che senza censurare la realtà nella sua complessità, cerca, con uno sguardo sul tutto, di cogliere il "progetto" unitario di Dio. Dall’altro, solo una “visione” di questo tipo, può dare piena giustificazione di tutta l’azione missionaria della Chiesa: solo se esiste un “progetto” del Padre sull’umanità intera, su “ogni uomo”, la missione non è proselitismo. Quello che appare dal libro dell’Esodo e che attraversa tutta l’esperienza credente descritta nella Tradizione biblica, è che Dio, “scende” in mezzo al suo popolo e lo libera attraverso il dono di una libertà nuova, attraverso il “dono della propria libertà”!La libertà infatti, contrariamente a quanto mi capita spesso di leggere in questo o quel libro o di ascoltare in discorsi più o meno impegnati, a me pare che, biblicamente parlando, non è mai la possibilità di scegliere tra il bene o il male, ma è invece la possibilità, che Dio solo può dare, di poter scegliere il bene per sé e per gli altri. È per questo che, “questa” libertà, come la manna nel deserto, ha bisogno di essere sempre rinnovata dal rapporto sempre nuovo di amicizia con Dio e con gli uomini. È una libertà che ha come fine la comunione-amicizia (Alleanza) con Dio perché essa è possibile solo in questa comunione-amicizia (Alleanza) con Dio: in quanto dono esclusivo di Dio, in quanto essa “è” Dio stesso.

A partire da Mosé quindi, storicamente, inizia una lunga pedagogia di Dio per insegnare all’uomo ad essere veramente libero. Questa pedagogia, senza concludersi, si compie definitivamente in Gesù Cristo… ed è in questo movimento di liberazione che si inserisce la missione della Chiesa fino alla fine dei tempi…

Prima dell’azione di Dio in Mosé e nel suo Popolo, nella storia dell’umanità, l’unica concezione di libertà consisteva nel tentativo per l’uomo di “diventare a sua volta” il “padrone di altri uomini” riducendoli in schiavitù… O cercare di diventare sempre più potenti per potersi sottrarre ad ogni forma di vincolo… In questa logica, solo colui che è “padrone del mondo” è un uomo veramente libero…L’idea stessa della divinità era quella di un essere che proprio perché esente da ogni vincolo, è somma libertà. Veramente libera quindi era solo la divinità. Non a caso la massima autorità politica (faraone, imperatore, re…), era anche “divinizzata” e quindi era anche autorità religiosa… Insomma, solo a partire dall’esperienza personale di Mosé, Dio, “somma potenza” e “somma libertà”, si “lega al suo popolo” e mostra storicamente come all’interno di questo legame (Alleanza), non solo non viene meno la libertà e la potenza di Dio, ma nasce la possibilità di ogni vera libertà umana: nell’“Alleanza” l’uomo acquista finalmente la sua dignità di uomo libero e Dio rivela pienamente la propria.

Siamo qui davanti a una inaudita visione della libertà, che mi sembra fino ad oggi non sia stata ancora pienamente recepita nella vita, nel linguaggio e nel pensiero comune e non solo cristiano: basta leggere qualche dizionario, anche specialistico, alla voce “libertà”…

Eppoi ci si stupisce che ancora oggi “le guerre” non solo non cessano ma sembrano aumentare di numero e di intensità…Da questo rapporto di comunione-amicizia-alleanza con Dio, scaturirà il Decalogo (letteralemente: “le dieci Parole-Azioni” e NON “i dieci comandamenti”), e da qui il culto con i suoi riti e le leggi del Popolo di Israele. Come memoria-dono, di una libertà sempre nuova… In questa prospettiva, fedeltà e libertà coincidono esistenzialmente. Sempre in questa prospettiva il peccato allora appare, non tanto come una “macchia sulla coscienza” o “colpa oscura”, ma come un rifiutare di percorrere un cammino di autentica libertà e voler “tornare in schiavitù”: rifiutare insomma di “diventare uomini”. Infedeltà, peccato, disobbedienza, rottura della comunione-amicizia-alleanza con Dio, sono qui “praticamente” sinonimi.

Questo dono di sé e della propria libertà di Dio all’uomo, attraverso un itinerario storico concreto, si scontra ben presto con la tendenza interna all’uomo di ridurre tutto alla misura della propria paura: nella storia di Israele, l’uomo scopre che gli ostacoli alla propria liberazione completa si trovano proprio nel cuore stesso dell’uomo (cfr ad es. il libro della Genesi) e questo è sorgente di continua sofferenza; a questo si aggiunge esteriormente la consapevolezza che la morte resta un ostacolo insormontabile per l’uomo e davanti ad essa sembra sbriciolarsi ogni “sogno” di libertà piena, ogni possibile attuazione della Promessa di Dio. Gli oracoli dei profeti si inseriscono proprio in questa drammatica lacerazione: nella presa di coscienza dell’impossibilità umana di autentica liberazione e nella “ostinata” Promessa di Dio di attuarla definitivamente. Sarà allora soltanto in Gesù Cristo che, facendoci dono del suo Spirito attraversando il “Mar Rosso” della morte, si renderà veramente possibile ad ogni uomo un cammino di liberazione capace di “passare attraverso” la morte esterna vincendone la paura interna…

Ma c’è, mi sembra, una ragione più profonda del fatto che solo in Gesù Cristo, Dio Padre, può attuare definitivamente quella Promessa di incamminare l’umanità in un itinerario di autentica liberazione. Se infatti, come ci mostra l’esperienza credente del popolo di Israele, la libertà scaturisce dalla piena comunione con Dio, solo Colui che è in piena comunione con Dio è veramente un uomo libero, capace a sua volta di essere sorgente di liberazione per coloro che si affidano a lui. E Gesù è da sempre in comunione con Dio in quanto è in perenne ascolto del Padre e non cessa di esserlo nemmeno davanti alla paura della morte. Se quindi senza difficoltà possiamo riconoscere che l’azione liberatrice di Dio nella storia inizia “cronologicamente” con Mosé e con la nascita del popolo di Israele, possiamo riconoscere che è là dove “concretamente” questa libertà si compie che essa trova la propria “sorgente storica”: e questo è ciò che accade in Gesù Cristo… Gesù Cristo infatti non è creduto “Figlio di Dio” e “Salvatore”, perché semplicemente, mi si passi il termine, “ce lo dice lui!”, ma perché con tutta la sua vita, coloro che lo incontrano, piano piano fanno reale esperienza, in una comunione di vita e di amicizia, di autentica liberazione: si scoprono già su questa terra (e non banalmente solo dopo la morte), “liberati”, cioè “salvati”…Gesù è “creduto” Figlio di Dio, perché i suoi discepoli, sebbene a fatica, riconoscono che in Lui si compiono le “gesta” che Dio ha compiuto fin dai tempi di Mosé. Fanno cioè, lentamente ma inesorabilmente, esperienza dell’Amore-Perdono di Dio in quanto Dio ama liberando! E la Comunità credente (Chiesa), definita tale per il suo rapporto di amicizia col Cristo, nel dono dello Spirito ne riceve continuamente in Dono (Agape) la sua Vita (Comunione) e la sua Libertà (Salvezza) (cfr 2Corinti 3,17). Questo diventa anche il suo “lavoro” e la sua “missione” nella storia.

In cosa consiste allora la Missione di questa “Comunità di amici di Gesù”, come io chiamo la Chiesa? Essa consiste semplicemente in un annuncio di liberazione che si attua nella comunione amicale con Colui che è libero e dona la propria libertà: Gesù Cristo appunto e coloro che egli “associa a sé”… Annuncio naturalmente che non si riduce a proclamazione verbale ma che diventa, nelle diverse situazioni storico-culturali, apertura concreta, nella comunione amicale, di itinerari autentici di liberazione… Perché oramai amare, amare veramente, vuol dire liberare!

domenica 3 giugno 2007

di Pasqua in Pasqua

Proprio perché, come scrivevamo, il senso del nostro agire (umano-cristiano-missionario), è dato dall’orientamento del nostro camminare nella nostra storia concreta, sia come singoli che come collettività, diventa vitale la domanda sull’origine del viaggio stesso. Affinché il nostro camminare non sia un “girovagare senza meta” o un “girare su se stessi” ma tragga dallo stesso avanzare la forza per sostenere la “fatica del viaggio”.
Come una barca in mezzo al mare, sbattuta dalle acque e senza una striscia di terra all’orizzonte che possa farne intravedere l’arrivo, occorre “fare il punto” della fede, sulla mappa della storia, per vedere a che punto siamo del tragitto e se, sballottati dal vento e dalla tempesta dei problemi della nostra vita, non ci siamo involontariamente allontanati dalla meta, come “smarriti nei pensieri dei nostri cuori” appesantiti dal quotidiano tran-tran dell’esistenza.
La meta non dobbiamo inventarcela, dobbiamo solo tracciare la rotta, nel mare senza strade e pieno di pericoli della vita, della “mia vita concreta”. Altri ci hanno preceduti, alcuni hanno fatto da “apripista” e taluni si sono accodati, molti sono già arrivati, altri ci seguono, altri ancora stanno partendo… Altri, forse i più, vorrebbero partire, ma timorosi, stanno a guardare se noi non… affondiamo!
L’unica nostra preoccupazione, per ora, deve essere però quella di vedere se siamo nella “direzione” giusta, se siamo ancora “in rotta”!
Per questo resta importante fissare lo sguardo là dove il viaggio è iniziato, per noi, per tutti, e cercare di vedere quale itinerario è stato percorso e perché, da coloro che ci hanno preceduti nel viaggio della fede e hanno “saputo” arrivare a destinazione.
E iniziamo allora là dove questo cammino ha cominciato nella storia dell’umanità.
Dove? A mio modesto avviso la “storia” ha inizio esattamente “qui”:

Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita,l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!».
Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?». Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte».
Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono/sarò!». Poi disse:«Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio aggiunse a Mosè:«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.
Và! Riunisci gli anziani d'Israele e dì loro: Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dicendo: Sono venuto a vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto. E ho detto: Vi farò uscire dalla umiliazione dell'Egitto verso il paese del Cananeo,dell'Hittita, dell'Amorreo, del Perizzita, dell'Eveo e del Gebuseo, verso un paese dove scorre latte e miele.
Essi ascolteranno la tua voce e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re di Egitto e gli riferirete: Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio. Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non con l'intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo egli vi lascerà andare.
Farò sì che questo popolo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete, non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all'inquilina della sua casa oggetti di argento e oggetti d'oro e vesti; ne caricherete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l'Egitto»

Avrei dovuto scrivere tutto il libro dell’Esodo, alla cui lettura integrale rimando, ma non potendo, ho voluto qui riportare per esteso almeno il brano che è capitale per comprendere il cammino che intendiamo intraprendere perché vi è descritta l’esperienza primordiale e fondante di ogni esperienza di Dio, di ogni vocazione.
Siamo qui al capitolo 3° del libro dell’Esodo dove, nelle varie versioni della Bibbia, si dice che qui si tratta della vocazione di Mosé, ma stiamo attenti a non lasciarci ingannare, qui più che la vocazione di Mosé c’è la descrizione, passatemi il termine, della “Vocazione di Dio” e in quella di Dio, quella di Mosé e del popolo di Israele, di Gesù e dei suoi discepoli… Della nostra e quella di ogni uomo e donna.
Israele stesso ne è come positivamente “ossessionato”… E noi con lui… Bisognerebbe ritagliare il brano e incollarlo su un cartoncino per farne come un “segnalibro” tra le pagine della Bibbia per averlo continuamente sott’occhio ogni volta che leggiamo un qualunque altro brano. Non c’è infatti praticamente un solo passo della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, che in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente non vi faccia in qualche modo riferimento…
Tutta la storia di Israele, la predicazione dei profeti, la sua preghiera e il suo culto, le immagini e i simboli della Bibbia stessa (fuoco, acqua, vento…), hanno la preoccupazione di “dilatare” nella storia questo avvenimento di liberazione e di attualizzarlo rendendolo “visibile” facendone continuamente memoria. Così che, in un continuo rinvio circolare, (ri)attualizzandolo, ne (ri)comprende sempre meglio la infinita ricchezza della sua manifestazione.
Gesù stesso vi farà continuamente riferimento prima e dopo la resurrezione: in quanto ne è “l’ispiratore” (Gesù è Dio in quanto Figlio del Padre) e colui che lo porta a compimento realizzando definitivamente nella propria umanità ciò che in Mosé il Padre ha iniziato nella storia dell’umanità. E, in quanto “corpo di Cristo”, la Chiesa stessa (e la sua missione), non può esistere e capirsi se non in questa stessa dinamica. Il cristiano cioè, non può comprendere la propria missione e identità se non a partire, a imitazione di Gesù Cristo, dalla figura di Mosé e dalla storia di liberazione che ne segue(vedi nota), diventandone “vivente epifania”.


La Pasqua come avvenimento di liberazione e inaugurazione di una vita nuova, è, e resta, nella sua continuità e nella sua diversa compiutezza, l’avvenimento fondante sia per il cristiano che per l’ebreo. E a questa vita nuova, nella assunzione responsabile della libertà, rimanda tutta l’azione di Dio nella storia come descritta dalla tradizione biblica. E nuove, nel suo rinnovato significato, appaiono anche le “parole” ivi contenute.
Ad esempio, ma è solo veramente un piccolissimo esempio, parole “positive” come: libertà, figlio, amico, salvezza, riscatto, redenzione, guarigione, dono, grazia, amore, promessa, terra, popolo, Alleanza, fede, speranza, carità, avvocato, testimonianza, perdono, cuore, coscienza, anima, s/Spirito, Signore, dono, ascesi, vita, creazione, “Legge”, “comandamenti”… E naturalmente il loro contrario “negativo” come: schiavitù, servo, dannazione, malattia, odio, vendetta, peccato, fallimento, infedeltà, disperazione, morte… non possono essere comprese in modo adeguato nel loro autentico senso biblico se non all’interno della prospettiva inaugurata da questo avvenimento di liberazione ivi descritto. E questo è vero sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento. Sia nell’esperienza credente del popolo di ebraico che nell’esperienza credente del popolo cristiano.
Infatti essa non fa altro che rimandare, come declinazioni storiche in un crescendo di attuazione e rivelazione, a quest’avvenimento fondamentale in cui Dio si manifesta come Liberatore e quindi conseguentemente nell’agire come tale, Creatore del suo popolo e per questo Signore della storia. Ed è da qui che deve “partire” ogni autentica vocazione missionaria…
_______________________________________

nota: Ricordo qui un solo esempio per il prima: l’episodio della Trasfigurazione (Lc 9,30; Mc 9,4; Mt 17,3) e per il dopo: l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,27).

giovedì 3 maggio 2007

La Missione come "Cammino"

Se siamo cristiani, dicevamo, siamo necessariamente missionari. È il cristiano che "mi costituisce" missionario. Ma è "la missione" che fa il cristiano! Se muore in me "la missione", muore il cristiano. La missione non è un optional del cristiano, e ancor meno un modo di accrescere numericamente la chiesa espandendo la sua area di influenza nel mondo, ma è un'esigenza prima di tutto vitale, una questione di vita o di morte, del cristiano in quanto tale!

Non è possibile qui, riportare il brano integrale degli Atti degli Apostoli in cui si parla del Battesimo di Cornelio, vi rimando alla lettura integrale dell'episodio (Atti 10,1-11,18). Chiudete la rivista e andate a rileggervi il brano. Anche se già lo conoscete, fate lo sforzo di fermare qui la vostra lettura e aprite la bibbia e poi ci rivediamo: prenderà un po' di tempo ma non sarà senza frutto.

Letto? Bene!

Ora la domanda che ci poniamo è "Chi converte chi"? Chi è il missionario qui? Pietro o Cornelio? In tutti e su tutto agisce lo Spirito Santo certo. Ma se Pietro è inviato, è Cornelio, "il pagano", che lo "chiama" prima e lo "invia" poi perché Cornelio sia accettato da tutta la comunità.

Pietro dà consapevolezza a Cornelio, e Cornelio fa prendere consapevolezza a Pietro, che a sua volta al ritorno nella comunità fa crescere tutta la chiesa nella consapevolezza del dono ricevuto!

Infatti …112 quando Pietro salì a Gerusalemme, i circoncisi lo rimproveravano dicendo:3 «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!».4 Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose […]. 18 All'udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!».

Dunque, prima di Cornelio, non sapevamo che anche ai pagani Dio ha concesso che abbiano la vita? Stando al brano, evidentemente no, non lo sapevamo ancora!

La missione rende la chiesa più chiesa, nel senso che "solo" attraverso la missione la chiesa prende coscienza della propria identità e del dono di Dio!

Lo Spirito Santo infatti non ci è inviato dal Padre per "disfare l'Incarnazione" come se quello che è avvenuto in Gesù Cristo sia una cosa che riguarda "solo lui" e vada archiviato nel passato della storia. Troppe volte ci dimentichiamo della dimensione "carnale" dell'amore di Dio (cf Gv 1,14) per ricondurci a un amore disincarnato, a una verità che cala dall'alto trascurando che la "logica" che presiede all'Incarnazione del Figlio di Dio in Maria attraversa la nostra storia e l'agire di Dio nella storia tutta. Come è sempre stato fin dall'inizio.

L'inizio appunto, di cui sempre dobbiamo prendere continua consapevolezza, come fa la chiesa di Gerusalemme nell'episodio di Cornelio. E come siamo continuamente chiamati a fare "la chiesa che noi siamo" in quanto cristiani. Perché è un inizio che sempre si attua nel quotidiano della nostra vita. Inizio da cui siamo nati (per questo sempre antico) e verso cui noi siamo chiamati essere compimento (per questo sempre nuovo) nell'oggi della vita, nostra e degli altri!

Avanziamo allora, come auspicato, verso l'inizio per cogliere "il senso" del nostro camminare nella speranza, del nostro annunciare nella carità, del nostro vivere nella fede.

E qui subito ci accorgiamo di qualcosa di "ambiguo" che esige subito un chiarimento…

Prendiamo le domande esistenziali tipiche del nostro vivere: "qual è il senso della vita?"; "qual è il senso della sofferenza?"; "qual è il senso della morte?"; "che senso dare alla propria vita?" o ancora, per stare al tema del nostro articolo, "qual è il senso della missione?"…

E constatiamo che per poter rispondere a queste domande, un istruttore di "scuola guida" può esserci di più grande aiuto di un professore di teologia o di filosofia o di certi… preti. E, sia detto senza irriverenza, la lettura del codice della strada, ci apparirebbe più esaustiva di alcuni documenti del magistero, così preoccupati di dare una risposta che sia "più vera della verità" da perdere ogni adesione alla domanda stessa da cui pure erano partiti; così preoccupati del trascendentale da perdere i contatti col reale…

Infatti davanti a simili domande noi subito, figli di una cultura pagana (non è una colpa, ma un fatto!), pensiamo e interpretiamo istintivamente: "perché la vita, la sofferenza, la morte?" o "qual è la verità della vita, della sofferenza, della morte?" o "perché essere missionari?". L'attenzione va sul "perché": della morte, della vita, della sofferenza, della missione. Interpretiamo cioè la parola "senso" in "fondamento", "ragione", "significato" e via dicendo.

E neanche ci sfiora l'idea, che se ci lasciassimo impregnare concretamente da una mentalità biblica (conversione, metánoia, vuol dire proprio questo), leggendola soprattutto con la mentalità di chi l'ha scritta e non solo con la forma mentis di chi la legge, vi coglieremmo invece l'idea di "direzione", "cammino", e quindi (vedremo) di "esodo", "pasqua", "liberazione". Inclusi proprio nel suo significato di "senso di marcia", proprio come descritto nel "mistico" codice della strada!

Smetteremmo così di illuderci, come certi pensatori, che se qualcuno ci desse "la ragione" dell'esistenza sapremmo poi cosa farne… invece è esattamente il contrario, almeno questa è la "proposta biblica": solo dall'uso che ne fai, dalla direzione che prendi ('senso' appunto), ne cogli "la ragione", "il perché", per quanto ciò sia possibile a una povera creatura!

Dicendo quindi, ad esempio, che Gesù ha dato un senso alla propria vita, alla propria morte, non si vuol dire che se ne è fatta una "ragione" intesa magari a mo' di consolazione non potendo fare diversamente… Si vuol dire piuttosto che Gesù ha scelto di dare un orientamento, un thélos, una direzione alla propria vita e alla propria morte. O meglio, che in quanto Figlio ha scelto di continuamente "riceversi" come Figlio accogliendo nella propria vita il progetto d'amore che il Padre, sorgente dell'amore, gli offre. "Fare la volontà di Dio" allora, in questa prospettiva, diventa un camminare, guardare, agire nella stessa direzione: e questo è tutt'altra cosa che il quietistico "rinunciare" alla propria volontà o il buddistico "spegnimento del desiderio", o peggio ancora, la moralistica "mortificazione" che scambia "l'irresponsabilità" per virtù. Anzi è proprio un attuarli e utilizzarli al massimo delle proprie potenzialità nella realizzazione "responsabile" di un "progetto comune" con quello del Padre. E proprio per questo l'idea di peccato che si ricava nei testi biblici soprattutto del Nuovo Testamento, è quella di "un arciere che sbagliando direzione nel lancio della freccia ne fallisce il bersaglio".

Solo così si incontrano allora filosofia e storia: "la ragione" della tua vita (e della missione) è rivelata e contemplata dalla sua direzione! Il cammino della missione diventa allora il fondamento della suo "perché".

La tappa successiva sarà dunque quella di vedere come la comunità credente giudeo-cristiana si è "conosciuta" a partire proprio da questo camminare nella storia in cui si realizza il progetto del Padre che continuamente ci fa figli nel Figlio per il dono pasquale dello Spirito.



Scusate il linguaggio "inusuale": quando utilizzai per la prima volta l'espressione in Camerun anni fa, alcuni, a dir poco, si stupirono… Ma credo che dobbiamo riappropriarci di un linguaggio che non solo è biblico, ma è essenziale a un cammino di fede non idealizzato. (Cf L'enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI). Di "licenze" linguistiche, avrete notato, faccio spesso uso, con buona pace del "purismo" dei grammatici, per forzare il linguaggio ad esprimere meglio, spero, la ricchezza del dono di Dio. Spesso lo evidenzio anche con un corsivo, come un "segno" grafico che avverta il pensiero a cogliere che attraverso "l'errore" voluto si intende dire altro.

domenica 1 aprile 2007

Il coraggio dell'intelligenza

Dagli articoli precedenti credo che appaia sempre più chiaro, anche se non esplicitamente dichiarato, che la riflessione sul come essere missionari oggi, coincida inevitabilmente con la necessità di comprendere cosa voglia dire essere cristiani e carmelitani oggi.

La dimensione missionaria è una “cosa” sola con quella cristiana: sono due modi per descrivere lo stesso avvenimento, da prospettive diverse. L’incontro con la Persona di Cristo che mi trasforma in profondità nel mio essere nel mondo (cristiano) mi trasforma in profondità nel mio essere per il mondo (carmelitano-missionario). E circolarmente, è evidente, che il mio essere per il mondo è ciò che costituisce il mio essere nel mondo. Dico circolarmente, perché veramente, il mio vissuto, la mia storia, che si dispiega nella concretezza della vita carmelitano-missionaria, mi “costruisce” nella profondità del mio essere cristiano: Dio, agisce sempre nella storia, per questo ne è il Signore!

Non c’è un prima o un dopo (umano, cristiano, carmelitano, missionario, ecc.) se non nel crescere storicamente in questa consapevolezza. Al crescere (o decrescere) di una dimensione crescono (o decrescono) necessariamente tutte le altre: l’uomo è uno!

Ora è proprio qui il problema: la “crisi” della fede
[1] porta di fatto a una “crisi” della missione e viceversa.
A poco serviranno gli sforzi per (ri)dare slancio alla missione se nello stesso tempo non si ha il coraggio di ammettere che occorre (ri)dare slancio alla propria fede. Insomma per rispondere alla domanda “perché e come essere missionari oggi” occorre rispondere alla domanda “perché e come credere oggi” (che equivale a risponde alla domanda di “come e perché essere carmelitani oggi”).

E quando si parla di fede, necessariamente il discorso cade là dove essa è storicamente iniziata, nella mia vita, nella vita dei miei “compagni di cammino” di oggi e di ieri. Per vedere se strada facendo, qualche cosa di essenziale è stato trascurato, dimenticato, sviato, mal interpretato, ecc., e che “mi impedisce”, per così dire, di continuare il cammino verso “il futuro” che Dio pone dinnanzi a me. Scrivevo infatti la volta scorsa che la memoria del cristiano, non è una memoria che continuamente è orientata al passato, in quanto questo sarebbe un “ritorno al passato”, che mi renderebbe prigioniero di una storia “idealizzata” e quindi una fuga nell’immaginario e per questo idolatria. La memoria del cristiano, dicevo, è una “memoria del futuro”: è una memoria in perenne ricordo della promessa di Dio.

Occorre forse aver percorso certe strade in automobile per capire, plasticamente quello che sto dicendo: spesse volte in Africa la strada “sparisce” o diventa impercorribile. Occorre allora fermarsi, studiare il terreno, la cartina, per vedere come continuare. Avanzare sembra impossibile, ma tornare indietro non si può perché c’è qualcuno che ti aspetta là dove devi andare e ha bisogno della tua presenza. Si sonda il terreno a piedi, si cercano le tracce di coloro che ci hanno preceduto. Se sono troppo grosse, perché ci è passato un camion, rischi di sprofondare in buche ancor più profonde per la tua macchina, devi cercare, qualcosa che sia alla tua portata o usare bastoni o sassi per rendere la buca meno profonda. Il desiderio di arrivare ti ossessiona. L’immagine della meta ti guida e l’idea di rinunciare neanche ti sfiora. Provi, riprovi, ritenti, ti arrabbi e ti sporchi, cadi e ti rialzi, ma non molli, perché sai che non c’è alternativa che valga la pena di essere percorsa…
E quando finalmente riesci a passare oltre, le grida di gioia tue e dei passeggeri trasformano in festa lo scampato pericolo. La fatica è dimenticata per le energie decuplicate dal ritrovato cammino.

Provate a percorrere la strada che collega il Camerun con il Centrafrica e poi mi direte…

Ecco, cercare le tracce di coloro che sono davanti a noi, perché ci hanno preceduto alla meta, non ha niente a che fare con l’archeologia del passato o ritorno all’indietro, anzi! Sarebbe un tornare là da dove anche loro sono partiti, mentre noi dobbiamo percorre una strada verso là dove loro sono già arrivati! Ed eventualmente, non fare gli stessi errori qualora ce ne fossero stati. Se dobbiamo (ri)studiare il cammino percorso, da loro e da noi, questo va fatto solo in questo senso, con questo scopo, non certo per fare rivivere un passato, che perché passato mai più ritornerà, ma per capire meglio quale è il cammino da percorrere: la direzione da prendere e come affrontarlo…

Credo sia proprio questo che l’autore della Lettera agli Ebrei ci invita a vivere quando spinge ciascuno di noi a dimostrare “il medesimo zelo perché la sua
[2] speranza abbia compimento sino alla fine, e perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza divengono eredi delle promesse” (Eb. 6,11-12). Oppure passi analoghi come quello di san Giacomo: “Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza[3] i profeti che parlano nel nome del Signore” (Gc. 5,10).

Questo ci domanda necessariamente di ripercorrere le tappe del cammino storico dell’intervento di Dio nella “propria storia”, inserito (se è lo stesso Dio!), nel cammino della fede di coloro che stanno vivendo oggi la stessa esperienza di Dio. È un “lavoro” alle “radici della fede” perché queste possano meglio portare linfa all’oggi della mia vita, e rendermi capace di aprirmi sempre di più alla promessa di Dio che si fa presente nella storia dell’uomo di oggi.
E questo è un “lavoro” fatto nello Spirito Santo certo (cfr Romani 8,1ss) ma anche un lavoro fatto con tutta la mia intelligenza perché questo vuol dire essere uomini maturi nella fede cioè veramente sapienti. A questa “intelligenza” ci invitano anche tutti gli Apostoli (cfr 1Cor 14,20
[4]; 2Pt 3,1[f]; Ap 13,18[g]…).

Infatti, si sente spesso parlare di intelligenza “illuminata”, “purificata” dalla fede, ma si dimentica spesso che questo è solo un lato della medaglia, non meno urgente è oggi una fede che sappia lasciarsi “illuminare e purificare” dall’intelligenza!… Una fede che non ha paura di mettersi in discussione, è una fede che ha voglia di crescere, di camminare verso il “compimento della promessa”, per sé e per coloro che il Padre gli affida
[h].
Il non farlo è segno che a questa promessa non si crede veramente più.

E allora ciò ci obbliga a porci la domanda sulle “ragioni” del “viaggio”, perché forse a furia di camminare ci siamo dimenticati del perché siamo partiti, ci siamo dimenticati verso dove camminare, ci siamo scordati “la meta”!

È questo, con umiltà e coraggio, che vorremmo iniziare a fare nel prossimo numero…
A presto!

[1] Anche qui, quando dico fede (o speranza o carità) intendo sempre fede-speranza-carità, così come quando dico, più sotto, credere (o sperare o amare) intendo sempre credere-sperare-amare, in quanto mancando un aspetto dell’affidamento a Dio nel mio cammino storico, viene a mancare l’atto stesso dell’affidarsi a Dio.
[2] Di Dio!
[3] Attesa fiduciosa nel compimento certo della promessa: questa è la speranza!
[4] Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.
[e] Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio.
[f] Questa, o carissimi, è gia la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza.
[g] Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.
[h] Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, (Filippesi 1,9)

giovedì 1 marzo 2007

La vita cristiana è memoria del futuro e non nostalgia del passato

Il coraggio è qualcosa di così essenziale alla fede-speranza-carità, che potremmo dire che dove c’è vera fede-speranza-carità c’è necessariamente coraggio… e al contrario la mancanza di coraggio è segno evidente dell’assenza totale, sì totale, della fede-speranza-carità infuse da Cristo.
Vi sembra un giudizio troppo temerario? Io non lo credo…
San Giacomo nella sua lettera (2,20) ci dice: “Ma vuoi renderti conto, o insensato, che la fede senza le opere è inutile?” e altrove (v 26) con più forza ricorrendo ad una similitudine dice: “come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”: dice proprio morta (nekra), non addormentata, assopita, accantonata, o qualunque altra parola che noi usiamo per illuderci che in fondo in fondo siamo ancora cristiani…
L’assenza del coraggio, necessario alla fede-speranza-carità per vivere nella storia e non nell’immaginario, porta necessariamente alla necrosi del dono di Dio! Non ci si salva senza la fede, ma la fede, se c’è, non resta con le mani in mano…
Questo pensiero è espresso, spesso in modo più sublime, ma senza tentennamenti anche dalle altre lettere apostoliche, e anche da san Paolo, che altro è infatti il cosiddetto “Inno alla Carità” di 1Cor 13 ?
Non è certo qui l’ambito per fare una “esegesi” del pensiero apostolico, quindi ci fermiamo qui nella breve digressione biblica… Ma basta osservare attentamente nella nostra vita concreta, che troppo spesso non di semplice debolezza si tratta, ma di messa in dubbio, qui ed ora, dell’efficacia salvifica di ciò che Gesù Cristo è venuto a portare nel mondo…
In fondo in fondo, noi abbiamo un solo problema ed è questo: “Non crediamo veramente che ciò che Dio ha promesso all’umanità in Gesù Cristo, e che ha distribuito largamente nei santi di ieri e di oggi, possa compiersi anche in noi!”. E questo ci rende pavidi…
E siccome siamo pavidi e non osiamo agire, ecco che vengono sempre meno le possibilità di “verificare” nel quotidiano la potenza e la forza dello Spirito. La fede-speranza-carità ha bisogno di “segni”, per nascere, per crescere… ma così noi perdiamo la possibilità di essere “segno”, persino a noi stessi, della potenza dello Spirito di Cristo. È un circolo vizioso generato dalla paura che diabolicamente ci paralizza (cfr Ebrei 2,14). Ma “nell'amore non c'è paura” (1Gv 4,18).
Posso capire che non crediamo in noi stessi (troppo immediate ci appaiono le nostre incapacità e i nostri limiti), ma la fede non è credere in noi, ma credere nella promessa che ci viene da Lui.
Posso capire che abbiamo paura di sbagliare, ma essere resi capaci di chiedere e ottenere il perdono dovrebbe curarci dai meccanismi di un “io” che si pone a dio di se stesso, immaginandosi infallibile.
Posso capire ancora che a volte possiamo essere “stanchi di ‘lottare’, contro tutto e contro tutti”: ma solo la gioia del Signore, e non quella degli “altri”, è la nostra forza (cfr Neemia 8,10).
Resta il fatto che io personalmente, se una cosa posso rimproverarmi nella vita come missionario e come uomo, è quella di non avere avuto sempre abbastanza coraggio di rischiare fino in fondo, ma di essermi, come dire, fermato a metà, magari per non aver osato contraddire un fratello…
Credo che come missionari dovremmo avere più di coraggio nell’annunciare la fede e nel saperla incarnare nelle situazioni concrete alle quali il Signore ci invia…
Troppo spesso abbiamo “ricopiato” moduli religiosi nella difesa disperata di una “forma tradizionale” che oramai non dice praticamente più niente neanche là dove essa è nata, perché incapace di “informarne” l’esistenza. Semplicemente l’abbiamo esportata, come si esporterebbe qualunque altro prodotto occidentale, senza minimamente preoccuparci del contenuto di “vitalità” che essa ancora contiene. Esportata, come se avessimo voluto “prolungarne” la sopravvivenza. Il ragionamento, conscio o inconscio che sia, si potrebbe descrivere più o meno con questa espressione: “Visto che oramai, le cose da noi non ‘funzionano’ più, perché la società sta cambiando, portiamole altrove affinché possano sopravvivere”. Ci troveremmo in questo caso di fronte a una “missione”, più frutto del disagio di “inserimento nel proprio tempo” del missionario-religioso, che di vero “mandato” a “evangelizzare le genti”.
Un altro ragionamento ancora più subdolo potrebbe essere: “Questo modo di vivere ha ‘funzionato’ con me, perché non dovrebbe ‘funzionare’ anche per gli altri?”. In questo caso però, facendo confusione tra forma e sostanza, noi diventiamo annunciatori di noi stessi e non missionari del Vangelo di Cristo.
D’altronde, l’ho sempre affermato anche ai miei amici in Camerun, che, per quanto riesca a capirne io, nella modalità dell’annuncio cristiano che storicamente si è sviluppata in terra camerunese, (parlo di ciò che conosco!), c’è un’aporia, una contraddizione di fondo. Come è possibile infatti che schemi e mentalità “religiosi” o “carmelitani” che hanno “fallito” in Patria (come interpretare altrimenti il grido di allarme della Chiesa a “ri-evangelizzare” l’Europa? Senza parlare del crollo di vocazioni maschili e femminili…), possano avere successo altrove? Se il cristianesimo in Europa nella sue “forme tradizionali”, che pur ha generato fior di santi, nella Chiesa e nel Carmelo, è arrivato, non sempre per colpa sua, a una generale esaurimento della sua vena ispiratrice, che senso ha perpetuarne l’agonia?
Non esiste sapere umano che non si evolva nel rivedere e rielaborare le proprie conoscenze. Questo è vero nella formulazione teorica come nella sua attuazione pratica.
Tutta la Bibbia è un “rincorrersi” continuo verso il compimento della Rivelazione in Gesù Cristo… E una volta arrivato Gesù, il Messia atteso da secoli, la storia non si è fermata, anzi, Lui stesso ne ha dato come un’accelerazione, orientandola definitivamente verso la pienezza nel Giorno della sua venuta definitiva. Dove sarà pienamente manifesto ciò che ora è solo “immagine in uno specchio” (cfr 1Cor 13,12). E Dio sarà, finalmente, tutto in tutti.
Come è possibile allora, che ci sia tra di noi, chi vede soprattutto in un’epoca passata, nel suo linguaggio, nelle sue modalità espressive e organizzative, nel suo stesso modo di vestire, l’ideale di vita del cristiano? Certo non è un errore solo cristiano, si guardi ad esempio quello che sta accadendo oggi nell’Islam. Esso è figlio di un certo modo di concepire la storia e la religione che si “contorce” nel tentativo disperato di fermarne il cammino: ma è uno sforzo, grazie a Dio, destinato inesorabilmente a fallire. La storia si compirà, comunque, con o senza di noi. Guai a noi metterci di traverso al piano di Dio. Ne usciremmo stritolati perché voler fermare la storia è come voler fermare Dio stesso che ne è l’unico Signore (cfr Isaia 44,23). La memoria del cristiano, non è una memoria che continuamente è orientata al passato, come ideale di vita, la memoria del cristiano è una memoria del futuro: è una memoria in perenne ricordo della promessa di Dio.
Questa promessa è entrata nel mondo, in un momento storico ben preciso, e per questo lo studio-approfondimento e assimilazione dell’esperienza originaria di coloro che ci hanno preceduto in questo itinerario di fede resta fondante, ma subito questo ci deve proiettare verso un incontro che si compie necessariamente nel futuro della nostra storia. Nel futuro di Dio e non nel nostro passato, stanno le nostre vere radici, le tue e le mie!
Dobbiamo allora avere il coraggio di esporre con chiarezza alcune esigenze dell’annuncio cristiano.
Essere missionari vuol dire perpetuare in “terra di missione” una modalità di essere chiesa o annunciare, all’interno di una modalità necessariamente “provvisoria”, il Vangelo che è la persona di Gesù Cristo?
L’implantatio ordinis, vuol dire “traslocare” il carmelo italiano o trasmettere il carisma carmelitano?
Quanto scritto sopra dovrebbe in parte aiutarci a discernere le coordinate essenziali in un tentativo di risposta che possa costituire un itinerario concreto di “annuncio evangelico”.
Certo non penso che esista una sola risposta! Credo però che alcune cose siano oramai acquisite e facciano definitivamente parte del “sentire comune”.
I nostri confratelli africani (ma non solo: pensate a coloro che, in Italia, nuovi entrano nel carmelo e/o si accostano alla fede cristiana), hanno la sacrosanta missione di mettere in circolo i doni ricevuti dallo Spirito, nel dare forma nuova al cristianesimo e al carisma carmelitano senza necessariamente ricopiarne tout-court le “forme” storiche. È compito soprattutto di coloro che le vivono, discernere nello Spirito, come e cosa dal tesoro della Tradizione viva trarre “cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
Nostro compito come missionari-confratelli è di accompagnarli in tutto questo, con occhi limpidi e gioiosi, compiacenti e misericordiosi, sapendo che, come lo è stato anche per noi, è nel balbettio della nostra vita, che la Parola di Dio ha saputo far sentire “al mondo” la sua voce.
Ecco questo è il coraggio che ci è chiesto nel mondo di oggi, senza aspettare che la Storia ce lo imponga.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter