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domenica 6 luglio 2008

I peccati di Messori

L'antefatto
Leggo a pg 23 del Magazine – Corriere della Sera del 12 giugno 2008, uno scritto di Vittorio Messori che riporto integralmente:

«La lezione del card. Martini
Peccati Vaticani di Vittorio Messori
Che scandalo per il Vaticano! Che coraggio il cardinal Martini! Che scoop per il quotidiano che ha pubblicato la notizia. Predicando gli esercizi spirituali al clero, l’arcivescovo emerito di Milano si è lasciato andare a una rivelazione: i sacerdoti cattolici non condividono il privilegio mariano della esenzione dal peccato originale. Dunque, anche i preti possono peccare, essi pure sono a rischio di invidie, gelosie, mormorazioni, vanità, carrierismo. E talvolta cedono a simili sirene. Insomma, i miti vanno una buona volta sfatati: persino chi ha ricevuto gli ordini sacri può cadere in qualche mancanza. Ironia, ovviamente, la nostra.
Ma giustificata e un po’ amara: spiace, in effetti, constatare che si dia tanto risalto a ciò che sin dai tempi del Concilio di Trento costituisce il tema obbligato di una giornata di predicazione ai ritiri del clero: le colpe dei consacrati. Ma, ancor prima, nei secoli dei grandi Padri classici e dei grandi Spirituali medievali era continua l’insistenza sulla Ecclesia immaculata ex maculatis, la Chiesa santa malgrado i suoi uomini (e donne) peccatori. Una novità? Sì certo, ma antica come il Nuovo Testamento.»

I rimandi
Confrontate lo scritto con l’articolo a cui “si” risponde Messori (nell’anticattolico giornale Repubblica.it e pubblicato anche nel blog); notate le parole (che ho messo in evidenza) che relativizzano il tutto… Aggiungete che, guarda caso, in un modo o nell’altro, c’è di mezzo il solito Cardinal Martini… notate infine che il finale sembra quasi un invito ai giornalisti a un comportamento omertoso, infatti sembra dire: “suvvia non sono notizie di cui devono occuparsi i giornalisti!”… E fatevi la vostra opinione, io qui do la mia, alla luce del Vangelo, come quello propostoci dalla liturgia in occasione della festa di san Tommaso apostolo (Gv 20,24-29).

Tornando al Vangelo
La Parola di Dio si sa è inesauribile, questo quindi ci aiuta di farne emergere di volta in volta aspetti che sappiano aiutarci a dare un significato nuovo alla storia sacra che stiamo vivendo…
In riferimento a questo brano evangelico, possiamo quindi porci questa domanda: Qual è il problema di fondo?

L’alleanza tra Narciso e Prometeo
Il problema di fondo è che ciò che fa fatica alla fede è cogliere in modo adeguato la “relazione”, la “connessione”, tra il Risorto e il Crocifisso! È questo, ieri come oggi, che fa problema esistenzialmente! Che è in fondo la vera questione della fede in Cristo!

Mi spiego: tutti i cristiani credono e proclamano che il Figlio di Dio, si è fatto uomo in Gesù di Nazaret detto il Cristo, patì sotto Ponzio Pilato, fu Crocifisso, è morto per la nostra salvezza ed è Risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre e che tornerà nella gloria, ecc. Tutte cose, e altre ancora, che proclamiamo nel “Credo” ogni domenica come una cantilena…
Ebbene sembrerà strano ma questo oggi non fa problema, come non fa grande problema credere alle stimmate di Padre Pio, ai miracoli di Lourdes, e a ogni cosa che in qualche modo per quanto ci affascini non cambia la nostra vita più di tanto… Nella “storia che ci è data di vivere”, il nostro agire concreto, in campo economico, politico, sessuale, relazionale, ecc., non ne è assolutamente “sconvolto”, al massimo si aggiunge qualche preghiera in più, qualche pellegrinaggio o offerta in più, penitenza e digiuni compresi… Cose santissime e rispettabili certo ma per cui il nostro modus vivendi non è per niente chiamato a cambiare, a fare metànoia… e lo sguardo sulla realtà non cambia radicalmente.

Come a ben vedere non cambia più di tanto il “sapere” che Gesù Cristo una volta morto sia tornato in vita, dopotutto se credi che Gesù è Dio… ci mancherebbe altro che Dio non possa risuscitare…

Si può quindi continuamente “credere” alla Risurrezione di Cristo, ai miracoli, e continuare a non-credere che sia possibile un mondo di pace, che sia possibile convivere con i rumeni e i rom, che sia possibile cambiare la società italiana (e del mondo) rendendola più accogliente, aperta, multietnica e multireligiosa e pulita e onesta, ecc., ecc., e proprio per questo più sicura: Sicura per amore e non per forza (che poi la rende ancor più insicura) mettendo poliziotti (e militari) in ogni quartiere del paese o armando ogni cittadino (come il cristianissimo Stati Uniti d’America docet!). E questo perché?
Perché il “senso religioso” dell'uomo, crea idoli che non convertono nessuno in quanto proiezione del proprio “io”, in quanto forma sublime del proprio narcisismo che si fa prometeico pur di diventare un dio.

La Croce come forma della Risurrezione
Occorre quindi ricominciare dal Vangelo e, come insegna l’episodio di Tommaso, scoprire che il problema umano non è riconoscere Dio, ma riconoscere quella “forma divina” che si manisfesta in Gesù di Nazaret, e cioè, riconoscere che «Il Risorto è il Crocifisso!»...

Quello che fa problema alla comunità di Giovanni (o chi per lui) e a noi, è che il Risorto è il Crocifisso: non solo sono la stessa persona, ma sono all’interno della stessa “economia” salvifica. L’una non cancella l’altra, ma l’una rimanda all’altra, perché l’una “è”, in qualche modo, l’altra… Il passaggio dal Crocifisso al Risorto è più facile (forse perché più predicato), ma non è autentico se non si fa anche il passaggio contrario (basta vedere tutte le deviazioni doloristiche di una certa ascesi cristiana). E cioè non solo “il Crocifisso è risorto” ma anche che “il Risorto è crocifisso”, insomma il Risorto è tale perché si è lasciato crocifiggere! Anzi la Croce l’ha “agognata”!

Ecco perché nel Vangelo di Giovanni, la crocifissione “coincide” con la risurrezione: è morendo corporalmente sulla Croce che il Cristo entra corporalmente vivo (Risorge) nella gloria del Padre!

Per Giovanni, “essere innalzato” e “essere glorificato”, coincidono: è dire la stessa cosa. Cioè la Croce è la forma della Risurrezione!
Giovanni lo aveva già “mostrato” nel racconto della Passione, dal “modo regale” di consegnarsi alla Croce di Gesù e di vivere la Passione, ora deve “mostrarlo” per così dire, anche dall’altro versante, dal versante del Risorto e mostrare come nel Risorto permangono i segni della Passione…
Ecco perché è importante il gesto di Tommaso: perché riconosce nel Risorto i segni del Crocifisso, riconosce nel Risorto la forma della Risurrezione di Dio, cioè la crocifissione. Riconosce nel Glorificato la forma della Glorificazione propria del Dio di Gesù di Nazaret (cfr il “Mio Signore e mio Dio!”). Il “mondo” infatti conosce ben altre forme di glorificazione. Ma solo quella della crocifissione di Gesù, è propria di Dio (e dei suoi figli)...

Il “togliere” la crocifissione dalla risurrezione è l’errore di fondo degli apologisti odierni privi di speranza (cfr Prima lettera di Pietro)… Infatti loro non danno ragione della speranza, vogliono solo impedire d’essere crocifissi, come se potesse esistere per il discepolo una resurrezione-glorificazione-santificazione senza viverne (“agognandola”!) la crocifissione (di per sé essa è possibile, ma solo secondo l’autodistruzione del “mondo”, non secondo il Padre)…
Di fatto la loro, al di là delle loro buone intenzioni (ma la logica del “mondo” è piena di buone intenzioni che riempiono la storia di cadaveri), rifiutando di vivere la crocifissione della Chiesa, ne “ritardano” la glorificazione, e in questo modo, separano la Chiesa (e la sua vocazione), dal Cristo (e la sua missione). Il Corpo dal Capo.
A ben vedere, è una forma di “apostasia culturale” in quanto rifiuta di cogliere la “logica” profonda che prende corpo nella persona di Cristo, almeno così come ci è trasmessa dagli Apostoli.
Non è un caso che gli Apostoli non abbiano mai omesso di parlare apertamente dei problemi e dei peccati delle proprie comunità cristiane e persino del proprio tradimento proprio per sottolineare insieme al ravvedimento-conversione in “cosa” effettivamente esso consista: “credere” nella logica dell’amore crocifisso, perché unica forma d'amore che salva il mondo. E lo salva perché appunto si lascia uccidere piuttosto che uccidere (si può “eliminare” il prossimo persino per amore!). Ecco perché Gesù “doveva” morire in Croce e noi con lui “dobbiamo” morire in Croce. Nella testimonianza apostolica, il ravvedimento infatti è reso “definitivo” solo dalla piena conformazione al Crocifisso nel martirio: e questa è la “testimonianza” del discepolo.

Non capire questo vuol dire non aver colto il cuore del messaggio evangelico e inciampare in molti altri “errori”, che come a grappolo, bombardano il cristiano distratto e ammaliato da tanta abile retorica.

La Chiesa vuota e impenitente
Tra i tanti, il più grave è quello che partorisce un’idea astratta di Chiesa (come ipostatizzata), separata dalla “storia dei suoi membri. La Chiesa santa da una parte e i suoi membri poveri peccatori dall’altra (notate quel “malgrado”)… In questo modo di parlare della Chiesa non solo si manifesta un’idea di Chiesa “vuota” (guarda caso proprio come le nostre chiese dove i fedeli sono altrove), ma anche ne consegue che “la Chiesa – in quanto Chiesa – non può chiedere perdono” e nessuno, nemmeno la Chiesa, può comunque “chiedere perdono per errori e/o peccati del passato di qualche suo membro peccatore” (e qui si contraddice persino la “comunione – nella buona e cattiva sorte – dei santi”).

Mentalità alquanto diffusa quest’ultima in ambito ecclesiale e teologico e giornalistico, ma che dimentica, tra l’altro, separando il Corpo dal Capo, che se Gesù Cristo ha chiesto perdono al Padre di peccati che non ha assolutamente commesso, (e quindi ha chiesto perdono anche a noi, perché l’amore del prossimo e l’amore di Dio sono inseparabili), ancor di più deve farlo il “ladrone” che li ha commessi, se vuole essere “buon” discepolo ed ereditare il Regno (cfr Beatitudini).

La santità come perdono
La santità della Chiesa cioè è la santità che nasce dal perdono di Dio Padre in Cristo e il perdono lo si accoglie riconoscendosi peccatori e perdonandosi a vicenda… Come ci insegnano ancora una volta gli Apostoli quando si rivolgono ai “membri” delle comunità cristiane da loro dirette chiamandoli “santi” e nello stesso tempo non esitano nella stessa missiva ad elencarne i limiti, errori e peccati…

L’«unica» missione
La missione della Chiesa quindi, non è quello di passare il tempo a difendersi dalle accuse (per di più a dir poco non infondate), sminuendo magari la portata dei propri “errori”, ma dopo essersi battuta il petto per i propri peccati (presenti e passati) apertamente e sinceramente nella Verità crocifissa, deve fare propri anche i peccati e le colpe di tutti coloro che il perdono non sanno o non vogliono domandarlo, anche e soprattutto di coloro che non la riconoscono inviata dal Padre e da Cristo per essere strumento di salvezza condotto dallo Spirito (amore crocifiggente tra il Padre e il Figlio e i figli)… La Chiesa, corpo di Cristo, solo così rende attuabile, nell’oggi della storia, la grazia del perdono possibile anche per ogni creatura… E realizza se stessa come inviata dal Dio.

La vera apologesi
Questo sì che è vera apologetica perché è andare “contro” la mentalità di questo mondo, facendo propria quella del Padre manifestatasi in Cristo-Capo. Ciò però domanderà un cambiamento di rotta radicale del modo di condurre oggi la barca della Chiesa, ma se non scendiamo dalla Croce, il mondo (e noi con loro) sarà “convinto in quanto al peccato” e per questo salvato (Gv 16,8ss; cfr anche 16,20ss).

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