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giovedì 16 dicembre 2010

IV Domenica di Avvento: Giuseppe, simbolo del dramma umano-divino

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma anche il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare… E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…


Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no? No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo sabato, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…

Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale, se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a)?

Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal “rannicchia mento” sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…

Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.

La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»… Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… ma proviamo a metterci un po’ nei panni dei protagonisti… nei panni di Giuseppe… forse le cose ci appariranno sotto un altro punto di vista… una prospettiva nuova che potrà aiutare anche la nostra (quella di quelli che sanno già tutto…) a farsi nuovamente istruire… Insomma… Giuseppe si ritrova con un ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata come una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio… (e che peccato che i cristiani nel guardare a queste donne non abbiano imparato dalla tenerezza e giustezza di Giuseppe verso la sua Maria)…

Ad ogni modo… Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò». Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina («mentre stava considerando queste cose»)… ed è facile immaginarselo così… perché è così simile alle tante volte in cui noi ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del cane che si morde la coda… E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il suo ragionare, partorisce la sua risoluzione… come l’elefante che partorisce il topolino… infatti la sua è una risoluzione che non può che apparire ed apparirgli come il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla… «pensò di ripudiarla in segreto».

Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci stava intorno… ma d’altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro? «Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Avviene qualcosa… finalmente per Giuseppe arriva l’unica risoluzione che dà gioia, l’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa! È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).

È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il nodo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).

E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe… Troppo spesso lo immaginiamo come una figura presto da dimenticare: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con questa storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce, senza che si sappia più niente di lui… insomma… non pare avere una grande parte nella scena della vita di Gesù…

E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato… Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…

È interessante che la Chiesa proponga proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: forse vuole dirci che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…? Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…

Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
Eppure… non va dimenticato… che anche questa esperienza di Giuseppe non va troppo facilmente risolta nel suo “lieto fine”… anch’esso è testimonianza in piccolo di una dinamica più grande e pervasiva di tutto il vangelo: c’è sempre una drammatica con cui scontrarsi…

Per Giuseppe è la sottrazione della generazione di suo figlio, di cui infatti sarà “solo” il padre legale («Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo: la donna è invitata a rinunciare al suo umano progetto, e diventa il luogo della parola parlata da Dio», I volti di Eva a cura del Monastero delle carmelitane scalze di Legnano)… dramma simbolico del fatto che quel bimbo porta in sé la drammaticità che cambierà la storia («Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”»Lc 2,33-35; «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34): anche Maria – che in tutto il racconto di Matteo non dice una parola – dovrà «continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline… il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti… anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro”. Per domandarsi ancora una volta che senso avessero. Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito – morto – il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. Di questa malattia umana, trasmessa da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto delle due cose incompossibili, una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli. La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio. Doppiamente lacerati, dunque, dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio e la nostra storia nel suo abisso di impotenza e di morte – e dalla solidarietà con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla»… [I volti di Eva]

… se non… re-investire esistenza – che è il contrario che l’emorragia di umanità (di cui siamo affetti quando muore qualcuno che amiamo); che vuol dire re-investire la nostra affettività, le nostre ‘molle’, le nostre dedizioni, la nostra voglia, le nostre chiacchiere, le nostre rabbie, i nostri perdoni… in un tessuto di volti… che è l’unica cosa che può portarci a perdonare Dio, o la vita, o la storia, o noi stessi, o chiunque individuiamo come sfogo del nostro “non doveva andare così”… perché soltanto il tornare a credere nell’amore (fino ad investirci la vita) ci fa fare pace con la drammaticità che la nostra storia – e il nostro Dio anch’egli passato in mezzo ad essa – ci consegna… [cfr. Elaborare la dipartita, a cura del Monastero della carmelitane scalze di Legnano].

1 commento:

Denise Cecilia ha detto...

Caspita. Quanti e quali modi ha il Signore per comunicare, eh?

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