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domenica 5 dicembre 2010

L'Arco esistenziale

Dice san Paolo nella lettera ai Romani: tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione. E qual è lo scopo di questa istruzione? Affinché – spiega – non muoia la nostra speranza anzi cresca ancor di più in una “speranza viva” e vivificante…

Ora però nessuno libro, nessuno scritto, nessuna opera artistica per quanto sublime, dà speranza, anzi più è sublime e più grande è la nostra disillusione. Finito di leggere o di visionare un bel film e tornati alla cruda realtà, il nostro sconforto diventa ancor più grande: quello che abbiamo visto, quello che abbiamo letto non ha cambiato la realtà che viviamo anzi ne evidenzia ancor di più la negatività e ci rivela i nostri limiti a modificarla!
Tempo fa, lessi un articolo che spiegava come alcuni spettatori finita la visione del film che mostrava un “mondo fantastico”, uscendo dalla sala si sono sentiti assalire da un sentimento di rifiuto della realtà, fino ad avere pensieri suicidi… Esperienze limite certo… ma che possono insegnarci qualcosa sul modo con cui dobbiamo comprendere queste parole della lettera ai Romani (e quelle analoghe nella Bibbia).

Come è normale che sia, spesso noi leggiamo a partire dalla nostra esperienza, ma altrettanto spesso ci rendiamo conto che è necessario fare uno sforzo ulteriore per capire l’esperienza dell’altro anche se usa le nostre stesse parole, altrimenti – come in questo caso – le sue parole sono prive di senso o peggio suonerebbero non solo false ma radicalmente “omicide” perché illusorie… Quindi come comprendere le parole di San Paolo? Che cosa vuol veramente dire? Sappiamo che san Paolo non poteva avere in mente il nostro sistema scolastico. Ai suoi tempi non si insegnava nei banchi di scuola su libri scolastici. Né aveva in mente le scuole filosofiche di Atene…

Quando Paolo parla di istruzione (didaschalian) intendeva ben altro rispetto al nostro concetto di istruzione. Quello che lui intendeva con “istruzione” era leducazione pratico-esistenziale (cfr la Didaché). Proprio quel tipo di insegnamento che intercorre tra un maestro di vita e un suo discepolo: un insegnamento che nasce da una comunione di vita, da una vita in comune, da uno scambio di vite. Lo si vede bene nei Vangeli quando applicano questa espressione a Gesù dicendo – ad esempio – che “insegnava in parabole” e ancora che chiamava a sé – nota bene dice: chiamava/chiamò “a sé” – i suoi discepoli e li istruiva. Un esempio concreto a tutti noto è certamente la lavanda dei piedi descritta nel vangelo di Giovanni: come Gesù insegna? Prima fa un gesto – si toglie la veste e si china a lavare i piedi ai discepoli – e poi con una domanda che sollecita attenzione e introspezione ne spiega il significato. Letteralmente lo dispiega, toglie le grinze del nostro cuore e della nostra mente, per portare il discepolo non alla semplice comprensione del gesto ma all’accoglienza e all’imitazione cambiandone il cuore (e quindi non è imitazione volontaristica pur essendo coinvolta la volontà)… Tutto il comportamento di Gesù è all’interno di questa logica.

Se questo è l’insegnamento-istruzione che Paolo intende (e così anche gli autori biblici) è chiaro che gli scritti a cui sempre Paolo fa riferimento, non sono semplicemente dei fogli di carta o di pergamena o antichi papiri… ma sono qualcosa di più di testi scritti: sono gesti, opere concrete, azioni di Dio nella storia a cui questi scritti rimandano, proprio come i racconti dei Vangeli non sono altro che un memoriale dell’agire stesso di Dio in Gesù Cristo nella storia concreta dell’umanità! E non a caso erano scritti che vengono letti nel contesto di una azione liturgica (sinagogale o ecclesiale). Se questo è l’insegnamento e se questi sono gli scritti (e solo se sono questo), allora si può affermare che “danno”, suscitano e nutrono speranza. E di speranza autentica e non illusoria!

Cioè la speranza a cui Paolo – e i cristiani e gli ebrei – fanno riferimento, non è il frutto del desiderio di cambiamento dell’uomo, che per quanto nobile è incapace di portare “il peso” della propria e altrui storia e si scopre nei fatti sterile perché inadatto a farsi concretezza duratura (perseveranza). La speranza cristiana è invece frutto della promessa di Dio che si fa concretezza storica in chi la accoglie appagando il desiderio dell’uomo orientandolo verso un compimento fecondo e concreto oltre se stesso. Ben oltre persino i confini del proprio desiderio. Orientamento che include proprio per questo anche maturazione e quindi “crisi” purificatrici.

Ho letto di autori – soprattutto di cultura marxista – che parlano di “ottimismo della volontà nonostante il pessimismo della ragione”! Un ottimismo così – sia detto senza offesa – nel migliore dei modi è volontarismo ebete. Come arrivare allora ad avere – per usare lo stesso linguaggio – l’«ottimismo della ragione»? Non limitandosi a guardare il buio della notte ma imparando a guardare e a lasciarsi guidare dalla luce delle stelle! Che proprio perché è buio si vedono. Basterebbe anche una sola cometa… La speranza si manifesta così come la capacità data all’uomo che la accoglie, di vedere la luce dell’agire di Dio nel buio della vita dell’uomo (che proprio per questo non è mai totalmente buia e proprio perché buia – debole – consente di vedere la luce – grazia). Questo fondamento sull’agire di Dio è – mi si passi il termine – l’«ottimismo della ragione». È la ragione che spera e fonda la propria speranza sulla promessa fattuale di Dio. Ecco perché la speranza è infallibilmente certa e ci rende storicamente efficaci! E può cantare con Maria il Magnificat, «per le grandi cose che il Signore ha fatto», fa e farà in me e nella storia di ogni vivente, dispiegando «il suo braccio potente». Quello che dobbiamo fare è allora affidarci ai segni storici della sua promessa. Promessa che infatti come tutta la scrittura ci insegna, non è mai fatta di parole ma di azioni concrete di Dio: tutto sta nel “fissare lo sguardo” e nel “tendere l’orecchio” e “muovere i piedi”. Ecco perché le Scritture, cioè la memoria storica dell’agire di Dio nella storia umana, ci consolano e di con-fortano sostenendoci nel perseverare nell’opera di giustizia-pace che Dio ci ha affidato. La nostra fede, la nostra speranza nell’essere messa alla prova da una storia che sembra – dico sembra – smentirla, diventa sempre più forte nel radicarsi sul fondamento della fattiva promessa di Dio. Perché proprio qui nasce la speranza non illusoria: nel paradosso di una tensione storica tra una realtà di liberazione incompiuta e una promessa divina di compiutezza (ri-conosciuta) già in atto.

La speranza è come la corda di un arco. Tesa tra i due estremi, li tiene uniti lasciandosi “tendere” dalla loro contrapposizione. Sapendo che solo grazie a ciò essa acquista forza per penetrare nel vero significato del proprio vissuto. Un estremo che ti ricorda che la tua storia è piena di fallimenti, di sogni non realizzati, di una arsura di giustizia che continuamente ti divora nella ricerca del suo appagamento… e l’altro estremo dell’arco che ti dice invece che la promessa di Dio si trova proprio in quello che stai patendo. Questo vuol dire sperare contro ogni speranza. È la tensione dinamica che nasce dall’at-tesa del compimento.

L’immagine che il profeta Isaia ci propone nel sostenere la nostra speranza, tiene proprio conto di questi due poli della speranza: è dal tronco di Iesse che nasce il virgulto che realizzerà definitivamente le promesse di Dio. Ora l’immagine non è così idilliaca come sembra a prima vista, basta leggere cosa dice poco prima. Quel tronco a cui fa riferimento Isaia è la devastazione a cui è ridotto per la persecuzione e l’invasione il frondoso albero della tribù di Giuda, il popolo di Israele. È ciò che resta dopo il passaggio degli invasori che come cavallette desertificano i raccolti e le foreste… è ciò che resta di un popolo, dove ingiustizia e corruzione la fanno da padrone, dissolvendo la pace in un carrierismo ruffiano e strutturalmente corporativo e mafioso. Ebbene, ci ricorda Isaia, quando oramai tutto è perduto – non, “sembra perduto” ma è effettivamente “tutto perduto”, perché resta solo il tronco di un albero oramai secco e senza vita – ecco che la vita nuova rinasce – per dono di Dio – dalla morte del vecchio…

Ma attenzione, l’albero vecchio (il tronco di Iesse) è veramente morto! Ed è necessario che ogni albero che non produce frutto muoia perché solo così noi possiamo farne concreta esperienza smascherando come false le sue promesse di grandezza e benessere e convertirci dalla sua logica fallimentare (cfr Vangelo)! E vano sarebbe volerlo riportare in vita, anche perché riportare in vita il vecchio albero – il vecchio modo di vivere, fatto di ingiustizie generatrici di guerre – sarebbe ripetere il ciclo della devastazioni reciproche. La vita che rinasce dall’albero morto non è la riedizione della vita dell’albero (si riaprirebbe – dicevamo – il cammino che l’ha portato alla “devastazione”) ma è veramente nuova vita, un altro modo di vivere e quindi di essere: un modesto indifeso germoglio che ci rende capaci (“vi conceda” dice Paolo) “di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti… di Cristo Gesù”. È quindi veramente una nuova creazione, in cui il modus vivendi di Dio, diventa il modus vivendi dell’uomo. E quindi Dio e l’uomo diventano uno: Per questo è duratura anche nell’uomo.

Ecco perché quel modo di Gesù di vivere la morte, uccide l’odio che crea la morte e dona la vita a chi fa propria la logica del Regno che è la misericordia del Padre. Misericordia che si scaglia contro la radice del male, contro il buio nel cuore dell’uomo e mai contro gli uomini che sono sempre da lui considerati e trattati come figli. Per questo «brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» e brucia di impazienza (“già”) e « già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene [già adesso] tagliato e gettato nel fuoco», per far rinascere nuovi polloni sugli agli alberi secchi e sterili – ridotti a concime – della vita di ogni uomo.
Ecco perché la speranza esige questa conversione che prepara «la via del Signore» e raddrizza «i suoi sentieri» che apre al dono di una vita nuova in quanto diventa una domanda-preghiera di “ri-creazione”. Conversione necessaria ma non sufficiente a dare speranza, come riconosce anche il Battista: «Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ogni giorno della nostra vita è questo Avvento, questo “Adesso”, che ci è dato (il “tempo opportuno”), perché questo “fuoco” divampi nella nostra vita e diventi il nostro “futuro”. «Futuro di Dio dato all’uomo», che è un altro modo di dire «Speranza».

2 commenti:

maria sole ha detto...

E' bere e dissetarsi alla Parola.... ed il fuoco che divampa si e ti trasforma ogni volta nel bene e nel male. La speranza non è facile coltivarla. La conversione necessaria ma non sufficiente a darti la pace, la speranza, comunque il " qui ed ora " dura tutta la vita, una vita costellata di scintille ma vissuta nel buio.
Grazie

Mario ha detto...

Bello e vero!
Grazie.

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