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mercoledì 27 luglio 2011

XVIII Domenica del Tempo Ordinario: «Date loro voi stessi da mangiare»

«O voi tutti assetati»...

Inizia così, attraverso le parole del profeta Isaia, la liturgia della Parola di questa diciottesima domenica del Tempo Ordinario… richiamando alla coscienza una delle condizioni più umane dell’umanità… la sete… la fame... Chi infatti non sente di essere incluso in questa chiamata? Chi non ha provato la sete? Sete di acqua (paradigma di ogni altra sete), sete di senso, sete di vita, sete di cura, sete di custodia, sete di approvazione, sete di giustizia, sete di riconoscimento, sete di leggerezza, sete di affetto, sete di sorrisi, sete di star bene, sete di coccole, sete di serietà, sete di passione, sete di libertà, sete di Dio... Chi, addirittura, non ha rabbrividito di fronte alla percezione che forse proprio questa è la natura stessa dell’uomo: un essere, sempre, dovunque e comunque, assetato/affamato? E ancora, chi non ha avvertito come tutti i tentativi “in proprio” di dissetarsi e di sfamarsi siano destinati a sfumare tra le mani?

Nonostante infatti tutte le risorse che uno può mettere in campo, il mirino pare sempre come puntato male, destinato a fallire il centro della questione, il ciò che veramente sazia: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?».

La risposta della Scrittura in merito sembra essere univoca: il Dio dei vostri padri, il Dio rivelato in Gesù è Colui che sfama (non che affama!) e disseta il suo popolo. «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. […] Ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» – dice Isaia… e il vangelo conferma: «Tutti mangiarono a sazietà».

Eppure… il problema rimane… le parole di Isaia sembrano infatti far riferimento alla promessa del banchetto escatologico e il gesto di Gesù di moltiplicare i pani e i pesci pare un gesto contingente, simbolico… E infatti il mondo (e noi, che siamo il nostro mondo) continua ad avere fame e sete… Anzi a morire nella fame e nella sete…


Che dire dunque rispetto a questi testi che ci parlano, sì, di un’inequivoca paternità di Dio (Dio è il Padre che nutre i suoi figli, non il patrigno che li sfrutta o li punisce togliendo loro il cibo! E questo è fuori da ogni dubbio – evangelicamente parlando –, tanto che è impensabile attribuire alla Sua volontà o indifferenza la nostra sete inappagata), ma che ci pongono anche innanzi a un Dio che non risolve – con interventi miracolosi e definitivi – la drammatica storica della nostra condizione di assetati/affamati?

Da questo punto di vista credo sia istruttivo anzitutto il vangelo…

Esso è collocato nel capitolo 14,13 di Matteo (è la prima delle due moltiplicazioni dei pani che questo evangelista narra, l’altra è in Mt 15,32-39); cioè nel capitolo immediatamente successivo a quello che abbiamo letto nelle scorse settimane e che conteneva il cosiddetto “discorso parabolico”. Tra quello e l’episodio odierno c’è però un duplice racconto di rifiuto / persecuzione che non si può non riportare alla mente: Mt 13,53-14,12 narra infatti della scoraggiante visita di Gesù a Nazareth («Non è costui il figlio del falegname?», Mt 13,55) e soprattutto dell’uccisione di Giovanni Battista per mano di Erode, in occasione di quell’infausto banchetto di compleanno in cui Erodìade, attraverso la figlia, chiese la testa del profeta.

È con i sentimenti provocati da queste vicende che Gesù «si ritirò in un luogo deserto, in disparte»… anche lui con la gola riarsa e assetata per lo strazio della morte assurda del suo amico e cugino Giovanni… per la sfacciataggine del potere, che si sente libero di decretare la morte dell’uomo sull’uomo… per la tragicità di vedere il regno del male che sempre sembra avanzare e spravanzare…

Forse proprio per questo, cioè proprio perché il suo cuore in questo momento è così umano da essere abitato dalla fame e dalla sete di tutti quelli che soffrono (cioè di tutti, prima o poi), di fronte alle folle che vengono a rompere il suo isolamento non prova fastidio, anzi, sembra quasi che in esse si riconosca: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro»!

E la prima cosa che fa, è guarire «i loro malati»… cioè far retrocedere il regno del male e far avanzare il Regno di Dio! Quasi che – ancora abitato dall’angoscia per la morte di Giovanni – volesse affrettarsi a dire e a dirsi che è la vita che vince sempre…

Che è esattamente la convinzione di cui abbiamo più sete quando ci muore qualcuno che amiamo.

Ma la narrazione procede… Giunge la sera e la folla in cui Gesù si è riconosciuto e per la quale ha guarito molti è sprovvista di cibo. I suoi discepoli gli suggeriscono di congedarla cosicché essa possa provvedere “in proprio” alla sua fame… Ma Gesù – che sa, come tutti, che questo è impossibile – risponde: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare»!

E in questa frase avviene il cambiamento della storia…

Infatti qui diventa chiaro come «il peccato originario (strutturale) della “emersione” umana nella storia dell’universo assume un nuovo volto, il suo vero volto: l’uomo per vivere e affermarsi ha bisogno di mangiare! Se nella dinamica biologica dell’universo questo cannibalismo dei viventi non fa problema, quando emerge la coscienza/ volontà/ libertà… e quindi la percezione della irrepetibilità, irrevocabilità della persona, l’uomo va in crisi, perché dovrebbe smettere di mangiare. Sussultano le strutture antropologiche costitutive, e si rivelano come tragedie, come raccontano i miti ancestrali: il bimbo mangia la madre, il figlio uccide il padre, il fratello dissangua il fratello, l’uomo opprime la donna, la tribù più forte schiavizza la debole, la legge è la gabbia dell’uomo che deve liberarsi… Dio mangia le sue creature…: Ognuno, insomma, sta mangiando un frutto che non doveva mangiare: con reazioni inumane: schifo, vomito, anoressia, bulimia… indigestioni e carestie… granai stipati di alimentari che vanno a male e popoli affamati.

Dentro il pellegrinaggio biblico iniziato quando Dio ha ascoltato il grido di fame del suo popolo, tra tante peripezie ed equivoci, si ripete il ritornello profetico sul senso di ogni pane: dallo da mangiare alla gente! Perché, quando la realtà storica non è la competizione, ne mangeranno e ne avanzerà anche! Questo è il paradosso economico / eucaristico: distribuire è moltiplicare» [Giuliano].

Ecco perché il Dio che ci è Padre e ci nutre, non fa qualche intervento miracolistico-risolutivo per la nostra fame e per la fame del mondo… perché il vero “miracolo” che ha cambiato la storia, l’ha già fatto… quando suo Figlio ha compiuto la sua missione: «cioè convincere il mondo (far toccare con mano sulla sua pelle) l’inversione della dinamica carnale avvenuta nella “sua carne crocifissa” – prefigurata nell’ultima cena, nella quale si è dato da mangiare e bere ai discepoli. Il livello “spirituale” a cui ci comanda di passare (esodo) non è un livello non carnale: è la carne “offerta” da mangiare e distribuita – cioè misteriosamente divenuta in lui capace di oblatività (il contrario di sé). E così realizza in modo impensato l’antico anelito profetico: del “senso” del pane: datelo da mangiare alla gente! Questo adesso è il senso del corpo umano…» [Giuliano].

Da allora «la dialettica di fondo dell’umanità non è più economica (come produrre beni per sfamare tutti?) politica (a quale “re” fare gestire la convivenza di affamati?…) affettiva (quale prodotto sazia la fame di amore?…) filosofica (quale l’origine e il senso di questa fame insaziabile, nel cuore dell’universo?)… ma evangelica.

Ecco! – la salvezza è entrata in “questo” mondo: il rapporto dialettico tra vita e morte, costitutivo dell’universo, ai suoi vari livelli di esistenza – tragico nell’uomo cosciente – diventa la dialettica tra morte (peccato) ed eucaristia, intesi come salvezza propria o altrui, salvare la propria vita o perderla, mangiare l’altro o offrirsi da mangiare… per rinnovare e continuare in sua memoria la salvezza nostra e del mondo! Trasformare il sanguinario rapporto con il dio sacrificale… in un convito fraterno ove offrirsi a vicenda…» [Giuliano].

È a questo livello che il Signore ha cambiato la storia… Con buona pace di chi dice che era meglio un miracolone definitivo… che però – appunto – se era definitivo, doveva eliminare la storia… dunque la nostra libertà… dunque noi… Il Dio di Gesù, invece, essendo amore, è Colui che mai si impone, mai fa un passo, senza il consenso altrui, mai “per un bene superiore” (la famosa “ragion di stato” di Caifa) sacrifica qualcuno o qualcosa di qualcuno… Altrimenti non sarebbe più se stesso, cioè non sarebbe più amore, ma qualcos’altro… Perché Lui sì che ha preso sul serio la logica evangelica del mai mangiare l’altro e sempre offrirsi da mangiare ed è su questo che continuamente si propone a noi.

E allora concludo con questa preghiera:

Sarebbe forse più facile accettare, o Signore, un’opera definita, dai contorni precisi; sarebbe più facile marciare inquadrati e con precise consegne; sarebbe più facile, Dio mio, obbedire specialmente a coloro che hanno già pensato e pesato tutto in vece nostra. Ma non è questo che tu o Signore vuoi da noi. Oggi, tu o Signore, vuoi che ci immischiamo con tutte le folle. Vuoi che ci immergiamo nel mondo che va lontano dal retto cammino e dopo d’aver constatato noi stessi l’immensa angoscia dei tuoi figli sperduti, possiamo allargare i nostri cuori in proporzione alla loro miseria. O Dio fatto uomo, fa che i nostri cuori siano abbastanza umani affinché i nostri fratelli vi si trovino a loro agio quando vi sono accolti.



[mons. Benson]

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