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giovedì 7 luglio 2011

XV Domenica del Tempo Ordinario: La parabola dà da pensare

In questa quindicesima domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa, sopratutto nella prima lettura e nel vangelo, ci propone il tema della Parola di Dio, una delle vie di accesso imprescindibili alla relazione col Signore.
Lo fa, appunto, con il bellissimo testo di Isaia 55 e poi sopratutto nel brano evangelico, il quale è tratto dal capitolo 13 di Matteo, cioè esattamente dal punto di inizio del cosiddetto “Discorso in parabole”.

Questo tredicesimo capitolo segue il dodicesimo (che la liturgia domenicale non ci propone), che è un capitolo molto duro, tutto incentrato sulle contestazioni cui Gesù pian piano è sottoposto, e che si chiude con le forti parole di Gesù «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». È a questo punto che l’evangelista riferisce: «Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse»...

Inizia così il racconto della famosissima parabola del seme, riportata da tutti i sinottici (cfr. Mc 4,3ss e Lc 8,5ss).

Essa è sempre proposta accostata alla sua spiegazione e questi due momenti del discorso di Gesù sono inframmezzati da un piccolo, ma intensissimo, dialogo coi suoi discepoli.

Dato che – però – spesso nei percorsi automatici del nostro pensiero si sono fissati per lo più i dati della spiegazione della parabola (per esempio le associazioni tra i vari tipi di terreno e i possibili gruppi di ascoltatori della Parola), piuttosto che quelli della parabola stessa, mi pare utile procedere con ordine.


Iniziamo perciò dai versetti 3-9: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Innanzitutto il genere letterario: siamo di fronte ad una parabola, perciò a quel particolare tipo di testo che gli esperti chiamano “racconto fittizio”, cioè un racconto realistico, che parte da elementi molto noti per gli uditori (nel nostro caso l’attività agricola), e che però non narra un fatto realmente accaduto, ma una storia, appunto. Come ogni parabola, anche la nostra, contiene poi in sé un elemento particolare (o perché stravagante o perché inusuale, esagerato, extra-ordinario) che scatena nell’uditore – che fino a quel momento aveva semplicemente ascoltato una storiella “normale”, senza tensioni letterarie – uno shock, che lo costringe a pensare.

La parabola funziona infatti sempre in questo modo: pare un racconto semplice, per semplici, ma ad un certo punto subisce una “variazione sul tema”, tale da provocare intorno a sé agitazione e riflessione.

Nel nostro caso questi momenti sembrano essere due: uno che tutti noi lettori moderni percepiamo all’istante, ma che in realtà forse per gli ascoltatori di Gesù era meno shockante, e che consiste nello “spreco” di semente che il seminatore attua; e l’altro – che noi percepiamo meno, ma che in realtà forse era il vero elemento scaravoltante per gli uditori di allora – che consiste nella sovrabbondanza del frutto portato dal terreno buono.

L’elemento che noi percepiamo come particolarmente anomalo, quello della sovrabbondanza del seme, allora era forse meno sentito come elemento inconsueto del racconto di Gesù, perché pare fosse abitudine degli agricoltori palestinesi di allora utilizzare questa metodologia di semina. Noi occidentali contemporanei con la nostra mentalità economico-efficientista, troviamo invece questo aspetto per lo meno strano, ed è per questo che da subito la parabola ci “dà da pensare”.

Al di là delle abitudini agricole dei contadini del tempo di Gesù, è da ammettere comunque che una certa esagerazione/sbadataggine di questo seminatore, nella parabola, non è casuale. In qualche modo questa sua sovrabbondanza allude alla sovrabbondanza con cui il Signore dispensa la sua Parola e – con essa – il suo amore.

Ecco dunque un primo elemento: la storiella apparentemente banale del seminatore, con questo stratagemma comunicativo dello “shock che dà da pensare” ha già fatto fare all’uditore un salto… Qui non si parla semplicemente di un seminatore e del suo seme, ma si sta rivelando qualcosa di chi è Dio. È la cosiddetta “funzione rivelativa” della parabola che, se è vero che spesso contiene anche un suggerimento morale o un’indicazione per la sequela, in realtà ha soprattutto lo scopo di dire qualcosa su chi è Dio. E qui ci dice appunto che il Signore non è un Dio tirchio, che sceglie con cura il destinatario della sua Parola tra coloro dai quali ha una buona probabilità di ottenere ascolto, ma è un Dio che dona con abbondanza, anzi con sovrabbondanza, un Dio che non teme lo spreco e l’esagerazione quando si tratta di dare, anzi di darsi, e che ha questo atteggiamento verso tutti, indipendentemente dalle credenziali altrui.

C’è poi – dicevamo – il secondo elemento, quello forse maggiormente percepito dai contemporanei di Gesù e che invece a noi – lontani ormai dall’esperienza rurale – cogliamo con minor immediatezza: il terreno buono non solo porta frutto, ma lo fa in una maniera impensabile, addirittura irrealistica, che forse ha fatto sogghignare con sarcasmo qualche contadino che era lì ad ascoltare Gesù: «il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Anche questo elemento dà “dare da pensare” e – anche senza che egli se ne accorga – suscita nell’ascoltatore una serie di domande irriflesse: Che seme è questo che dà un frutto così abbondante? E di quale terreno sta parlando? Chi è questo seminatore? Com’è possibile un raccolto così sproporzionato? Ecc…

Per comprendere meglio il senso di questo IV quadro così positivo è forse utile notare come esso venga dopo 3 quadri assolutamente fallimentari: 1) «Una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono»; 2) «Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò»; 3) «Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono».

È dunque il contrasto “3 quadri bui / 1 quadro luminosissimo” che ci deve indirizzare nella giusta comprensione della parabola: essa – a fronte della predicazione apparentemente infruttuosa di Gesù e poi della prima Chiesa (chi scrive il vangelo è infatti convinto che Gesù sia il Messia e dunque fa fatica ad accettare che Egli sia stato rifiutato – soprattutto all’interno del suo popolo – e che la sua Parola non convinca immediatamente tutti) – è probabilmente scritta per coloro che erano tentati di sfiducia… A loro la parabola risponde dicendo che se anche la Parola incontra tanti ostacoli, tanti terreni non buoni, tante resistenze, comunque essa arriva anche al terreno buono e lì dà un frutto inimmaginabile per la sua sovrabbondanza: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»!

Ma – come dicevamo in precedenza – il testo evangelico di questa domenica non termina qui. Continua infatti con un piccolo dialogo che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli sul motivo per cui Egli parla in parabole.

Contrariamente a quanto – forse – siamo abituati a pensare, Gesù non risponde dicendo “Parlo in parabole, così – attraverso queste storielle – tutti, anche i più semplici, possono capirmi”, ma anzi, afferma proprio il contrario: “Perché a loro non è dato comprendere!”, e non sta parlando di avversari o cattivoni… ma delle folle… Le stesse a cui – abbiamo sentito settimana scorsa – aveva detto «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»…

Forse allora, non solo il contenuto delle parabole deve dare da pensare… ma anche il genere letterario parabola in se stesso dà da pensare… Esso infatti incarna una strategia (un vero e proprio marchingegno) che funziona così: «Gesù stesso dice che ci sono delle parabole che racconta precisamente perché non capiscano, che vuol dire, appunto, che in realtà sono parabole che mirano a tenere in sospeso la comprensione. E quando si mira a tenere in sospeso la comprensione? Per esempio quando si ha il fondato timore che una spiegazione più diretta produca già l’automatismo di una comprensione che coincide con il fraintendimento, col prevalere del luogo comune. Quando io cioè, discorrendo di un argomento delicato, temo che, se adopero parole troppo dirette, esempi troppo elementari, quell’altro dica: “Ah, ecco è l’idea della grazia che…” ed invece sto cercando di aprire un varco nel luogo comune, per farlo evolvere, istintivamente adotto un congegno, un apparato di comunicazione che riesca a frenare quell’approdo immediato (della serie: “So, perché ho anch’io uno zio monsignore”), che l’altro debba pensare un attimo, forse pensandoci su si apre un varco perché possa scoprire dell’altro, perché gli venga in mente che, forse, quello che ha in mente, era uno schema un po’ semplificato, e gli mancavano dei pezzi; che forse l’argomento che voglio proporgli contiene qualcosa di più di quello che lui sa già e, spesso quando so che il luogo comune è pronto a scattare in un attimo, questo freno, questa inibizione della comprensione è destinata a creare un varco per un ripensamento» [Sequeri].

Le parole di Gesù ai discepoli dunque non denotano una sorta di selezione tra quelli a cui Dio vuole farsi conoscere e quelli per i quali invece vuole restare velato (non ri-velato, appunto) – prova ne è che poi questa parabola e la sua spiegazione “privata”, riservata cioè solo ai discepoli, è entrata nel testo evangelico, dove tutti possono leggerla! – ma mostra come quando si ha a che fare con Gesù, sia necessario rompere con il luogo comune, soprattutto con quello religioso. E il genere letterario parabolico serve esattamente a questo!
Una parola, infine, sulla spiegazione della parabola, caratterizzata dall’associazione di ciascun terreno con un determinato atteggiamento umano: dato che abbiamo già scritto fin troppo, solo una provocazione finale… È vero che a ciascun tipo di terreno è associato un tipo di persona, ma forse quei tipi di persona non coincidono con persone singole, ma con diversi modi di essere che ciascuno di noi ha in sé… Siamo noi dunque (e non altri) la strada, il terreno sassoso, quello pieno di spine… ma anche, a volte, quello buono... La questione diventa allora, come pian piano “lavorare” il terreno che noi siamo, perché in esso possa trovare casa il seme della Parola e portare frutto, lasciandoci da lei sempre più conformare, al di là dei luoghi comuni su Dio?

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