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giovedì 25 agosto 2011

XXII Domenica del Tempo Ordinario: Tale Padre… Tale Figlio…

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa ventiduesima domenica del Tempo Ordinario è la diretta continuazione di quello di settimana scorsa. Come abbiamo visto, «è Gesù stesso che prende l’iniziativa di interrogare i discepoli intorno alla propria persona: che cosa pensa la gente del Figlio dell’uomo? E voi chi dite che io sia? La domanda cade sul punto centrale attorno al quale gravita tutta la catechesi dell’evangelista Matteo. Per rispondere all’interrogativo […] la gente ricorre a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta. Con questo la gente coglie in qualche modo la grandezza di Gesù, ma non ne coglie affatto l’originalità. Non si può esprimere il significato di Cristo ricorrendo a schemi interpretativi già conosciuti. Il discepolo va oltre la folla, ed esprime con assoluta chiarezza la messianicità e la filiazione divina di Cristo. […] Ma anche questa piena affermazione della messianicità di Gesù e della sua filiazione divina non è sufficiente. Il discepolo può correre il rischio di ricadere nella logica degli uomini; può ancora una volta leggere il mistero di Gesù alla luce di un sapere già dato, privandolo così della sua originalità. Se non vigila, il discepolo rischia di attribuire a Gesù la divinità che viene dalla “carne e dal sangue”: una divinità secondo gli uomini, conforme a quello schema di grandezza che gli uomini sognano. Invece la divinità di Gesù obbedisce ad altri schemi. Ma allora occorre una profonda conversione: non solo rinunciare a esprimere Gesù ricorrendo alle figure degli antichi profeti, ma anche rinunciare ad esprimerlo ricorrendo alla comune nozione di Dio. [Infatti] la tentazione che fu di Gesù [«Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane», Mt 4,3ss], e che ora è dei discepoli [«Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»], è la tentazione di sempre: rifiutare – in nome del Messia glorioso – il Servo di Dio» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 209-212].

La cosa interessante sarebbe provare a rintracciare in noi dove risiede tale “tentazione di sempre”. Cioè andare a ripercorrere il nostro modo di pensare a Lui, di pregare Lui, di vivere di Lui e vedere dove a istruirci sulla sua identità è il vangelo e dove invece è “uno schema interpretativo già conosciuto”, “una comune nozione di Dio”…


A me pare, infatti, che troppo spesso in noi rispunti quel “già conoscere”, “già sapere” tutto di Dio, di Gesù, della morale, che invece che favorire il nostro relazionarci a Lui, fa come da cortina, impedendoci di incontrarlo veramente per ciò che è stato (dunque, che è!)… impedendogli in qualche modo di essere sé… Esattamente come con le persone sulle quali abbiamo un pre-giudizio, che non incontriamo mai per quello che sono o provano ad essere, ma sempre nell’immagine distorta che le lenti della nostra pre-comprensione ci fan vedere…

Mi si dirà che è impossibile incontrare qualcuno in maniera totalmente neutrale, senza averne in qualche modo un pre-giudizio: già il come una persona ci viene incontro, il come è vestita, ecc… anche senza che noi lo vogliamo, fa scattare in noi un giudizio (non necessariamente negativo), cioè un tentativo di definire ciò che mi sta davanti, di organizzarlo all’interno delle “cose” già note… in qualche modo etichettandolo.

Questo è vero: noi – in prima battuta – possiamo conoscere solo definendo le cose, cioè nominandole (quindi dandogli un nome, un’etichetta, appunto), ma anche confinandole (cioè dandogli dei confini, un riquadro entro cui stare: “Tu sei quella cosa lì per me”)!

E anche con Dio “funziona” così: l’imbattersi in Lui, per noi, segue la stessa dinamica dell’imbattersi nelle cose, nel mondo, negli altri... Anche Lui emerge nella nostra coscienza per distinzione (“Dio non è questa cosa”), per nominazione (“Dio è quest’altra”), dandogli un confine / un’etichetta (“Dio è questa cosa e non è quest’altra”)…

Fin qui c’è davvero poco spazio per la libertà umana… questo processo del conoscere è innato… fa parte del come siamo fatti… è fuori dal nostro spazio di manovra. È uno dei confini del nostro essere finiti: l’uomo quando conosce razionalmente, lo fa così.

E però il processo conoscitivo non finisce qui! In seconda battuta, infatti, entra in gioco la nostra libertà: il nostro deciderci di fronte a quell’oggetto di conoscenza in cui ci siamo imbattuti e cui, nella nostra testa, abbiamo iniziato a dare una forma.

E il decidersi consiste essenzialmente nel decidere di entrare o meno in una relazione con quell’oggetto di conoscenza: è qualcosa / qualcuno per cui “vale la pena” sbilanciarsi oppure no?

È a questo punto che si formula in noi tutta quella serie di considerazioni (più o meno consce), del tipo: mi è utile / non mi è utile; è bello / non è bello; è giusto / non è giusto; ecc… entrare in relazione con questa cosa / con questa persona?

Spesso rispondiamo “No”, troppo spesso… purtroppo. Ci fermiamo infatti a quella che comunemente chiamiamo “la prima impressione”, che spesso è negativa (ci identifichiamo e identifichiamo ciò che non siamo noi, per distinzione, appunto) e scegliamo di non entrare in una relazione. (C’è anche da dire che il dire molti più no che sì è anche dovuto ad un limite spazio-temporale: nessuno potrebbe mai dire sì a tutte le relazioni che gli si propongono in vita).

Capita poi –a volte, invece – di dire di sì: è a quel punto che parte un nuovo percorso.

Io credo che con il Signore il nostro itinerario sia stato più o meno come quello appena descritto: ci si è imbattuti in Lui (per molti di noi quando ancora eravamo in fasce), ci si è formati una “prima impressione” – una prima etichetta, mutuata soprattutto dall’ambiente familiare e sociale in cui siamo cresciuti –, si è deciso che “valeva la pena” entrare in questa relazione… come dicevamo per i più svariati motivi: perché avevamo paura che facendo altrimenti saremmo andati all’inferno; perché così facevan tutti; perché il gruppo di amici / amiche del quartiere frequentavano l’oratorio; perché abbiamo intuito che lì dentro c’era una verità di senso sulla vita; ecc…

Come dicevamo, la scelta di entrare in quella relazione è stata frutto di tutta una serie di considerazioni – a noi più o meno note (cioè più o meno consapevolizzate) – che arrivavano da tante parti diverse, dentro e fuori di noi: alcune considerazioni oggi ci appaiono più nobili, altre più grette, ma in noi ce n’erano di tutti i tipi… Non esistono infatti decisioni pure… Tutto il nostro agire è spurio… frutto di nobiltà e grettezza, grandezza d’animo e bassezze, coraggio e paure, amore e odio, libertà e gelosia, ecc… ecc… ecc…

Anche il nostro decidere di seguire il Signore! Che per altro lo sapeva… Scrive infatti san Paolo in proposito: «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8)… Cosa di cui ci dimentichiamo quando si tratta degli altri… Infatti continuiamo a propugnare la teoria che il Signore ama i peccatori che si convertono! Mentre stando al vangelo, la buona notizia era che il Signore ama i peccatori (punto!). Non che li ama solo se si convertono… Anche perché se no che buona notizia è per i peccatori? Se si convertono, infatti, già di loro non sono più peccatori… Va beh… ma questa è un’altra storia…

Tornando a noi… Io credo che il vangelo di oggi si rivolga proprio a persone come noi che hanno già fatto il percorso descritto: imbattersi nel Signore, dargli un’etichetta, decidere di “collocarlo” fra le relazioni “da tenere”…

La questione ora diventa… come “tenere” questa relazione…

Ci sono infatti relazioni nella nostra vita che noi continuiamo a “tenere”, ma che non si evolvono dallo stadio dell’“etichetta”: l’altro è sempre letto a partire da come io l’ho inteso, l’ho inquadrato, l’ho confinato…

Ecco io penso che il vangelo di questa domenica con la citazione di don Bruno Maggioni che ho messo all’inizio, vadano a toccare esattamente questo punto: Non ci staremo forme mica relazionando anche col Signore in questo modo? Non è che forse continuiamo a darGli quel nome (quell’etichetta) che nasce dalla “comune nozione di Dio”? Cioè: non è che abbiamo compresso la storia di Gesù (sentita chissà quante volte) all’interno di uno schema comprensivo che gli era estraneo? Come se l’avessimo confinato (dato una definizione) in cui Lui non sta? In cui Lui non si riconoscerebbe?

Mi pare infatti che troppo spesso in noi rispunti quell’immagine di Dio – nota a tutti e già conosciuta da tutti, atei compresi – scritta a prescindere da Gesù. La sua storia, poi, appunto, è un’altra storia…

Esattamente quello che facciamo anche nelle relazioni tra di noi, quando presumiamo di sapere già tutto dell’altro, senza mai stare ad ascoltare la sua storia, guardare il suo volto, conoscere le sue ferite, ecc…

Ciò di cui allora forse urge che prendiamo coscienza – a partire dal vangelo che la liturgia ci propone – è il fatto che noi dovremmo dire chi è Gesù a partire dalla sua storia… e dire chi è Dio a partire dalla storia di Gesù. Questo è ciò che anche nell’ultimo Concilio ha ribadito la Chiesa! È la storia di Gesù a istruirci rispetto a quale sia il volto di Dio!

Se alcuni tratti del volto di Dio che abbiamo in testa noi e che magari abbiamo mutuato dalla “comune nozione di Dio” non collimano con quelli che emergono dalla storia di Gesù, ebbene, vanno abbandonati… Non solo: vanno abbattuti! Sono infatti idoli, cioè false immagini… Spesso ben mascherate!

Per esempio, l’immagine di “Dio super-io”…

Quest’operazione di “abbattimento degli idoli” è ancor più necessaria per il fatto che “distorcere il volto di Dio” è un’operazione che ha delle conseguenze assai rilevanti sulla nostra vita… Se infatti ci pensiamo come discepoli, non possiamo non vedere quanto sia pericoloso per noi (e per chi ci sta intorno) seguire la falsa immagine del volto di Dio!

Saremmo discepoli di un dio falso, di un dio che non esiste!

Ecco perché Gesù, nel vangelo di Matteo, ogni volta che fa un annuncio della sua passione (ne farà tre, il nostro è il primo della serie) unisce sempre anche un’indicazione su chi è il discepolo. È come se dicesse: “Io sono questa cosa qui, sono Dio in questo senso qui («Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno»), quindi voi siete questa cosa qui, siete miei discepoli, se fate così («Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua…»)”.
La domanda allora che dobbiamo continuamente riproporci è questa: Il Signore della mia vita è quello coi tratti di uno che muore in croce per amore, pur di non rinnegare l’amore? E io sono suo discepolo?

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