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giovedì 8 settembre 2011

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il perdono

Come preannunciato domenica scorsa, in questa ventiquattresima settimana del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone la seconda parte della seconda parte (scusate il gioco di parole) del Discorso ecclesiale di Matteo, quello coincidente cioè col capitolo 18 del suo vangelo.

L’argomento centrale, come si evince immediatamente dalla domanda di Pietro del versetto 21 («Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?»), è quello del perdono… affrontato quasi per intero attraverso la parabola del cosiddetto “servo spietato”…

Dico «cosiddetto servo spietato», perché in realtà a me è sempre stato super simpatico… forse perché mi assomiglia un po’ (come potrebbero testimoniare quelli che vivono con me, descrivendo quasi plasticamente le durezze del mio cuore)… perciò definire lui spietato per me è come tirarmi la zappa sui piedi… ecco perché preferisco definirlo il “cosiddetto servo spietato”…

Perché mi sta simpatico? Beh innanzitutto per il motivo per cui dovrebbe star simpatico a tutti… cioè il fatto che – come direbbero a Bergamo – l’è ‘n pör marter (= è un povero martire). Anzi, la parabola stessa, nella sua prima parte, è costruita perché il lettore si schieri dalla parte di questo servo: «Fu presentato al re un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”». Insomma, una situazione così disastrosa, che chiunque si muove a pietà… Certo ha dei debiti, ma, se è addirittura nella situazione che gli portan via moglie e figli, non può non suscitare compassione! E difatti anche il suo creditore, cede: «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito».

A me – però – continua a star simpatico anche dopo… quando invece tutti lo dileggiano e anzi va a finir male, quando cioè incontra un altro servo, che gli doveva dei soldi, e non vuole aver compassione di lui… e addirittura lo fa mettere in galera…

A me continua a star simpatico perché ho sempre pensato: “Ma hai presente che spavento questo s’è appena preso!?!? Per forza poi cerca di racimolare tutti gli spiccioli che ha in giro come creditore e di non risultare più insolvente! Perché – ok che stavolta gli è andata bene con questo padrone – ma queste son fortune che non si ripetono…”.

Ed ecco la questione: troppo facilmente, invece, a questo punto della parabola la nostra simpatia per questo servo slitta sull’altro e si trasforma in antipatia… troppo facilmente diamo ragione al padrone – che cambia idea! – e difendiamo le sue scelte (probabilmente perché troppo facilmente lo identifichiamo con Dio e dunque ci sentiamo di ergerci a suoi baluardi…).

Perché mi veniva da chiedermi: se Gesù ha appena risposto a Pietro che non bisogna perdonare 7 volte, ma 70 volte 7 (cioè sempre, non 490, che seppur è un numero alto, si esaurirebbe in meno di un anno… dovendoci perdonare l’un l’altro di esistere almeno una volta al giorno, tanto siamo gli uni un problema per gli altri…), com’è possibile che adesso presenti il volto di un Dio che ti perdona una volta e poi – perché tu non fai come Lui – ci ripensa e ti punisce così terribilmente («Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto»)!?!

Forse c’è qualcosa di questa parabola che ci sta sfuggendo…


Riprendiamola perciò con ordine.

La prima scena – dicevamo – presenta il nostro pör marter che ci suscita simpatia: si tratta di un servo, con un debito grossissimo. Credo che provare a quantificarlo, possa aiutarci in maniera significativa per capire quanto invece finora c’è sfuggito… Il suo debito ammonta infatti a diecimila talenti… è «una somma straordinaria, impensabile; diecimila talenti: noi sappiamo che il reddito annuale del re Erode era di novecento talenti; un denaro d’argento era il compenso di una giornata di lavoro; dunque: un talento = diecimila giornate di lavoro; diecimila talenti = cento milioni di monete d’argento: somme fantastiche e leggendarie, soprattutto se si calcola che a quel tempo circolava molto meno denaro; è una cifra inimmaginabile in quel tempo» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 142]. Facendo un paragone coi nostri giorni sarebbe come 5 miliardi di euro…

Quell’altro servo invece gli deve l’equivalente di 5000 euro… Queste sono le proporzioni…

Ora, l’intrigo della parabola non è quello per cui noi siamo giudici esterni alla scena… né è quello per cui la nostra identificazione dev’essere fatta col secondo servo o col padrone… La simpatia iniziale per il primo servo è il segnale che quello lì siamo noi! La finzione della parabola ci porta lì: ecco perché la simpatia (cioè patire con lui / avere il suo punto di vista) non deve cambiare a metà della storia… Il punto è che noi siamo quel primo servo!

Ora conosciamo anche le proporzioni dei debiti… Noi siamo quelli che devono 5 miliardi di euro! Allora non dobbiamo fare l’errore di slittare subito sull’insegnamento morale (Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo comportarci? Perdonare), ma fermarci un attimo sul punto zero: questa parabola rivela la nostra identità. Io sono quello che ha un debito grandissimo…

Se ci pensiamo… è vero… Se ci pensiamo soprattutto in relazione alla posizione che Dio in Gesù ha assunto nei nostri confronti: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

La posizione di Dio in Gesù nei nostri confronti è esattamente questa: Egli è Colui che ha dato la sua vita per noi, prima, anzi al di là di ogni nostro merito, anzi nonostante non lo meritassimo per niente, né mai saremmo in grado di meritarlo… Non a caso ciò che anche liturgicamente è diventato normativo («Fate questo in memoria di me») è esattamente la ripresentazione della donazione per noi della sua vita («Questo è il mio corpo / sangue offerti in sacrificio[1] per voi»).

Allora, forse, il nucleo centrale della parabola più che morale è teologico e – dunque – antropologico; cioè, più che tentare di rispondere alla domanda sul “dà farsi”, risponde a quella su “chi è Dio” e – dunque – “chi è l’uomo”…

Ecco perché l’identificazione tra Dio e il padrone va bene fino ad un certo punto… perché quando del padrone sentiamo dire «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto», dovrebbero scattarci gli “anticorpi” e riconoscere quest’affermazione estranea al volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Quasi come un tranello dell’evangelista… La verifica finale per vedere se hai capito la parabola o no… Se non l’hai capita, vai avanti fino alla fine con l’identificazione padrone-Dio, se l’hai capita ti stoppi…

Ti stoppi e ti fermi sull’identità dell’uomo che esce da quel volto di Dio, che è quello che – a prescindere – ha deciso di dare la vita per te, di condonarti un debito spropositato, impensabile, inaccumulabile in una vita, fossi anche il più perfido dei perfidi…

Ecco, è a partire dal riconoscersi uomini così che si può procedere… Infatti «il perdono fraterno è [non causa del perdono divino, ma] piuttosto conseguenza del perdono di Dio, ne è risposta. […] Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far vedere la diversità del comportamento divino nei confronti di un uomo che sa perdonare e nei confronti di un uomo incapace di perdonare» [B.Maggioni, Il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 237], ma è quello di mostrare la giusta collocazione di ciascun uomo di fronte a Dio: ognuno di noi è l’immeritatamente perdonato.

Questa “ricollocazione” – ed ecco la seconda parte della parabola – dovrebbe aprire anche a nuove relazioni fra gli uomini, fra “immeritatamente perdonati”…

Ma – appunto – o si è guadagnato il “punto zero” della ricollocazione di ciascuno di fronte al Signore, o ogni discorso sui rapporti coi fratelli risulterà infondato, opprimente, moralistico, incatenante, ingiusto.

Si parla infatti un po’ troppo superficialmente e con inescusabile nonchalance di “perdono” (come nei casi estremi di quando gli intervistatori dei TG vanno a chiedere alla mamma o al papà di qualche ragazzo/a appena morta se perdonano gli assassini… o come nei casi – meno estremi, ma non meno drammatici – in cui senza fare i conti con la storicità della nostra carne, dei nostri sentimenti, dei nostri passettini interiori, ci imponiamo di perdonare / amare qualcuno)…

Il perdono è invece una cosa seria, che ha a che vedere con il dolore, con la sofferenza, con le ferite nella carne dello spirito… Implica una rielaborazione viscerale, cioè letteralmente un riordinamento / ricollocazione delle viscere…

Di tutto questo la parabola non parla: in proposito è molto più esplicito il dramma di Gesù durante la sua passione, quando il suo dubbio è esattamente questo: “Ma io devo morire / dare la vita per questi qui che non hanno capito un tubo? Che mi amano così poco da avermi lasciato qui solo?” (che è la domanda della vita di ciascuno: “Ma io devo dare la vita per questi qui?!?!??”). La risposta definitiva di Dio in Gesù è stata “Sì”. E a sottolineare quanto forte sia il legame tra questa risposta (l’amore come risposta al non amore) e il perdono come determinazione definitiva di Dio, c’è la celebre frase che Luca mette in bocca a Gesù morente: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

«La parabola spiega invece il perché anche al cristiano sia ormai possibile perdonare» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, 142].



[1] Cfr. il senso che dà a questa parola F. Hadjdj in Farcela con la morte, Cittadella Editrice, Assisi 2009.

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