Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 11 ottobre 2011

XXIX Domenica del Tempo Ordinario: “Date a Cesare…”

Il brano del vangelo di Matteo proposto dalla Chiesa in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, è molto famoso… spessissimo, infatti, soprattutto negli ultimi anni, è stato da più parti ripreso, in particolare nella citazione celebre che esso contiene: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». La si è usata per esempio come richiamo alla chiesa, quando la si percepiva troppo ingerente negli affari dello Stato (per esempio sugli innumerevoli dibattimenti etici e bioetici dell’ultimo decennio: legislazione sul fine vita, sulla regolazione delle coppie di fatto anche omosessuali, sulla fecondazione artificiale, ecc…); la si è usata come richiamo al fatto che anche la chiesa dovrebbe dare la sua parte a Cesare (per esempio con la discussione rispetto al pagamento dell’ICI); ma la si è usata anche come monito della chiesa ai cristiani-cittadini perché pagassero le tasse; o come rivendicazione della chiesa stessa per la sua autonomia dalle ingerenze politiche; addirittura la si usa come “proverbio” da citare indipendentemente dal fatto che la chiesa sia o meno implicata nella discussione.

Dico tutto questo in apertura, perché – leggendo il testo evangelico – il rischio è di essere trascinati immediatamente ed inesorabilmente in queste questioni… Io invece vorrei stare un passo indietro…


Non perché non ritenga questi temi importanti o perché voglia rifuggire una necessaria presa di posizione, ma perché:

1-      sono questioni articolate troppo spesso sulla chiacchiera (spesso incompetente, ripetitiva e distraente) piuttosto che sulla serietà riflessiva; e dunque non voglio aggiungere chiacchiere a chiacchiere, data la mancanza di professionalità adatta ad una analisi riflessivamente alta su questi temi;

2-      non è il compito immediato di una riflessione sul vangelo, che – certo – sfocia anche in una presa di posizione sul reale, ma di cui si deve far carico il singolo lettore; la lectio, piuttosto, prepara come il terreno perché il brano sia capito per quello che vuol dire e non per quello che vogliamo fargli dire; solo a quel punto ciascuno è chiamato a “farlo suo”, innanzitutto – mai scordarlo! – sul piano personale e poi – anche – sul piano socio-politico;

3-      infine, tutte queste questioni del nostro tempo non possono essere così automaticamente sovrapposte ad un testo scritto quasi due millenni fa!

Dunque un passo indietro rispetto a tutto quanto ricordato in apertura… per restare ancorati all’alveo che ha partorito quel testo e non scivolare immediatamente nei problemi di oggi che tirano di qua e di là queste parole.

Veniamo dunque al testo: esso fa parte del grande scontro, avvenuto a Gerusalemme, che abbiamo avuto sotto gli occhi nelle scorse domeniche tra Gesù a i capi religiosi ebraici. Esso infatti segue i brani della cacciata dei venditori dal tempio (Mt 21,12-17) e della conseguente animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani (Mt 21,23-22-14), con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale.

Ora, dopo i sommi sacerdoti e gli anziani, sono i farisei e gli erodiani che si avvicinano a Gesù per coglierlo in fallo. Essi, come gli altri, sono infatti infastiditi dalle pretese (sulla sua persona e sulla sua missione) con cui quest’uomo è giunto a Gerusalemme.

Il quesito che gli pongono (anzi che mandano a porgli tramite i loro discepoli), riguarda la sfera delle relazioni tra mondo religioso e mondo politico: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».

Per comprendere fino in fondo questo interrogativo e soprattutto la malizia che vi sta sotto è utile una piccola digressione sulla situazione storica di Israele: nella primavera del 63 a.C. le truppe romane guidate dal generale Pompeo avevano conquistato Gerusalemme, rendendo la Palestina una provincia dell’Impero.

Quando nacque Gesù, imperatore era Ottaviano Augusto; ma la maggior parte della sua vita Egli la passò sotto la dominazione di Tiberio. «Gesù non ebbe occasione di conoscerli da vicino. […] Tuttavia sapeva assai bene che essi dominavano il mondo ed erano padroni della Galilea; poté comprovarlo ancor meglio quando aveva circa ventiquattro anni. [Erode] Antìpa [figlio di Erode il Grande], tetrarca della Galilea, vassallo di Roma, edificò una nuova città sulle sponde del lago di Genèsaret e ne fece la nuova capitale della Galilea. Il nome diceva tutto; Antìpa la chiamò “Tiberiade” in onore di Tiberio. I Galilei dovevano sapere chi fosse il loro supremo signore. Per oltre sessant’anni nessuno poté opporsi all’Impero di Roma. Ottaviano e Tiberio dominarono la scena politica senza grandi incidenti. Una trentina di legioni, di oltre cinquemila uomini ciascuna, oltre ad altre truppe ausiliarie, assicuravano il controllo assoluto di un territorio immenso che si estendeva dalla Spagna e dalle Gallie fino alla Mesopotamia; dalle frontiere del Reno, dal Danubio e dal mar Morto sino all’Egitto e all’Africa del nord. […] Per facilitare l’amministrazione e il controllo di un territorio così immenso, Roma aveva diviso l’Impero in province, rette da un governatore incaricato di mantenere l’ordine, vigilare sulla riscossione delle imposte e amministrare la giustizia. Per questo Pompeo, quando intervenne in Palestina approfittando delle lotte interne sorte fra i governanti giudei, come prima cosa riorganizzò la regione e la mise sotto il controllo dell’Impero. […] I popoli soggiogati non dovevano dimenticare di trovarsi sotto l’Impero di Roma. La statua dell’imperatore, eretta accanto a quella degli dei tradizionali, lo ricordava a tutti. La sua presenza in templi e luoghi pubblici delle città invitava i popoli a renderle culto come al loro autentico “signore”. Ma il mezzo più efficace per mantenerli sottomessi era indubbiamente l’uso del castigo e del terrore. Roma non si permetteva il minimo segno di debolezza davanti alle sommosse o alla ribellione. Le legioni potevano tardare più o meno a lungo, ma arrivavano sempre. La pratica della crocifissione, le decapitazioni di massa, la cattura di schiavi, gli incendi dei villaggi e i massacri nelle città non avevano altro intento che di terrorizzare la gente. Era il modo migliore per ottenere la fides e la lealtà dei popoli» [J.A.Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 24-26].

Questa è la situazione che in Israele aveva creato grande malcontento verso i dominatori romani e aveva alimentato l’attesa di un Messia che avrebbe liberato dalla dominazione straniera. Ecco perché la domanda che i farisei e gli erodiani rivolgono a Gesù è doppiamente tagliente:

-          da un lato perché lo mettono di fronte ad una situazione senza via d’uscita: se risponde che le tasse all’oppressore non vanno pagate, si espone come “nemico di Cesare”; se risponde che esse vanno pagate, si espone come “amico di Cesare”. Nell’un caso sfidando l’autorità romana, nell’altro scontentando le folle;

-          dall’altro lato perché gli chiedono conto della sua “pretesa” messianicità: non può essere il liberatore politico atteso, se non libera dall’oppressione romana.

Come annota l’evangelista – dunque – è chiaro che la domanda di farisei ed erodiani ha il solo scopo di cogliere in fallo Gesù. Il problema del rapporto coi Romani è solo occasionale: è l’argomento del momento, adoperato per screditarlo. Loro non sono interessati al contenuto della sua risposta, non sono interessati alla sua posizione e alle sue eventuali argomentazioni, non vogliono sapere davvero cosa ne pensa di questa questione… A loro interessa solo che – rispondendo – si tradisca: è un tranello. L’oggetto del tranello è irrilevante, sostituibile, indifferente (non a caso, infatti, immediatamente dopo arriveranno i sadducei con una “domanda tranello” sulla risurrezione, Mt 22,23-33). Ritengono infatti che il problema della dominazione romana sia irrisolvibile (non a caso ciascun gruppo della società ebraica si regolava un po’ da sé: tutti erano scontenti della dominazione, ma qualcuno – come gli zeloti – pensava ad una suicida rivolta armata; qualcuno – come i farisei – pagava le tasse per evitare problemi anche se disprezzava gli oppressori; qualcuno – come i sadducei –, data la situazione, cercava di trarre il proprio interesse dalla collaborazione coi Romani).

Gli parlano, quindi, del problema politico del momento nella forma della “chiacchiera”: senza proporre né aspettarsi un impegno riflessivo alto.

Ma è qui che Gesù fa uno dei suoi tipici “slittamenti di piano”: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che è di Dio»! Egli cioè prende la loro chiacchiera sul serio, molto più sul serio di loro: infatti, davvero il problema della dominazione straniera o del governo che scontenta è un problema grave, che tocca la vita della gente ogni attimo della vita. Non se ne può fare chiacchiera, non se ne può usare con malizia! In gioco vi è il senso della vita, che pare minacciato dalla presenza di questi oppressori pagani.

E infatti Gesù, nella sua risposta, si smarca dal tranello, si smarca dalla malizia, si smarca dalla chiacchiera e fa “slittare” il discorso sul nucleo del problema: il senso della vita – che sembra minacciato dall’esterno (in questo caso dalla dominazione straniera) – in realtà non dipende che da una cosa: «dare a Dio quello che è di Dio».

La struttura dell’uomo è, infatti, fondata sul suo rapporto con Dio (sempre possibile in qualsiasi condizione), non certo sul potente di turno che lo governa. Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, dunque la sensatezza del vivere: neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio («viene un' ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità», Gv 4,23), neanche la perdita della libertà (Etty Hillesum scrive da dentro un campo di concentramento: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio»), neanche la perdita della vita («Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». Detto questo, spirò», Lc 23,46).

Ma: il porre il sempre possibile rapporto con Dio – in qualsiasi condizione – come punto zero della vita umana, non vuol dire che tutto il resto è inutile: le parole di Gesù non sono un invito al disimpegno socio-politico, anzi! Il fondante rapporto con Dio è piuttosto ciò che fa verità sulla condizione in cui si vive e perciò orienta il conseguente e necessario impegno socio-politico.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter