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martedì 28 febbraio 2012

II Domenica di Quaresima

Dedicata al mio papà,
che mi ha fatto amare le montagne.


Campanile basso, Via delle Bocchette, Dolomiti di Brenta.


Due figli – due padri – due monti… Chissà cos’è successo davvero lassù?
A noi è giunta l’eco di un testo scritto, memoria del racconto di chi c’era, narrato chissà quante volte prima di trovare la formulazione che conosciamo…
Ecco il mistero della Parola di Dio… l’attestazione scritta di una storia, di cui si perdono i confini precisi, quelli così cari alla nostra contemporanea mentalità occidentale e che invece lì si sfumano e si perdono, per concentrarsi altrove.
Quanti silenzi che vorremmo riempire (Cos’ha pensato Abramo? Cos’ha pensato Isacco? Cosa vuol dire “trasfigurarsi”?) e che invece restano tali e chiedono di non essere riempiti.
Ma allora “Cos’è successo davvero su questi monti?” non è forse la domanda più corretta da porsi… Perché la storia è lì, è narrata, è quella, non c’è da aggiungere o togliere niente. Non c’è molto da capire – nella sua linearità: Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio della (sua) promessa, Isacco; Abramo obbedisce, si appresta al sacrificio, ma viene fermato da Dio; Gesù sale su un monte alto con Pietro, Giacomo e Giovanni; viene trasfigurato; ad un certo punto appaiono Elia e Mosè che conversano con lui, i discepoli si spaventano; Pietro dice la faccenda delle tende perché non sa cosa dire, poi viene una nube e una voce dalla nube «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»; poi, improvvisamente, non si vede più nessuno, se non Gesù solo coi tre discepoli.
Le storie sono queste – e al di là di qualche particolare che magari ogni tanto ci sfugge – le conosciamo da sempre. Chi le ha scritte ha pensato che questo fosse il modo migliore per tramandarle alle generazioni future, perché comprendessero. E non è stata un’operazione arraffazzonata, sbrigativamente condotta da chi andava di fretta: c’hanno messo 1000 anni a scrivere la Bibbia!
Eppure, la linearità di queste storie non ci lascia in pace. Ad ogni passo, sorgono in noi interrogativi, riluttanze, perplessità.
Cosa vogliono dirci, cosa possono dirci queste storie, su Dio, sull’uomo, sulla nostra vita?
Innanzitutto una cosa – banale forse, ma indicativa: che le cose importanti avvengono sempre sui monti!
Tutte le cose più importanti della Storia della Salvezza infatti succedono in montagna (Ararat, Sinai, Tabor, Calvario… per citare solo i più importanti)…
E anche nelle nostre due storie di questa II Domenica di Quaresima è così…
E forse anche nelle storie della nostra vita: i nostri “monti”, quelle vette (della terra o del cuore) dove ci siamo trovati qualche volta, soli con qualcuno a scavarci reciprocamente l’anima, a segnare svolte senza ritorno, a determinare il nostro essere…
A volte anche con Qualcuno o alla Sua presenza.
E però – contemporaneamente – questi sono tutti monti dai quali bisogna sempre scendere.
Mai il monte è la meta ultima.
Ciò che succede sul monte, qualunque cosa sia (vedere il volto trasfigurato del tuo Amico o la mano di tuo padre che si alza contro di te), diventa vero a valle; altrimenti è un’illusione, una magia, un gesto di autoerotismo spirituale.
Ma è vero anche il contrario… è ciò che succede a valle che ti porta sul monte; è ciò che succede a valle che prepara ciò che sarà sul monte.
Abramo e Isacco sul monte fanno esperienza di una nuova relazione tra loro e con Dio; addirittura l’esperienza di un nuovo volto di Dio. Escono cambiati, come figli, come padri, come uomini, da questa esperienza… Scendono cambiati da questo monte!
E però – contemporaneamente – è per tutto quello che era successo a valle (per tutto quello che era successo prima e per come si erano determinati prima, cioè per come avevano deciso di sé prima) che arrivano fin su quel monte che cambia la loro vita; che fa sì che la loro vita non sia più quella di prima, che loro non siano più quelli di prima! Senza ritorno, ma non senza futuro.
Nella vita infatti ogni nuovo monte ci modifica senza ritorno, ma non chiude mai i giochi sulla costruzione della nostra identità.
Così è per Gesù, che sale sul monte non innanzitutto e primariamente per mostrarsi ai suoi… Cioè non per far vivere ad altri un’esperienza. Ma innanzitutto e primariamente per viverla lui. È lui per primo che vive la trasfigurazione, che fa/patisce quell’esperienza, conversando con i profeti e la Legge (caratteristica inversione marciana: Matteo e Luca dicono: “Mosè e Elia”; Marco: “Elia e Mosè”) e ascoltando la voce di suo Padre che di lui dice «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
È lui per primo che scende “cambiato” dal monte, segnato senza ritorno dallo stare a scavarsi l’anima con Dio, la sua Parola, i suoi fratelli.
Ma anche per lui vale il contrario: arriva lassù e vive quell’esperienza lì, solo perché essa si è intessuta nella quotidianità della valle. Ed è vera, solo perché poi scenderà dal quel monte e tornerà a valle “tra le gente che cerca e dispera”…

Il monte è così…
è come un parto…
che ha tutta una storia che lo precede…
una storia recente, fatta di scelte, attese, travagli del corpo e dello spirito…
e una storia remota, che affonda le radici in quella bimba, ragazza, donna, che lei è stata prima di essere mia madre… e in quel bimbo, ragazzo, uomo, che lui è stato prima di essere mio padre…
            e che ha un futuro…
un futuro recente, fatto di novità, gioia, preoccupazioni per il piccolo nuovo che abbiamo in mano…
                        e un futuro remoto, che chissà cosa sarà di lui, da ragazzo, da uomo, da padre...

E così nella circolarità tra monti e valli, tra parti e travagli pre e post partum, si scrive la nostra vita, come si è scritta quella di Abramo, come si è scritta quella di Gesù.
La domanda vera, allora, di fronte a queste loro storie è “Chi sono stati?” e “Chi vogliamo essere noi?”.



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