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domenica 25 novembre 2012

Oltre la separazione dei “Mondi”

 
 Siamo al momento finale dell’anno liturgico e come tale la liturgia di oggi ha uno scopo in qualche modo sintetico, ricapitolativo, del cammino fatto fin qui durante tutto l’anno.
Siamo sul Vangelo di Giovanni, ma non possiamo ignorare il guadagno che c’è stato durante tutto questo anno della comprensione del mistero cristiano, attraverso la meditazione del Vangelo di Marco. Leggiamo quindi Giovanni certamente secondo la logica e la prospettiva di Giovanni ma senza ignorare quello che abbiamo nel frattempo acquisito col vangelo di Marco. D’altronde i quattro vangeli hanno proprio lo scopo di integrarsi a vicenda e se trovassimo contraddizioni teologiche tra di loro, l’errore è certamente nella nostra comprensione e non nei vangeli.

E cominciamo subito con un problema che l’ascolto del vangelo di Giovanni mi ha posto e che subito mi ha insospettito.
Gesù a un certo punto dice a Pilato “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Ora, in realtà la traduzione è sbagliata e la frase così tradotta è fortemente esposta a contraddizioni che non hanno soluzione. Infatti apparirebbe legittima la domanda che fu di Giovanni il Battista prima e di Filippo poi, ricordate? “Signore, sei tu il Messia o dobbiamo aspettarne un altro? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora, dobbiamo aspettarne un altro! E ancora, se il tuo regno non è di questo mondo, che ti sei incarnato a fare? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora hanno ragione gli eretici che sostengono che non ti sei veramente incarnato, ma la tua è stata una “apparizione” del divino: tu non hai veramente calpestato questo suolo, ma sei solo apparso quasi come un fantasma… E per finire – senza concludere – se il tuo regno non è di questo mondo, come fai a dire che il tuo Regno è vicino? Si capisce bene che con una traduzione siffatta crolla tutto l’impianto evangelico: di tutti i vangeli e dello stesso annuncio dei suoi discepoli e quindi della Chiesa.
Ciò che fa problema è quel “di” in riferimento al mondo. E ci insegna subito quanto attento deve essere il nostro sguardo sulla bibbia dove anche le virgole possono cambiare tutto il senso di una frase e decidere del nostro atteggiamento in un senso o nell’altro.
L’espressione che la CEI traduce in “di” è la particella greca “ek” che non può essere tradotta in “di” (per il quale si usa invece perì) ma va tradotta semmai in “da”. Sembra una sciocchezza ma tutta la prospettiva cambia e finalmente ogni parte dei 4 vangeli si armonizzano nell’insieme. L’espressione corretta è dunque: “Il mio regno non è da questo mondo; se il mio regno fosse da questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è da qui [anche qui abbiamo enteuthen: tutte le volte che nei vangeli è usato, può essere sostituito meglio con “da qui”, in italiano nel brano in esame stonerebbe ma il senso dell’avverbio è questo: moto da luogo. Qui il senso è chiaro: non è da questo punto che io traggo potere. C’è un’ironia – tipica di Giovanni – sul luogo da cui Pilato prende potere: il pretorio. Come si vede l’espressione “quaggiù” usata dai traduttori se la sono proprio sognata! cfr Lc 4,9; 13,31; Gv 2,16; 7,3; 14,31]”.
Tirando le somme…
Il regno di Gesù è di questo mondo, perché non esistono altri mondi… come ha detto il Papa, Gesù “ascendendo al cielo, non è andato a vivere su un’altra galassia”… il mondo di Dio non può essere che il mondo dei suoi figli… dove volete infatti che abiti un padre o una madre se non accanto ai propri figli?… O pensiamo che Dio Padre se ne vada a vivere su un altro universo aspettando che i suo figli lo raggiungano? A suo modo già santa Teresina l’aveva capito! Diceva a una consorella: Cosa volete che faccia in cielo? Passerò il mio cielo sulla terra a fare del bene… ora pensate che santa Teresina sia qui sola e Dio stia ad aspettarla altrove?
Prima conclusione: Non riusciremo mai a capire il vangelo se non gli permetteremo di cambiare il nostro immaginario simbolico… Dobbiamo smetterla di immaginarci il mondo come un insieme di mondi… noi qua e Dio là… e i morti chissà dove…
L’incarnazione ha proprio questo di significato primo: la fine dei due mondi, la fine dell’aldiquà e dell’aldilà per essere tutti e tutto in Dio, nell’unico mondo possibile quello di Dio. Da cui, ho detto “da”!... cui, ogni figlio riceve vita, dignità, missione, regalità, libertà, giustizia, pace, salvezza. In una parola: diventa uomo. E ciò a partire da Gesù che come noi è di questo mondo, ma non riceve da questo mondo la sua Signoria. Non è questo mondo – ci sta dicendo Giovanni – che ci fa uomini. Non a caso metterà sulle labbra di Pilato: Ecco l’uomo! Essere uomini significa essere signori che – parafrasando Eliseo lo zio di Guido in “La vita è bella” – sanno farsi servi ma non servili perché solo così si può essere servi liberi senza diventarne schiavi. Essere uomini significa essere re e non paggi del padrone di turno (per questo davanti a Erode, Gesù tace rifiutandosi di fargli da giullare).

Chi riceve potere da questo mondo sappiamo a quali condizioni diventa un “grande”, una persona di successo, un vincitore, un’eccellenza nella vita e nel lavoro e nella missione, a cui aspiravano anche gli Apostoli: una grandezza disumanizzante ci ricorda Daniele che – poco prima del brano di oggi – descrive “bestiale”, mostruosa, rapace, violenta, distruttiva, cannibalesca…

I segni della presenza del Regno di Dio, allora non sono la forza, non sono il miracolo, non sono nemmeno le qualità umane e morali che ciascuno di noi può avere, perché anche i pagani hanno doti, qualità e sanno fare miracoli fin dai tempi di Mosè. I segni della presenza del regno di Dio in questo mondo sono esattamente la presenza di uomini e donne che hanno capito la logica attivamente non violenta della croce. Croce che storicamente li rende agli occhi del mondo zoppi, ciechi, sordi, prigionieri, persino pazzi e bestemmiatori, ma che in realtà sono quelli che veramente camminano, veramente vedono, veramente sanno ascoltare, veramente sono liberi, veramente sono saggi, veramente glorificano Dio, perché hanno capito che esiste una sola vera giustizia, una sola verità e di questa insieme a Gesù danno testimonianza: il proprio perdono fino alla morte e alla morte infame. E proprio mentre vive fino in fondo la logica del regno del Padre, fino al rifiuto estremo di usare il potere della forza contro i suoi fratelli fattisi nemici – compreso il potere della forza degli amici che vorrebbero e potrebbero sottrarlo da un’ingiusta condanna (con Gesù ci hanno provato gli apostoli all’inizio, Nicodemo, e persino sua madre) – e proprio mentre vive fino in fondo questa logica fino alla morte, vive ed esperimenta (dolorosamente) il regno che il Padre da sempre crea: il regno di un mondo fondato da relazioni nuove intessute di perdono. Perché è sull’amore che si regge tutta la storia (l’alfa e l’omega della seconda lettura). E così, facendo propria la misericordia di Dio, si rendono/sono resi perfetti come il Padre, e sono resi simili a Lui. Per questo un tale potere di consegnare la propria vita è eterno: perché solo ciò che è umano e non bestiale è eterno, perché solo l’umano veramente tale vive della stessa proprietà di Dio. E lo fa facendo proprio il perdono di Dio. Non a caso in Giovanni più che altri, il trono di Gesù è proprio la Croce, quella croce, , che vissuta così – in ciò che essa rappresenta come rifiuto della logica disumanizzante di questo mondo – diventa il segno e il luogo della propria e altrui (anche degli aguzzini) glorificazione, come ci ricorda san Paolo: ciò che il Padre ha perdonato ha anche giustificato, ciò che ha giustificato ha anche glorificato!

Tutto questo non è un esercizio accademico ma ha conseguenze pratiche nella missione della Chiesa e quindi nella nostra missione nel mondo. Perché da una errata comprensione e traduzione di questo vangelo nascono contraddizioni insolubili dell’essere chiesa. Affermazioni contraddittorie di cui spesso ci si riempie la voce come “la chiesa è in questo mondo ma non è di questo mondo” contraddicono il messaggio evangelico. Una realtà qualunque essa sia che non è di questo mondo, non esiste neanche nel mondo. La teorizzazione di una “separatezza” della Chiesa dal mondo, così cara a una parte del mondo cristiano – che comprende anche una parte della gerarchia cattolica – nasconde una mentalità pagana che niente ha a che fare con la solidarietà storica di Dio Padre in Gesù Cristo.
Siamo chiamati anche qui a rifondare il nostro pensiero, il nostro immaginario perché la salvezza di Dio in Gesù Cristo si manifesti come autentica misericordia e non come enunciazione di principi filosofico-teologici che niente dicono all’uomo prigioniero nell’ingiustizia del mondo.

Il forte sospetto che una errata traduzione del testo evangelico che abbiamo analizzato, venga proprio da una siffatta ideologia di pensiero.

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