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mercoledì 2 marzo 2016

IV Domenica di Quaresima: La parabola del padre misericordioso


Dal libro di Giosuè (Gs 5,9-12)

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,17-21)

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Il vangelo di questa IV domenica di quaresima ci racconta la parabola del padre misericordioso, altrimenti nota come la parabola del figliol prodigo. A mio giudizio è una delle pagine più belle, se non la più bella, del vangelo e, per questo, è anche tra le più famose.

È divisa in due parti: la prima che ci narra la vicenda del figlio minore di questo padre protagonista e la seconda che ci parla del figlio maggiore.

Queste due parti sono scritte per i due gruppi di ascoltatori che Luca ci riferisce sono presenti al momento in cui Gesù si inventa questa storia: i pubblicani e i peccatori, da un parte; i farisei e gli scribi, dall’altra.

Il primo gruppo poteva facilmente identificarsi col figlio minore, mentre chi si sentiva giusto – come farisei e scribi – è rappresentato nella parabola dal figlio maggiore.

Non si tratta però di due parabole diverse, con destinatari diversi. Sono due parti della medesima parabola, che io credo restino intimamente connesse.

Infatti la narrazione riguardante il figlio minore ci mostra un volto di Dio (rappresentato dal padre della storia) inaccettabile per il figlio maggiore: ecco dunque la seconda parte della parabola, raccontata per chi, sentendo la prima, ha un moto di repulsione verso quel volto di Dio che Gesù ha mostrato.

Io trovo che la genialità di Gesù e poi dell’evangelista Luca, qui raggiungano un vertice sorprendente, perché non solo c’è il racconto di una parabola e poi la registrazione delle reazioni; ma le reazioni sono già previste dentro alla parabola, che quindi si allunga in una seconda parte, che serve proprio per rispondere a quelle reazioni.

Ma andiamo con ordine: cosa della prima parte della parabola risulta così inaccettabile per chi si sente giusto?

Ciò che è inaccettabile non è tanto il perdono del peccatore: tutti, bene o male, saremmo disposti ad accettare un Dio che di fronte ad un figlio che sbaglia (anche gravemente) lo perdona, vedendolo tornare sinceramente pentito. Anzi, spesso il nostro modo di pensare la nostra relazione di peccatori con Dio è strutturata in questo modo: cerchiamo di non peccare, ma quando ci capita ci pentiamo e lui ci riaccoglie. Anche il sacramento della riconciliazione è vissuto oggi secondo questo schema: pecco, mi pento, mi confesso, vengo assolto.

Ma in tutto questo non c’è niente di così inaccettabile: anche la maggior parte delle relazioni umane “funziona” in questo modo. Certo resta stupefacente che nella parabola manchino castighi e penitenze; resta stupefacente la riconsegna totale della fiducia di questo padre a questo figlio scapestrato; ma – probabilmente – anche noi faremmo così con un figlio… e soprattutto con noi stessi.

Ciò che in realtà è insopportabile è scoprire, nella storia, che questo figlio minore non è tornato da suo padre perché si era pentito. Egli torna perché aveva fame: «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!”».

Insopportabile è che di fronte a un figlio che si comporta così e che torna, non per amore del padre, ma per opportunismo, il padre abbia quella reazione spropositata di inondamento d’amore.

Uscendo per un attimo dalla parabola, potremmo attualizzare la situazione in questo modo: un poco di buono (ma potremmo mettere qualsiasi parola che ci evoca indignazione: uno stupratore, uno dell’ISIS, un razzista, un bullo, ecc…), dopo tanto tempo passato a fare il male, non avendo più di che sostentarsi, torna nella società civile per chiedere la previdenza sociale. Si decide di dargli non solo la pensione minima, ma l’assistenza sanitaria, una bella casa dove alloggiare, dei vestiti nuovi, un bankomat, ecc…

Salteremmo su come dei grilli, altro che figlio maggiore… con risentimenti, indignazione, domande: com’è possibile? Noi che siamo stati onesti cittadini non abbiamo avuto niente e questo con tutto il male che ha fatto lo tratti così? Non è giusto! Vorrai mica dire che con tutta la fatica che ho fatto per comportarmi bene ora scopro che questo mi passa davanti nell’amore di Dio? Va in paradiso prima di me? Non ci sto!

Ecco… più o meno il figlio maggiore è questo. Il figlio maggiore siamo noi, quando ci indigniamo perché Dio ama i peccatori, perché li ama anche quando sono peccatori non pentiti e li sovrabbonda di bene, proprio mentre sono peccatori.

Come dicevamo prima la seconda parte della parabola è raccontata prevedendo quanto possa risultare inaccettabile il volto di Dio che emerge dalla prima. Dio si difende preventivamente dall’indignazione dei “giusti”: «“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Da questa risposta emergono due elementi da sottolineare, in chiusura:

1- Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo. Chi si sforza di essere giusto senza capire che è più bello essere giusti (ma rammaricandosi di non avere il coraggio o la forza di non esserlo) non ha capito nulla di Dio: spesso anche noi ragioniamo così. Pensiamo che il male sarebbe preferibile, ma per paura delle conseguenze, cerchiamo di evitare di farlo. In realtà l’annuncio di Gesù è che non è che bisogna evitare il male, perché se no poi Dio ci punisce, ma che bisogna fare il bene, perché è più bello e rende la vita più bella. Se davvero credessimo questo, non ci indigneremmo per il comportamento del padre della parabola.

2- Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Per Dio, un figlio è sempre suo figlio, un uomo è sempre un uomo: anche quando lui stesso si dimentica di essere figlio; anche quando lui stesso si disumanizza al punto da non sembrare più un uomo. Dio non si dimentica chi siamo e custodisce la nostra identità di figli, di umani, qualsiasi cosa succeda.

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