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giovedì 9 luglio 2009

La relazione che si auto-testimonia nella trasparenza di un cuore nuovo

In questa quindicesima domenica del tempo ordinario la Chiesa, nelle letture, ci propone il confronto con l’esperienza dei cosiddetti “mandati”, “inviati”: nella prima lettura il profeta Amos («Il Signore mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo Israele”»), nella seconda Paolo («In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati a essere lode della sua gloria»), nel Vangelo i Dodici («Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due»).
Tale confronto rimanda immediatamente ad una serie di problematiche che non possono essere censurate se si vuole – almeno un po’ – addentrarsi nella logica dei testi. E le questioni sono principalmente queste: Perché la storia del rapporto tra Dio e l’umanità è segnata da un’elezione (prima un popolo, poi singoli uomini)? Come si concilia questa evidenza con l’altrettanto certa affermazione dell’amore universale di Dio? Perché, invece che in questo modo, Dio non ha provveduto a una comunicazione generale di sé, invece di compromettersi con delle elezioni, che – poi si sa – sul piano umano vanno sempre a finire in accaparramento di privilegi, commistioni col potere, discriminazioni tra fratelli?
Quest’ultima domanda – spero evidentemente – lungi dal volere “consigliare” Dio sul da farsi, è posta volutamente in modo forzoso: essa infatti presuppone tutto un modo di pensare Dio, l’umanità, gli inviati, le rivelazioni, che invece è ciò che precisamente va messo in discussione per rispondere adeguatamente alla domanda sull’intelligenza della storia della salvezza e dunque su quel pezzettino di essa che a noi compete.
Cosa voglio dire?

Che abitualmente il rapporto uomo-Dio è pensato più o meno in questi termini: c’è Dio (che è onnipotente, infinito, eterno, buono, padre, uno e trino, ecc, ecc, ecc) – senza capire bene cosa vogliano dire tutti questi aggettivi, soprattutto insieme (cfr. la mai risolta questione del rapporto tra onnipotenza di Dio – sua incontrovertibile bontà – eppure la presenza del male nel mondo) – c’è l’uomo (che è finito, limitato, però insomma un po’ capace di fare, disfare, “stare al mondo”, ecc…) e poi c’è il loro rapporto, con Dio che comunica all’uomo una serie di verità, di consigli per vivere, di prescrizioni per il bene comune e l’uomo che cerca di metterle in pratica, più o meno come gli riesce, chiedendo ogni tanto qualche aiuto dall’Alto, anche quando si è comportato male (e pensava: tanto Dio è lassù), che poi si sa, Dio perdona tutti (o quasi). In questo modo di pensare, i cosiddetti “inviati” sono sostanzialmente coloro che fanno da tramite, che – non si sa bene perché (prima si credeva perché erano più bravi, poi ci si è accorti che non era vero) – hanno in mano più di altri queste “verità”, questi modi corretti di comportarsi e atteggiarsi per piacere a Dio e così lo comunicano agli altri, orchestrandone il rapporto col divino e la condotta morale.
Evidentemente (spero), questa descrizione è un po’ caricaturale, ma a me pare molto presente nella nostra mentalità di cristiani del 2000: e non solo fra i bistrattati “cristiani medi”, sempre così sarcasticamente e bonariamente dipinti come “poveri sempliciotti” dai loro pastori, ma anche nell’imprinting di tanti che sono (o si sentono) “un po’ sopra la media” – siano essi profeti o apostoli…
Mi riferisco in particolare al fatto che questo schema – semplice e chiaro, e perciò iper-sfruttato – del piano di Dio (su), piano dell’uomo (giù), mediatore (in mezzo), ce l’abbiamo talmente stampato dentro che – solo sforzandoci – riusciamo a pensare altrimenti: cosa che invece è necessaria perché a ben guardare, per quanto di immediata comprensione, questo schema è inadeguato a dire l’esperienza umana nella sua relazione con Dio. Per esempio rimane fuori la figura di Gesù: dove lo collochiamo in questo schema? È lui il mediatore che sta a mezza via tra l’umanità e la divinità? Ma questa oltre che essere un’eresia (cfr. il Concilio di Calcedonia), è una risposta che non risolve, ma complica: perché a questo punto, dove li mettiamo gli altri mediatori? Un po’ più sotto? Ma se c’è già Gesù, cosa ce ne facciamo degli altri? Se invece servono anche gli altri, allora vuol dire che Gesù non è bastato? Ma anche qui cadiamo nell’eresia…
Soprattutto il problema emerge nel confronto con i testi biblici: essi, a parte non presentare mai uno schema generale che racchiuderebbe un tentativo di organizzazione della realtà, fanno sempre riferimento a un rapporto personale, esistenziale, addirittura affettivo, non monolitico, freddo e catalogante come quello precedente… Anche questo noi ce l’abbiamo dentro: non a caso le cose che ci piacciono di più – parlando di vangelo – sono le riflessioni esistenziali, che vanno a prenderci nella pancia, che ci fan scappare qualche lacrima, che toccano qualche corda realmente scoperta del nostro vivere…
Ma anche questa è una conferma di quanto si diceva in precedenza (la separazione dei piani ce l’abbiamo dentro): Perché se diciamo “Dio” ci viene in mente tutto un impianto metafisico, l’eterno, l’immutabile, qualcuno che sta lassù nei cieli, con una terribile sensazione di lontananza, freddezza, in ultima analisi inutilità (che però non ammettiamo perché un po’ di paura ce la fa ancora), e se diciamo “Gesù che si fa piangere addosso da una donna” subito ci si accende l’antenna dell’orecchio e soprattutto del cuore?
La tematica degli “inviati” porta qua a queste questioni radicali del pensar Dio, l’uomo, la vita… perché poi dietro a un’impostazione mentale, a cascata, vengon dietro tutti i nostri modi di pensare, i criteri per giudicare, le modalità per decidere, le superstizioni, gli atteggiamenti, ecc… Un esempio? Se Dio è lassù nei cieli e io quaggiù sulla terra, vuol dire che nell’aldiqua sono autonomo, lo gestisco io, lo organizzo secondo i criteri di ragione (cercherò il bene per me e per i miei figli), cercando di fare il meno male possibile, e pregando che mi vengano rimesse le colpe, quando esse saranno inevitabili per salvaguardare il mio interesse. Per il resto qua io, là Dio.
Sarebbe interessante ripercorrere le radici storiche di questo slittamento che la mentalità cristiana ha percorso in 2000 anni di storia (anche se ne sono bastati molti meno per arrivare a questi esiti), ma qui mancano sia lo spazio che il tempo… Molto più urgente allora diventa il confronto coi testi, con la rivelazione attestata di Dio, perché entrando dentro ad essa possiamo ragionare con la logica loro propria e non con una nostra riflessione (staccata) su di essa: come dice Beauchamp infatti «non è giusto che cambiamo il nostro parere sulla Bibbia? Se fossimo interrogati, non esiteremmo a rispondere che la Bibbia è la storia sacra, pensando a una serie ben nota di interventi straordinari operati da Dio, con la conseguenza, una volta posti di fronte a questa serie, di sentire invincibilmente lontano quello che essa racconta. Lontane da noi la vocazione di Abramo, la rivelazione di Mosè, la Pasqua dell’esodo. In questa maniera la Bibbia finisce per ridursi, nella nostra immaginazione, a un libro che narra fatti meravigliosi lontani nel tempo; essa talvolta, ci dà perfino l’impressione che essi siano presenti. I bambini, almeno durante un breve periodo dei loro primi anni, sono soggetti all’illusione che quello che si racconta loro sia immediatamente attuale. La Bibbia, quando si conosce male, si riduce a questo schermo dell’infanzia sul quale proiettano delle immagini».
In realtà la giusta prospettiva con cui approcciarsi ai testi è quella che lo stesso Autore suggerisce specificamente per i Salmi: «Se i salmisti parlano, se hanno qualcosa da dire, è perché è successo loro qualche cosa. Anche quando si tratta di un evento felice, è difficile che questo non sia preceduto, accompagnato, seguito da prove e da pericoli. Molte volte, quello che succede e induce un uomo a parlare è il fatto di essere stato colpito, scosso o costernato da un pericolo più forte di lui, il quale minaccia la vita e la ragione di vita. Non avremmo i Salmi se i loro autori non fossero passati attraverso ciò, vedendo da vicino la morte».
Ecco perché il giusto modo per leggere le Scritture è quello di entrarci dentro: non immediatamente cioè tirarne fuori un senso o un insegnamento, ma abitarle, almeno per un po’… in modo tale che quelle storie diventino le nostre storie, quelle dinamiche sottese, le nostre dinamiche, quegli interstizi, i nostri. Ciò che esse propongono infatti non sono generalizzazioni (non si trova mai una ricetta e a volte le soluzioni di fronte a problemi simili, sono diverse): piuttosto si parla di singoli, di individui, di storie personali. Si potrebbe dire che la Bibbia è la narrazione del rapporto con Dio di alcuni uomini (specifici), di un popolo (specifico). È la storia non dell’Uno o degli altri, ma della loro relazione.
Per questo lo schema precedente (quello della separazione tra piano umano e piano divino) oltre a non essere adeguato a dire il reale, non può neanche essere detto fondato biblicamente. Perché dal testo biblico si parte sempre dal rapporto, in qualche modo “già dato”: biblicamente l’uomo non è mai pensato senza Dio, ma anche viceversa, Dio non è mai raccontato senza l’uomo.
In questo senso anche la narrazione delle elezioni (del popolo, dei profeti, fin agli apostoli) non è messa per iscritto per promuovere uno schematismo pratico (Dio ha voluto che alcuni fossero privilegiati, che ci fossero ruoli istituzionali, che qualcuno fosse più importante di qualcun altro, che sapesse più “cose di Dio” degli altri…), ma sta ad indicare la storia del rapporto di uno con Dio (e non con le “verità” su Dio!): ma ancora, non nel senso di un modello, di un prototipo, che tutti gli altri dovrebbero imitare o a cui dovrebbero rifarsi… ma perché vedere la realizzazione di tale relazione in uno conferma tutti della sua percorribilità (personale! Cioè solo sua, singolarissima, di ciascuno).
Per questo l’inviato gode sì di una sorta di privilegio (parla le parole di Dio, perché parla con Dio e allora le parole dell’uno diventano le parole dell’altro), ma perché in lui – e non solo e non tanto grazie a lui – quella stessa parlabilità con Dio sia dischiusa a tutti.
Interessante infatti che Gesù mandi i Dodici ma non li accompagni: al di là della banale spiegazione per cui si tratterebbe di una prova generale per il tempo post-pasquale, o della vera ma riduttiva interpretazione secondo cui qui si espliciterebbero le indicazioni pratiche per i predicatori post-pasquali, in realtà qui c’è in gioco la trasparenza della trasformazione che la relazione a Dio (in Gesù) attua nella singolarità dell’uomo. Vedendo loro in quel modo e ascoltandoli nel dire che quel modo gli si è dischiuso nel rapporto a Gesù, il Cristo, ognuno può credere come possibile per lui quell’esperienza di salvezza.
Ecco perché chiunque incontra il Signore non può non essere testimone: perché – se l’incontro è reale – mostra da sé la sua trasparenza, nel cambiamento sostanziale del cuore dell’uomo… Ed ecco perché a due a due… Perché ciò che si “auto-testimonia” è la qualità di una relazione!
Forse che la nostra scarsa incisività testimoniale dipenda dalla nostra scarsa relazione a Dio e ai fratelli?

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