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giovedì 2 luglio 2009

Nemo propheta in patria

Le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica e in particolare il vangelo, hanno proprio il sapore della ferialità, dell’ordinarietà del tempo (siamo alla quattordicesima domenica del tempo ordinario): infatti l’episodio di Gesù nella sua patria rimanda a un momento “normale” dopo la “extra-ordinarietà” dei primi passi del suo ministero pubblico: secondo Marco infatti, quando Gesù torna a casa sua, ha già ricevuto il battesimo da Giovanni, vinto le tentazioni, chiamato i discepoli, iniziato la sua predicazione, compiuto diversi miracoli… guadagnato una certa popolarità…
Questo ritorno – che anche letterariamente sembra una cesura, una parentesi – segna dunque come una pausa nel cammino in Galilea di Gesù, che peraltro riprende immediatamente già nell’ultimo versetto del nostro brano: «Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando». Eppure questa “pausa” non pare avere i contorni della riuscita… L’esito è deludente; nel parallelo brano di Luca addirittura tragico (cfr Lc 4,16-30).
Il brano non dice il perché di questa decisione di Gesù di tornare in patria e immaginare romanzescamente varie ipotesi vorrebbe dire forzare il testo. Sta di fatto che non emerge nessuna urgenza che possa aver determinato un impellente rientro, per cui pare proprio che a Gesù andasse – proprio come un fatto normale – di ripassare dalla sua terra natia.
Tant’è che si rimette a fare le cose “abituali”: di sabato va alla sinagoga – commenta Luca «secondo il suo solito». Eppure proprio lì «dove era cresciuto» qualcosa è cambiato. Il modo di porsi, meglio, il modo di essere di Gesù esce dai canoni consueti con cui fino alla sua partenza era stato guardato, non rientra più nell’ordine di misura (normale) con cui era da sempre stato valutato: non combacia più con l’etichetta con cui l’avevano sempre pensato: «il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone». E questo scarto tra idea di lui e lui suscita stupore («rimanevano stupiti») e addirittura scandalo («era per loro motivo di scandalo»).
E Gesù soffre di questo mancato riconoscimento, di questa mancata accoglienza di lui in nome di un’idea diversa di lui.
Fin qui l’episodio… onestamente abbastanza comune: a tutti è capitato di fare esperienza di essere letti a partire da una pre-comprensione piuttosto che dalla realtà di ciò che si è; un episodio che – se letto in termini edificanti – potrebbe anche aprire lo spazio a dissertazioni circa le problematiche odierne sulla nostra capacità come singoli e come società di accoglienza del diverso, ecc, ecc, ecc…
Eppure, tutta questa sensazione di ordinarietà, di esperienza comune ai più, lascia aperta una domanda più radicale, che qualsiasi riduzione di Gesù a semplice modello etico, elude, e cioè: Se si tratta di un’esperienza tanto normale, che si rifà in qualche modo a istanze antropologiche consuete (impossibilità di uscire dall’etichettamento come modalità iniziale di comprensione, necessità di superarlo, fatica ad attuare tale superamento, con i conseguenti stupori, scandali e – dall’altra parte – l’accorata meraviglia per il giudizio altrui), perché i primi cristiani hanno sentito il bisogno di narrarci questo fatto? Perché ha una valenza così significativa il fatto che Gesù venga rifiutato in patria? Verrà rifiutato anche dopo e in modo più radicale, dagli amici, dal suo popolo… Perché dunque non limitarsi a quei tradimenti, di portata di certo più consistente, e sottolineare anche questo che in prima battuta a noi sembra un episodietto, se non insignificante, almeno di una rilevanza piuttosto bassa?
Le risposte che a me sono venute in mente sono tre. Più che vere e proprio risposte sono tracce di riflessione…
La prima potrebbe essere sintetizzata nello slogan “Gesù è per la singolarità”. A ben guardare infatti la misura con cui i suoi compaesani misurano Gesù, non è un modo di procedere pensato per lui: è il modo normale di affrontare la realtà. Noi conosciamo sempre misurando ed etichettando. Non immediatamente in senso negativo, come se questo fosse un giudizio morale sul fatto che abitualmente si è pieni di pregiudizi nei confronti degli altri. Piuttosto nel senso che immediatamente è l’unico modo che abbiamo per approcciarci a ciò che dobbiamo conoscere – dentro e fuori di noi. Non a caso diamo un nome alle cose, tentiamo di delimitarle, con un concetto, una definizione, un giudizio: altrimenti non si potrebbe dire “Quella cosa lì è quella cosa lì”… Il punto è che però da questo approccio immediato al reale, è necessario poi muovere passi successivi. Questo etichettare infatti, è indispensabile, ma appunto ha sempre i tratti della misurazione, dell’universalizzazione, della generalizzazione: “Questo oggetto è una sedia”. Che è vero, ma rischia di perdere l’altro ineliminabile e altrettanto vero profilo: “Questo oggetto non solo è una sedia, ma è questa sedia”… Evidentemente, il rischio di rimanere imbrigliati nella mera conoscenza misurante, e dunque di perdere il secondo profilo (quello della singolarità: io non sono solo una donna, io sono questa donna), è tanto più pericoloso quando “oggetto” di conoscenza sono le persone… A me pare dunque che una prima risposta alla domanda del perché della sottolineatura di questo rifiuto di Gesù in patria possa andare proprio in questa direzione: perché come in tanti altri passi del Vangelo, in questo si vede in modo chiaro questo continuo rilancio dell’attenzione di Gesù per il singolo: Gesù non guarisce tutti i malati, ma questa donna emorroissa, questa ragazza figlia di Giairo; non comunica con l’uomo filosofico universale, ma parla con Pietro, con Giuda, con Caifa; ecc… allo stesso modo Gesù non è un nazareno, un falegname, ma è quella libertà storica particolarissima lì… che non ci sta dentro a un’etichetta, ma non perché era Dio (ovvio, a maggior ragione), ma perché nessuno ci sta e ci deve stare: questo è il suo grande comandamento sull’amore, questa è la grande prospettiva che emerge dal testo evangelico: la buona notizia è che Dio ama ciascuno dei suoi figli e vuole intessere con lui una relazione personale e unica, speciale e irripetibile, perché così è Dio, e perché così ha fatto l’uomo. L’uomo non è fatto per le standardizzazioni, non ci sta dentro, non si rende ragione di lui, pensandolo in questo modo… Ma questo prima che essere un’esortazione a imparare a uscire dalla logica della misurazione dell’altro per aprirci alla relazione vera, sempre esplosiva di novità e mai circoscrivibile, deve essere riconosciuta come l’autentica identità umana, l’adeguata dinamica che lo pensa e dunque che determina tutto una conseguente conversione dei canoni e dei criteri del nostro vivere: l’uomo non è mai prendibile; c’è un’irriducibilità che sempre viene rilanciata, tanto che questo vale anche nel rapporto tra io e sé, dove la mediazione corporea implica proprio questo, cioè che neanche io sono disponibile a me immediatamente.
Io credo che uno dei motivi per la sottolineatura di questo brano risieda proprio qui: la fede cristiana ha la sua radicalità proprio in questa dinamica profonda che è la singolarità; tant’è che la cosa più dibattuta e sempre rilanciata come problematicità critica è stata quella per cui la salvezza universale (in termini spazio-temporali e di totalità) per la Chiesa coincida con un evento storico: 33 anni di vita di un uomo.
Che Gesù in patria sia mis-conosciuto e che questo provochi la reazione umana e normale del rammarico, diventa allora qualcosa da tramandare perché in gioco si scontrano due modi di pensare l’uomo, e dunque Dio, e dunque la vita: sono un caso qualunque della storia del mondo o sono in gioco io nella mia dimensione irripetibile e unica in ciò che faccio? Ecco: Gesù è per questa seconda via.
La seconda risposta alla domanda sul senso della sottolineatura di un episodio apparentemente consueto, nasce invece dalla considerazione che, in fin dei conti, a guardare il medesimo episodio dal punto di vista dei compaesani di Gesù invece che dal suo, non è che si possa poi tanto contestare la loro reazione… che il ragazzino che avevano sempre visto e considerato in un certo modo, misurandolo con gli stessi canoni con cui misuravano gli altri ragazzini (di chi è figlio, che mestiere fa, se i suoi fratelli son venuti su bene…), con cui si misuravano tra loro proprio senza battere ciglio, tornasse al paese dopo qualche tempo e si rivelasse, pur nel tentativo di presentarsi normalmente, in una modalità nuova, è normale che generi stupore… Tra l’altro la sua è una novità di una portata esorbitante… insegna, compie prodigi… pian piano sviluppa la pretesa di essere il Cristo… Questo hanno di fronte i suoi paesani… Ma come si diceva prima, non è tanto la cosa in sé, quanto piuttosto il contrasto con il proporsi di Gesù per quello che realmente è e l’idea abituale che avevano di lui: siamo di nuovo di fronte al paradosso di una pretesa alta, in una forma bassa; di un Dio che è uomo; di un Messia che muore in croce… Che è lo stesso “scandalo” di Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte»…
Lo scandaloso di tutto ciò, ciò che cioè ancora oggi ci fa da inciampo, ciò che non ci permette di ricevere questo annuncio senza scossoni, in maniera lineare, è che non si tratta tanto di un’altra proposta, tra le tante, ma di un messaggio che mette in discussione tutto l’impianto del nostro vivere, pensare, pensarci, determinarci, giudicare… ribalta le nostre categorie e non per un puro desiderio di attirare l’attenzione, ma per arrivare davvero a una trasformazione della nostra struttura antropologica. Le conseguenze dell’adesione a un Messia che muore, a un Dio che si fa uomo, a un falegname di paese che si palesa come il salvatore del mondo sono troppo scaravoltanti: niente del modo “solito” di porsi nella vita tiene più, ogni criterio è scardinato, ogni senso da rivedere, ogni gesto da ripensare, ogni fondamento da ridiscutere…
Ecco perché – ed è la terza risposta – questo brano è stato sottolineato nonostante la sua apparente normalità: perché è scritto per chi già crede, per chi in un certo senso è dalla parte di questi compaesani, di chi pensa di conoscere (almeno un po’) Gesù. Perché quello scandalo lì è ancora il nostro e prova ne è che i tentavi di ridurlo in questi 2000 anni di storia, di attenuarlo, di depotenziarlo, sono stati innumerevoli ed è una tentazione continuamente riemergente nel cuore della Chiesa e di ciascun credente: provare a dire che non era veramente uomo, solo ne aveva preso le sembianze; oppure, viceversa, dire che era proprio solo un uomo, di cui Dio si è servito… o – che è lo stesso – dire che la debolezza era una finta per far poi emergere la potenza… oppure – sul nostro versante – che il tentativo umano dev’essere quello di rifuggire dalla debolezza (dalla carne – pensiamo ad un certo spiritualismo; o dalla precarietà – pensiamo al contemporaneo mito del benessere, della salute o dell’eterna giovinezza o alle piccole e grandi sicurezze di cui costelliamo la nostra vita per reggerci in piedi decorosamente…).
E ogni volta che scivoliamo un po’ su queste derive, il Vangelo torna a dirci: No, vero uomo e vero Dio; Messia crocifisso; Salvatore non riconosciuto; salvezza per tutti in 33 anni di carne e d’ossa; forza nella debolezza…
Ma forse, questo che torna sempre a sembrarci un paradosso insolubile, tanto teologicamente, quanto esistenzialmente, trova la sua intelligibilità se ci si ricorda che ciò che permea questi binomi è l’amore, che per sua natura è paradossale: perché è la cosa più grande che l’uomo possiede e la cosa che più di tutte fa grande l’uomo; eppure è la più fragile, la più dolorosa, la più denudante… Tanto che qualcuno ha scritto: “Chi vuole amare, si prepari a soffrire”… Ma questa forse è l’intelligibilità della vita: che o si ama, o non è Vita…

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