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giovedì 16 luglio 2009

Essere sè - Essere per l'altro

Capita a tutti – credo – a volte, di volersi ritirare in disparte: in disparte dalle “folle” che attraversano la nostra vita, dai loro e nostri problemi, dalle dinamiche distorte in cui spesso ci troviamo immersi e che ci fanno mancare il fiato… in disparte dalle mille occupazioni quotidiane, dalle cose che bisogna ricordarsi di fare, dagli impegni che gli altri (coi loro ricatti affettivi, con i sensi di colpa che ci provocano, con il senso del dovere a cui ci richiamano…) spesso ci buttato addosso…
In disparte… a rigenerarsi un po’, a fare il punto della situazione, a ricordarsi chi si è e perché (per chi) si è, quasi introducendo una sorta di pausa alla storia, al flusso continuo degli eventi, come a voler fermare per un attimo il tempo e la sua inarrestabile corsa…
Capita – credo – soprattutto a quelle persone che in qualche modo hanno responsabilità su altre (ma chi non ne ha?), che oltre ai propri problemi devono farsi carico anche di quelli degli altri, di coloro che – stando alla metafora evangelica – ci paiono pecore senza pastore, o in assoluto o per qualche frangente dell’esistenza…
Anche Gesù ha questa esigenza: diverse volte nel Vangelo ci è raccontato di questo suo ritrarsi in disparte (cfr Mc 1,35; 9,2; 10,32; al Getsemani) da solo o con i suoi discepoli, anche se Lui pare sempre farlo per “fare il punto della situazione” sulla sua identità.
Anche il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa sedicesima domenica del tempo ordinario, va infatti precisamente in questa direzione. Due in particolare sono gli eventi che spingono Gesù a ritirarsi in disparte coi suoi: il loro ritorno dall’esperienza missionaria e la morte del Battista, narrate nei versetti immediatamente precedenti.
Il ritorno dalla missione esigeva evidentemente un momento di riposo e di confronto e la morte del Battista implicava una riconsiderazione della missione di Gesù.
Eppure in quest’occasione il suo desiderio di ristoro, di preghiera, di solitudine non va a buon fine. Avviene qualcosa che intralcia il suo proposito: ed è il fatto che la gente, accorgendosi del loro tentativo di scostarsi un attimo dall’immersione quotidiana nella vita delle folle, li segue – anzi li precede – ponendosi sul loro cammino.
Esplicitamente non chiedono nulla, semplicemente si pongono lì sulla loro strada.
Personalmente una situazione del genere, paradigmatica di tante altre situazioni simili in cui a volte ci veniamo a trovare anche noi, susciterebbe immediatamente nervosismo…

Innanzitutto perché viene rotto un programma prefissato, nato da un desiderio (o da un bisogno) vero, costruito sulla fondamentale e sacrosanta necessità di avere un po’ di spazio per se stessi.
In secondo luogo perché, nella nostra concezione assistenzialista – mai veramente scardinata e convertita –, ci dà fastidio che i “poveri”, o più in generale la gente, ci si pongano sulla strada… senza rispettare i nostri tempi, i nostri ritmi, ma quasi invadendoci spazialmente…
Dentro a questo fastidio – nella duplice sfaccettatura appena descritta – io credo stia la visibilizzazione fenomenologica della distanza tra l’interiorità di Gesù, l’uomo nuovo, e la nostra, ancora così “vecchia”.
Cerco di spiegarmi… partendo dal primo versante.
La psicologia, ma anche la stessa teologia, fin dentro al senso comune riconoscono ormai fortunatamente come imprescindibile la cura di sé. Spesso si ricorda come il comandamento di amare gli altri come se stessi, implichi appunto un previo “amare se stessi”, sul quale unicamente si può fondare anche un sano amore per gli altri: “Come si fa ad aiutare gli altri se prima non siamo apposto noi?”, si sente spesso – un po’ grossolanamente ma efficacemente – ripetere… Che in una formulazione un po’ più precisa può suonare in questo modo: proprio perché ci si è resi conto che l’uomo è implicato in tutto quello che fa, fondamentale diventa il suo occuparsi di sé, della sua libertà, del suo esserci in senso pieno…
Ad ogni modo, detto alla maniera del sentire comune o in quella del linguaggio più riflesso, il dato emergente dalla società contemporanea è quello di un’attenzione a se stessi, che invece una certa morale e prassi cristiana degli anni precedenti tendeva a mortificare, in vista di una dedizione incondizionata al Signore o ai fratelli… Fortunatamente, dicevamo, sembra che questo approccio mortificante e dedizionista, dello spendersi per lo spendersi, della fatica per la fatica, del sacrificio per il sacrificio, si sia un po’ attenuata (per quanto si mantenga viva in alcune sacche residue della cultura odierna), lasciando spazio alla crescita della libertà dei singoli (senza una castrazione previa), allo sviluppo dell’autocoscienza, alla conquista storica di una maturità personale… cose che appunto richiedono tutte un po’ di tempo, di spazio e di cura per sé…
Ma se tale cura è ormai riconosciuta culturalmente come così irrinunciabile e se ne troviamo un suo fondamento addirittura fin dentro alla prassi abituale di Gesù, perché ad un suo impedimento da parte di altri, noi reagiremmo innervosendoci, mentre Lui commovendosi?
Perché forse, al di là dei luoghi comuni e della consonanza delle formule, non tutti i paradigmi a cui rimanda la “cura di sé” sono univoci, soprattutto con quello di Gesù.
Per capirsi velocemente senza dilungarsi, facciamo un esempio “esagerato”: “cura di sé” è anche l’etichetta che si appiccica su tutte quelle forme di benessere psicofisico a cui rimanda la nostra società (esaltazione della salute, della forma fisica, della bellezza, ecc…), con tutti gli annessi e i connessi (chirurgia estetica, beauty farm, trattamenti strani, ecc…). Evidentemente dietro a questa “etichetta” sta un’idea di uomo diversa da quella che Gesù incarna, quando per esempio si ritira in disparte per pregare…
Quanto però detto in questa prospettiva esagerata, vale più subdolamente anche per tanti altri modi – più raffinati – che noi abbiamo di concepire la cura di noi stessi, di cui ci riempiamo la bocca – trovando sostanzialmente tutti d’accordo (perché chi oggi direbbe che essa non è fondamentale fuori e dentro la Chiesa?) – ma che in fin dei conti non sono così consonanti tra loro…
Cosa voglio dire? Che la diversità di reazione nostra e di Gesù a fronte dell’interruzione dell’attuazione di un momento di “cura di sé”, dipende dall’idea di “cura di sé” che abbiamo in testa…
Perché noi ci innervosiamo se qualcuno ci si pone sulla strada proprio mentre stavamo andando a dedicarci un po’ a noi stessi e Gesù no, anzi tutto il contrario? Perché sentiamo che in questo modo qualcuno ci sta rubando qualcosa di nostro, di legittimo, mentre a Gesù scatta la compassione per i “diritti” degli altri?
Perché forse l’idea che noi abbiamo di cura di noi stessi è solo parziale. Essa è certo imprescindibile ma lo è proprio perché è ciò che ci permette di essere al mondo, di esser-ci nel mondo, di adempiere al compito precipuo di ciascuno di essere sé, colui cioè che nessun altro può essere… Ma precisamente nell’unica forma veramente umana, che è essere-per-l’altro. La matrice antropologica di ciascuno, quella che emergerebbe con chiarezza se si guardasse con più attenzione alle forme pratiche del nostro agire, della nostra vita, rimanda infatti precisamente a questo: nessuno è uguale a un altro eppure nessuno può essere senza l’altro; non tanto e non solo in senso immediatamente materialistico, per cui tutti abbiamo bisogno di qualcuno – almeno per nascere – e non si trova nessun uomo uguale all’altro, quanto piuttosto in senso ontologico, cioè l’uomo non è uomo senza essere sé, unico e irripetibile, e senza essere in relazione agli altri uomini.
La nostra idea di cura di noi stessi invece prescinde da questa originaria identità umana, rimandando invece al presupposto contemporaneo dell’uomo autoreferenziale.
Qui si innesta anche il secondo versante della problematica del fastidio che l’altro, semplicemente ponendocisi davanti, ci suscita. Perché l’altro è sempre visto in funzione di noi: quindi se è nemico, come uno da rifiutare, se amico, come uno che ci deve beneficare, se è povero, come uno da aiutare, perché ci gratifichi.
Non esce da questo schema nemmeno l’assistenzialismo di certo cristianesimo. Sostanzialmente perché oggettivizza sempre l’altro, funzionalizzandolo a me. Ecco perché disturba il suo sopravvenire inatteso, le sue richieste non calcolate, le sue pretese impreviste.
La prospettiva alla quale invece la libertà storica di Gesù rimanda, nel suo agire e patire, e vivere e credere, è precisamente quella della fraternità umana, in cui io sono io proprio perché essendo me sono per l’altro, che in questo senso non è mai “separato” o “separabile” dalla mia personale vicenda, perché ne è sempre imprescindibilmente costitutivo e costituente. Il suo sopraggiungere è infatti sempre istanza inevitabile per la mia identità: il suo esserci è domanda al mio esserci, mi chiede di me, di chi voglio essere… per questo non può essere ostacolo a me, ma sempre già incluso nella mia dinamica esistenziale.
Per questo finché l’altro non sarà veramente mio, nel senso sopradetto di inestricabilmente integrante l’identità più intima di me, si mancherà – fuori e dentro la Chiesa – la prospettiva di Gesù e ci si continuerà ad innervosire per il sopraggiungere dell’altro, che non essendo guardato come “mio”, sarà sempre immediatamente pensato come “contro di me”.
Ancora una volta allora, la conversione alla quale la quotidianità della vita storica di Gesù ci rimanda, non è meramente quella morale o comportamentale (“Cosa dobbiamo fare, allora?”), ma precisamente quella esistenziale (“Chi siamo veramente?”). È questa la domanda “in-sfuggibile” per ciascuno.

1 commento:

'ntonia ha detto...

La tua analisi è molto profonda, Chia. Quando ci si avvicina al "bisogno" quasi sempre si segue un impeto, un istinto... é il dopo, il perchè, il per chi: che ti sconvolge l'anima....
L'ANDARE IN DISPARTE diventa un bisogno interiore di chiarezza, di fare un pò di ordine, una necessità.
La fatica di non conformarti comunque e dovunque spesso non ti fa ragionare, ti rende "nervoso".
Altre volte ti lasci andare e vivi come puoi, come ti è permesso. La libertà globale e totale è utopia come il vero senso cristiano della vita: Ascolta Israele..... ama il tuo prossimo come io amo te...

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