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venerdì 11 settembre 2009

Eroe o angosciato grumo di sangue?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa ventiquattresima domenica del tempo ordinario, sono assai ricche e ognuna aprirebbe ampi spazi di riflessione e meditazione. Ciò che però più di tutto e immediatamente cattura l’attenzione – per chi ha un po’ di Bibbia nelle orecchie – è specialmente la seconda lettura, tratta dal capitolo 2 della Lettera di Giacomo. Essa infatti pare dire esattamente l’opposto di un altro testo – anch’esso biblico, anzi anch’esso neotestamentario, dunque canonico allo stesso modo del primo – che è quello del capitolo 3 della Lettera ai Romani di Paolo.
Mentre infatti Giacomo scrive: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? […] La fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta», mentre cioè Giacomo sembra far prevalere la fondamentalità delle opere sulla fede; Paolo dice precisamente il contrario: «In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. […] È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù. Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,20-22.25-28). Paolo dunque – all’inverso di Giacomo – sottolinea la fondamentalità della fede a scapito delle opere…

Chi ha ragione dunque? A chi dar retta?
Evidentemente son false domande… La diversa prospettiva di Paolo e Giacomo, nasce infatti dal fatto che le problematiche che originano le loro lettere sono diverse. Senza addentrarci troppo in una ricostruzione della situazione, è però facile evincere che mentre Giacomo si trova probabilmente di fronte al problema di quei cristiani che ritenevano sufficiente alla salvezza l’appartenenza formale alla Chiesa, senza di fatto incarnare esistenzialmente una vita cristica, Paolo si trova probabilmente di fronte ad un certo fariseismo cristiano, per il quale sufficiente alla salvezza sarebbe l’attuazione di una serie di pratiche (di opere, appunto) cultuali o morali, senza una vera conversione del cuore.
Un falso problema dunque?
Sì, se si tratta di risolvere la divergenza fra testi egualmente canonici. No, se si prende coscienza del fatto che l’interesse suscitato da questa apparente incongruenza risulta molto istruttivo dal nostro punto di vista, perché in fin dei conti non c’è cristiano che non abbia in sé la tentazione ad un certo fariseismo da un lato, o ad un’adesione solo nominale a Cristo dall’altro. Che tra l’altro – per sciogliere ulteriormente ogni ambiguità sul contrasto Giacomo-Paolo – sono le due facce della medesima medaglia: e cioè, il mai pieno affidamento e affondamento nel Signore e nei fratelli, ma una certa qual sempre “uscita di sicurezza” da mantenere, tra il mondo di Dio (aderisco ad una fede – metto in pratica alcune opere “ così sono a posto da quel punto di vista) e il mondo mio (poi c’è tutto il resto della vita).
In realtà ciò che la “contraddizione” tra questi due testi lascia emergere non sono due verità, apparentemente in contrasto, che poi noi rimaneggiamo e correliamo per buona creanza… Ma un’unica verità fatta di sottolineature che si implicano a vicenda e che non sussistono l’una senza l’altra e che dicono della verità dell’uomo.
Cosa voglio dire? Che ha perfettamente ragione Paolo quando dice che la fede (anche non quella immediatamente cristologica, ma più in generale la struttura antropologica del fidarsi ed af-fidarsi ad altro) inevitabilmente ha a che fare con un consenso, un affidamento dell’intimità del proprio io al Signore. Non è vera quella fede che si accontenta delle “pratiche” per “pagare”, “placare” Dio e sentirsi così poi autorizzati a lasciarlo fuori dalla nostra vita. È appunto il fariseismo contro cui Gesù più volte ha urlato “ipocrita”! E d’altro canto ha perfettamente ragione Giacomo a dire che la fede ha inevitabilmente a che fare con la plasmazione della vita, di ciò che si è e dunque di ciò che si fa (opere).
Si potrebbe dunque dire che Paolo e Giacomo usano i termini “opere” e “fede” in due accezioni diverse. Quando Paolo critica le opere, parla delle opere in senso farisaico, non nel senso di Giacomo, cioè di conformazione di ciò che si fa (che è strettamente legato a ciò che si è) a ciò per cui ci si è determinati (e cioè la fede, la vita in Cristo). Allo stesso modo quando Giacomo critica la sola fede, sbandierata qua e là senza un riscontro vitale e viscerale nella propria esistenza, parla della fede come consenso nominale al Signore, non della fede di cui dice Paolo, cioè di quel consenso senza “uscita di sicurezza” di chi pone la sua vita nel Signore.
Quest’ultimo infatti, se è autentico, cioè se è inteso come lo intende Paolo, non può non desiderare (almeno) di portarsi dietro tutta la carne, verso una conformazione cristica (quelle che Giacomo chiama opere) che però – appunto – è abilitata dalla relazione intima col Signore (cioè dalla fede in senso paolino). Relazione intima che, a sua volta, è alimentata-istruita dall’amore al fratello (di nuovo, le opere nel senso di Giacomo)…
L’uomo infatti non può imparare la grammatica della relazione con Dio che nella grammatica delle relazioni con i fratelli. Non a caso infatti Giacomo, fa proprio l’esempio di un fratello o una sorella senza vestiti: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta».
Questo gioco di rimandi – forse un po’ confusionario – mostra però bene l’inscindibile legame tra quella che noi chiamiamo “fede” e quelle che noi chiamiamo “opere”. Il loro senso riduttivistico che prima Paolo (opere) e poi Giacomo (fede) stigmatizzano, è certo da convertire. Ma il senso pieno che Paolo dà alla fede e Giacomo alle opere è invece da specificare bene, perché mette in luce la struttura antropologica del credente. Proprio l’inestricabilità e il necessario rimando dell’una (fede) alle altre (opere) rendono tale un credente.
Questo si vede in modo lucidissimo nella prima lettura e nel Vangelo. Il capitolo 50 di Isaia infatti presenta il terzo carme del servo, quella figura biblica con cui Gesù si identificherà e verrà identificato. Rispetto a quelli che lo precedono questo terzo carme è un monologo del servo, che riflette sulla propria dolorosa missione.
Dicevo che qui si visibilizza bene quanto tentavamo di dire sulla struttura antropologica del credente autentico, perché da un lato c’è la pienezza del senso della “fede” come la intende Paolo. Il servo sofferente infatti nella sofferenza che accompagna la sua missione, attua quell’assenso interiore al Signore, ribadisce la sua incrollabile fiducia, rimane affidato a Lui: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?». E però allo stesso tempo a morire ci va davvero. Non solo dà l’assenso, ma conforma la sua esistenza a quell’affidamento: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi». Ciò che rende vero l’assenso è la consistenza della vita. E ciò che abilita quella vita, è l’assenso autentico. Uno senza l’altro, non solo non hanno senso, ma neanche esistono.
Eppure… questa via («Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà») lascia sempre un po’ perplessi, quasi intimoriti… sembra un po’ la via eroica ma possibile a pochi, di cui parlava il Grande Inquisitore di Dostoevskij: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribù. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano più dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere così terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».
La sicurezza dell’assenso del servo di Isaia e la sua autenticazione nell’andare davvero a morire sono certo emblema molto chiaro della struttura della fede… ma la nostra personale realtà rimanda a ben altro: alla fatica di un assenso, all’impossibilità di una presenza a sé sempre lucida e risolta, alla viscosità della storia e delle dinamiche relazionali in cui siamo gettati, alla mai piena chiarezza di cosa voglia dire “rinnegare se stessi” e “prendere la propria croce” e la fatica – pur quando si individua cosa “bisognerebbe fare” – a farlo davvero… rimanda a anime deboli!
Eppure questo non deve essere fonte di scoraggiamento. Infatti in questo senso è estremamente consolante che Gesù pur attuando pienamente la struttura della fede di cui il servo di Isaia era esempio (tanto che è stato scelto come suo termine di paragone) – dunque fidandosi e affidandosi al Signore e morendo davvero in croce – lo abbia fatto senza ostentare nessuna sicurezza, o eroicità, o stoicità… ma con la stessa angoscia e paura che ho io: «morendo come tutti si muore» [De Andrè] e gemendo un grido inarticolato: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
Questo è molto consolante anche rispetto all’invito di Gesù a “rinnegare se stessi”, “prendere la propria croce e seguirlo”, contenuto nel vangelo di oggi. Un invito che troppo spesso risuona in noi come “troppo eroico per una come me”… Un invito che se invece è messo – quasi come un quadro – immediatamente a fianco della morte per fede di Gesù (e di quella morte lì!), trova davvero un’intelligenza altra, una possibilità altra: non quella dell’eroe, ma di quell’angosciato grumo di sangue, che però ha imparato a dire “Padre”.

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