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venerdì 22 gennaio 2010

Gesù parla di sè

In questa III domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci invita a tornare a riflettere sul vangelo caratteristico di questo anno C, quello di Luca. Siamo al capitolo 4 – salvo qualche versetto del I capitolo – e siamo agli inizi della vita pubblica di Gesù, in un momento – da questo punto di vista – parallelo a quello narrato domenica scorsa dal vangelo di Giovanni. I primi 2 capitoli di Luca infatti sono i cosiddetti “racconti dell’infanzia”, che dovremmo avere nelle orecchie, perché son quelli che abbiamo meditato nel recente tempo di Natale, da poco concluso; il III e i primi versetti del IV presentano il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni – battesimo di Gesù – tentazioni nel deserto); e i nostri versetti (dal 14 al 21) sono quelli che raccontano l’inizio del ministero pubblico di Gesù in Galilea.
Precisamente, Luca colloca questo inizio a Nazaret, la città dove Gesù è cresciuto: lì, nella sinagoga, Gesù – per la prima volta – dice qualcosa di esplicito su di sé (finora infatti aveva parlato solo in Lc 2,49, quando dodicenne aveva risposto ai genitori «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»; e in Lc 4,1-13, rispondendo alle tentazioni): infatti, prende il rotolo del profeta Isaia e legge i versetti 1-2 del capitolo 61, seppur con qualche modifica (tralascia «guarire i contriti di cuore» – presente in Is 61,1 – e introduce – citando Is 58,6 – l’espressione «dare la libertà agli oppressi»; inoltre – a proposito di Is 61,2 – tralascia l’espressione «un giorno di vendetta per il nostro Dio», espressione che avrebbe limitato il significato universale del passo), che rende il testo profetico un testo in cui si accentua l’opera di liberazione e l’universalità di questa liberazione.
Dopo aver letto questi versetti, mentre tutti si aspettano una spiegazione esegetica del testo o una sua applicazione morale, come era prassi comune fra gli abituali predicatori della sinagoga, Gesù torna a sedere e se ne esce con un’espressione sconvolgente: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». In qualche modo cioè Gesù si attribuisce il compimento della promessa isaiana: la parola del profeta si compie con la sua venuta!

Gesù perciò, di sé, sta dicendo: di essere colmo dello Spirito del Signore («Lo Spirito del Signore è su di me»; elemento già presentato in Lc 4,1 «Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano e, sotto l’azione dello Spirito, andò nel deserto») e di essere l’eletto (l’unto) del Signore («mi ha consacrato con l’unzione»).
“Eletto” in vista di cosa? Per «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione», «ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi», «proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù sta allora proponendosi al suo popolo con una pretesa straordinaria… e con un’idea ben precisa del “mondo come Dio lo vuole”. Non a caso il compimento della profezia di Isaia che si compie con la sua venuta, coincide con quello che Marco e Matteo chiamano “la venuta del Regno”. Il Regno di Dio è precisamente questo: che ci sia una buona notizia per i poveri, la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, la libertà per gli oppressi, un anno di grazia del Signore… Tant’è che a Giovanni in prigione, dubbioso sul fatto che Gesù fosse davvero il messia («Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”», Mt 11,2-3), Gesù risponde raccontando ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,5-6).
Il Regno di Dio dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni).
Ed è interessante che nel raccontare gli inizi della vita pubblica di Gesù, tutti gli evangelisti mettano in atto – ognuno a suo modo – uno strumentario specifico per dire che questo personaggio che è apparso sulla scena, è portatore di un messaggio incontrovertibile, univoco, chiaro: sia il passo di Isaia citato da Luca, sia l’episodio di Cana di Giovanni (II domenica del tempo ordinario), sia l’annuncio del Regno di Marco e Matteo, dicono che il compimento delle scritture, l’uomo nuovo come lo pensa Dio, il suo Regno che viene, coincide con la Vita per l’uomo. Questo è Dio!
Ma allora – torniamo a chiederci – perché i poveri continuano ad essere poveri? Anzi, sempre più poveri? Perché i prigionieri restano imprigionati? I ciechi, ciechi? Gli oppressi, oppressi? Anche questo, sia a livello macroscopico che microscopico…
Certo c’è di mezzo la libertà dell’uomo, il suo chiudersi alla proposta affascinante ma tremenda di Gesù della vita che trova Vita solo donandosi… Ma possiamo davvero ridurre – com’era in passato – l’interpretazione del reale, all’esaltazione di Dio per ciò che è buono e alla condanna dell’uomo per ciò che non lo è? Come se ciò che di buono faccio, fosse sempre e solo merito di Dio, mentre ciò che faccio di cattivo fosse sempre e solo colpa mia?
Forse il coinvolgimento delle reciproche libertà assume i contorni di un gioco un po’ più complesso, non banalizzabile…
Un gioco che diventa un po’ più chiaro se si prova a scavare – senza false riverenze – nel mistero che soggiace a questa autodichiarazione di Gesù e alla realtà del mondo che abbiamo davanti. Più radicalmente infatti la domanda è: Perché Gesù, che di fatto ha vissuto così come si è autoproclamato, non ha guarito tutti i ciechi, liberato tutti gli oppressi, ecc…? Perché non ha poi continuato a farlo “automaticamente” con tutti i nuovi nati da donna? Perché non ci ha consegnato un mondo senza poveri, senza prigionieri, senza ciechi, senza oppressi? Se la profezia di Isaia è giunta a compimento in Lui, perché la storia non è cambiata? Gesù forse si sbagliava sul suo conto?
Ecco la domanda radicale…
Eppure se rileggessimo le domande appena poste, chiedendoci nel frattempo quale idea di Dio gli soggiaccia, quale immagine di Salvatore, ci accorgeremmo di entrare immediatamente in conflitto con il volto di Dio e l’immagine di sé che Gesù rivela lungo la sua storia. Per guarire tutti i ciechi, liberare tutti gli oppressi, ecc… Gesù avrebbe infatti dovuto trascendere la fisicità storica in cui, incarnandosi, aveva scelto di vivere (avrebbe dovuto smettere di essere uomo); per continuare “automaticamente” gli stessi miracoli con tutti i successivi nati da donna, avrebbe dovuto saltare la relazione con la libertà umana (avrebbe cioè dovuto smettere di essere colui che crea e pensa l’uomo come l’interlocutore serio della sua vita, ricollocandolo tra le creature determinate solo dalla necessità); per consegnarci un mondo senza poveri, prigionieri, ecc… avrebbe dovuto impedire all’uomo di farsi nella storia (avrebbe cioè dovuto smettere di essere il Dio che non si impone); e così via…
Il punto cioè pare essere quello per cui noi spesso abbiamo un’interpretazione un po’ troppo affrettata e riduttiva di quello che è il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato: stando alla citazione di Is 61,1-2, forse un po’ troppo frettolosamente noi diciamo – o diamo per scontato – che Dio è il Dio dei poveri, degli oppressi, dei ciechi, dei prigionieri… Come se Dio fosse una cosa (e immediatamente il nostro pensiero irriflesso va all’immagine “classica” di Dio: onnipotente, infinito, anonimo…) e poi – poiché è buono (come se questa bontà fosse solo una sua qualità che si aggiunge alle altre) – fa cose buone (aiuta i poveri, ecc…). Invece, molto più radicalmente, Dio è colui che fin nelle fibre più intime di se stesso è amore che si dona: non è che Dio è colui che fa il buono, Dio è buono; Dio non è colui che ci lascia un po’ liberi, ma è colui che radicalmente scommette sulla libertà umana, sulla sua storia, sul suo farsi…
Il nostro rischio invece è quello di considerarlo in modo apriorico come il Dio della metafisica greca, a cui poi appiccichiamo qualche nostra buona intenzione, qualche idea riciclata da quello che nell’immaginario collettivo è “il buon Dio”, e che poi rimproveriamo perché non ha saputo gestire bene attributi metafisici greci e attributi misericordiosi romantici…
Ma Dio è Altro da tutto ciò, è radicalmente altro: Lui non fa le cose, lui è Colui che è, è Colui che porta un lieto annuncio ai poveri… ma non perché queste sono “cose carine” che ogni tanto è bello fare, ma perché è Lui che è così; e dietro alle esemplificazioni di Isaia appare il volto del Dio che radicalmente, dalle origini e per sempre, è il Dio della Vita degli uomini. Ma essere il Dio della Vita degli uomini, implica precisamente esserlo, sempre e in modo radicale: rispettandone la libertà, parlandogli nell’intimità, custodendone la storicità… che sono tutte cose che precisamente si compiono in Gesù di Nazaret: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

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