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venerdì 15 gennaio 2010

L’anticipo della grazia

È iniziato ormai il tempo ordinario del ciclo liturgico, ma come domenica scorsa per il Battesimo (dom. 1), anche oggi per le nozze di Cana (dom 2), l’antica tradizione ritiene che la manifestazione (o Epifania) di Gesù come Salvatore, non sia ancora completa, senza riascoltare questo “inizio dei segni compiuti da Gesù”. Perché qui nasce la fede dei discepoli. Nel battesimo è il Padre che abilita Gesù come Messia e si compiace di Lui,vedendo già il sacrificio della vita, adombrato nella sua immersione nel peccato del mondo. Nella nozze di Cana è la Madre che, mentre partecipa al matrimonio di due amici che l’avevano invitata, rende consapevole Gesù (lo con/vince) che prima c’è la vita, pur fragilissima e incapace di salvezza propria: è un bene penultimo, ma non può aspettare! Dunque, soltanto dopo e dentro di essa – la vita! – mentre la si vive, c’è l’ora dello svuotamento di tutto per il dono di sé al Padre (il bene ultimo!). Con l’evento del Battesimo si è aperta una breccia nello stesso mistero interelazionale trinitario (come appare dalla voce compiaciuta del Padre e dalla presenza in apparenza corporea dello Spirito – dicevamo domenica scorsa.). Con il matrimonio di Cana, si riapre il dono dell’immagine di Dio nell’uomo duale, offuscata dalla polvere della storia e dalla durezza di cuore dell’uomo. Maria indica a Gesù la necessità di ridonare alla vita umana, nella sua fonte sorgiva – l’unione tra uomo e donna! – il vino del senso e della speranza per il nostro cantiere antropologico. Il quale, pur nella fragilità e consunzione interna d’orizzonti, rimane ricco di un senso suo inalienabile, che il peccato e il suo rimedio finale, che è la croce per amore, non possono né devono cancellare o oscurare! L’amore che lì dobbiamo imparare è indistruttibile!

Non è tanto importante il prodigio
, dunque, quanto il significato suo profondo, fondamentale per interpretare ogni altro segno di Gesù. Per questo rimane fonte della fede di ogni suo discepolo (da quel momento i discepoli credettero in lui!). Nella drammatica inadeguatezza della vita umana a risolvere i propri problemi, non è il deprezzamento dispettoso o la fuga spiritualistica, o il barricarsi in qualche nicchia protetta … la soluzione. Maria, con attenzione materna intelligente e premurosa, semplicemente denuncia una situazione che vede l’uomo in difficoltà: “non hanno più vino!” Una preghiera incessante, come la storia dell’uomo: non hanno più pane – non hanno più pace – non hanno più… vita – né speranza (penso oggi agli innumerevoli morti ad Haiti, in pochi secondi di terremoto – e, ancor peggio, all’abisso di dolore e smarrimento negli occhi e nel cuore dei sopravvissuti! Non hanno più speranza!). La vita sembrava aver promesso la sua festa, ad ogni pranzo nuziale, come ad ogni nascita di un bimbo nuovo al mondo, con tanti invitati, tanta gioiosa partecipazione e tanti desideri! Ma le nostre feste sono brevi e non finiscono bene – viene a mancare il vino, perché si consuma sempre prima che finisca la sete della gente. Il disagio non sfugge alla donna (madre), attenta e interessata al bene di chi ha attorno, e quindi ricorre con piena fiducia a Gesù. E qui si manifesta la qualità sorprendente dello schieramento interiore dei due protagonisti di questo intervento che segna per sempre la dinamica sorgiva della fede cristiana. Perché apre una breccia sul cuore della messianicità di Gesù, come a ricalibrarne la comprensione della sua missione storica e quindi della nostra fede in lui. Come se Maria e Gesù si assumessero la difesa e la testimonianza simbolica delle due polarità che innescano la scintilla della nostra fede. Dalla parte di Maria, a nostra difesa, la fedeltà al mondo di qua e alle sue istanze esistenziali – come il vino alla festa! – che intessono il nostro precario quotidiano (tutto il mistero del Natale secondo Luca è centrato sul segno: la Madre col bambino – Dio inserito nel futuro più fragile fragile di questa umanità – nelle necessità concrete della casa, del latte, dell’acqua, del lavoro, dell’accudimento quotidiano, con tutte le sue piccole cose necessarie!). E, dall’altra parte, la missione profetica di Gesù, protesa nell’appassionata incombenza dell’ora “unica”, in cui il figlio dell’uomo, assumendo questa dolorosa precarietà ontologica e morale dell’uomo, la salva dall’interno con il dono totale di sé.
Alla richiesta della mamma, Gesù si schermisce: che vuoi da me, donna? non è ancora giunta la mia ora! Nella fede “cristiana” non si può anticipare l’ora della manifestazione finale. È l’ora riservata al Padre! L’epifania scandalosa e dirompente del crocifisso glorioso, che sarà il vero miracolo, il vero segno globale della salvezza del mondo, venuta all’umanità per mezzo del dono della sua vita,(ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!). Ogni altro segno prodigioso rischia di oscurare questo segno definitivo e distrarre pericolosamente l’attenzione dei discepoli e del popolo.
Maria sa tutto questo! Intuisce nel mistero del figlio che il vero scopo “ultimo” – sovrastante e soggiacente ad ogni respiro della vita di Gesù – è questa consegna drammatica di sé al Padre, ma sa anche che la gente deve vivere, che le nostre precarie e banali cose penultime sono la sostanza della nostra vita, dove lo spazio e il tempo non sono soltanto i nastri trasportatori del nostro cammino nella storia, ma costituiscono le dimensioni vitali che ci permettono di costruire noi stessi, istante per istante, nelle “cose” banali e quotidiane che fanno lo spessore dell’esistenza ai vari livelli, fisico, organico, psichico, spirituale. Non possiamo vivere altrimenti … anche se sappiamo che questo rischia di stordirci e frastornarci dall’essenziale, che è ormai tra noi, carne della nostra carne, segno vivo del Regno di Dio, che ci chiama a conversione. Gesù lo ricorda con sgomento, come rischio interno alla sua missione: Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio … Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà … Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva… (Lc 17,26)
La presenza di Gesù Cristo e del suo vangelo non sono solo un seme piccolo che germoglia nel nostro campo e diventa un albero… ma anche una spada a doppio taglio che si insinua tra le ossa e il midollo della nostra esistenza e ne mette a nudo la precarietà: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio” (20,34). Sarà in nome di queste auto identificazione messianica che Gesù non aveva pensavo di intervenire?... la sua presenza e il suo annuncio sono di una qualità eversiva rispetto alle vicende umane e alla loro qualità intramondana, precaria, chiusa nelle strettoie del tempo e dello spazio che si consumano…
Eppure – dice Maria! – non c’è altro mondo dove fuggire. È questa la nostra vita! E proprio nel matrimonio sta la promessa e la sfida più forte al futuro dell’umanità… sintetizzata nell’incontro uomo/donna. Perché nel rapporto duale non risiede solo la spinta vitale per la riproduzione biologica dell’umanità, ma la risorsa primaria di elaborazione della compiutezza umana – strutturalmente dialogica.

Ecco che “l’ora” del Figlio dell’uomo è come anticipata, per intercessione di Maria
, non nel suo calendario cronologico, ma nei suoi frutti salvifici per la condizione umana, come tante volte avverrà poi nei vangeli. Il vino finale della grazia è come anticipato, in assaggio, a sostenere la nostra fede nella storia.. Sorprendente che già nei testi canonici così antichi, sia tanto profonda ed esplicita la consapevolezza dell’interposizione di Maria tra noi e il figlio. Alle radici della fede cristiana, Maria si è posta in mezzo, perché a questa è stata abilitata all’Annunciazione : a dare il suo spazio e tempo umano, elaborarne la carne ed educarne la coscienza di figlio d’uomo, nel figlio di Dio – nei figli di Dio. La premura e l’accudimento della realtà terrena è nata nelle sue viscere materne e le ha contagiato inguaribilmente il cuore. È divenuta la sua seconda natura in una maternità che avvolge ogni essere umano. Questa tenerezza solerte, accolta ed esaudita dal figlio, nostro salvatore, è diventata maternità teologale. Cioè componente essenziale della nostra fede. Questa tenerezza attenta e intelligente non riguarda direttamente il fine ultimo… riguarda le piccole gioie e speranze, i contrattempi e i dolori, i lutti e i natali, che accompagnano il destino dell’uomo. C’è come un recupero a livello specificamente teologale ed ecclesiale della mondanità – dell’umile insostituibile mediazione delle “nostre” cose penultime, che le rende capaci, nella loro materialità storica, di essere sacramento alla “cosa ultima” – che è imparare e crescere nell’amore che non avrà fine. È lei che suggerisce anche il criterio luminoso per gestire questa nostra storia difficile: “ciò che vi dice di fare, fatelo!”

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