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venerdì 5 febbraio 2010

Il percorso dei discepoli: di ieri e di oggi

Le letture che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica del tempo ordinario sono tutte e tre molto ricche e decisamente interessanti. Non potendole però approfondire tutte in maniera adeguata, non resta che concentrarsi su una in particolare (il vangelo), ma non senza aver prima notato come in ognuna sia ripercorso in qualche modo il medesimo schema:
- c’è (o c’è stato) un incontro col Signore (la teofania di Isaia: «Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio»; l’apparizione a San Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me»; e l’incontro con Simone: «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra»);
- un prendere coscienza della propria inadeguatezza – di fronte a questo incontro – da parte dell’uomo (Isaia dice: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»; Paolo si autodefinisce un “aborto”; e Pietro vedendo quanto fatto da Gesù gli «si getta alle ginocchia, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”»);
- una conferma del Signore (per Isaia, quanto narrato ai versetti 6-7 del capitolo 6: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”»; per Paolo la consapevolezza che «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono»; per Pietro, la parola che il Signore gli rivolge: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»);
- e infine l’accettazione della relazione col Signore (Isaia: «Eccomi, manda me!»; Paolo: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo»; Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» / «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»).


Lo schema che così viene a comporsi – proprio per il fatto che attraversa tutte le scritture sia antico che neotestamentarie – diviene in qualche modo l’indicazione del percorso di ogni discepolato, di ogni relazione con Dio. Per tutti infatti – anche per ciascuno di noi – c’è un incontro col Signore, un venire a sapere di Lui, un imbattersi nella sua parola o nella sua vicenda; un non sentirsi all’altezza; un ritrovare una conferma del proprio esistere; uno sbilanciarsi per acconsentire ad una donazione che diventa radicale, totale, totalizzante…
Il problema è che forse spesso questi momenti (questi passaggi) nella vita reale vanno al di là di ogni possibile schematizzazione, per cui può capitare di vivere insieme alcune di queste fasi o prolungarne altre, o riviverle più volte… col rischio di non saperle ben riconoscere o – peggio – di fossilizzarsi su una di esse, mentre invece è nella loro coralità che tratteggiano il percorso compiuto del discepolo.
Innanzitutto la domanda che a noi può sorgere è quella dell’incontro con Dio… Pietro ha incontrato Gesù sulle rive del lago Gennèsaret, a Paolo è apparso il Signore risorto, Isaia ha addirittura vissuto una teofania… ma a noi? Niente di tutto questo: nessun evento di questo tipo… E allora la domanda nasce spontanea: Davvero ho incontrato il Signore? Non è stata una mia autosuggestione? Non mi ha semplicemente fatto piacere crederlo? Si può davvero incontrare il Signore?
A tutte queste domande mi sembra pertinente rispondere con le parole di un grande biblista dei nostri giorni, don Roberto Vignolo, il quale in un suo libro (Personaggi del quarto vangelo), parlando di un grande assente, Tommaso – assente almeno quanto noi – che però pretenderà e otterrà – a differenza nostra – di vedere per credere, scrive così: «In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso [noi potremmo dire: Isaia, Paolo, Pietro] alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo non penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di Gv 20,29 [«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»] […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. [Piuttosto] una risposta può venire considerando come Giovanni, collocando un macarismo ad epilogo del suo Libro, recuperi abilmente la tradizione per cui un libro, in quanto condensa un patrimonio di esperienza vissuta e funge da strumento di comunicazione tra le generazioni, va considerato come una vera e propria fortuna. […] La fortuna dei lettori/uditori non contemporanei non starà nel contenuto quantitativo del Libro, che è materialmente parziale e più limitato rispetto all’evento. […] Ma questa forma della fede si rivela tuttavia a propria volta singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1/ è fede necessariamente ancorata alla mediazione kerygmatico-testimoniale, che cioè dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. […] Per tutte le generazioni successive a quella dei testi oculari la gerarchia che prevede il primato della parola nella fondazione della fede non si limita più ad un’affermazione di principio, ma diventa una necessità, un a priori di fatto, che trova nella forma dei “segni scritti” l’adeguata mediazione per la fede che “non vede”. 2/ Questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. [Infatti] mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede)». Dunque alla domanda “Si può davvero oggi incontrare il Signore?” i testi neotestamentari rispondono risolutamente di sì, anzi in maniera ancora più “beata”/fortunata/facilitata che i testimoni oculari.
Il cammino del discepolato quindi non trova oggi un’interruzione in partenza, per il fatto che oggi visioni, teofanie o rivelazioni particolari sembrino essere assenti dal palcoscenico della storia. Anzi, il fondamento per tale percorso sembra essere quello del primato della Parola… Il cammino di relazione col Signore nasce infatti dal nostro imbatterci in quella sua Parola, in quella sua iniziativa libera e gratuita di farsi incontrare, di farsi conoscere, di farsi prossimo… L’iniziativa dunque è sua… e per questo è per tutti: perché non è da conquistare, ma è donata!
Certo è che di fronte a tale donazione l’uomo si sente inadeguato, non all’altezza, non degno, nelle forme più svariate: “Per me capire la Parola di Dio è troppo difficile”, “Viverla poi…”, “Io sono troppo giovane”, “Io troppo vecchio”, “Io troppo peccatore”, “Io troppo imbranato”… Ma spesso non ci si rende conto che dietro a queste nostre obiezioni – pur vere da un certo punto di vista – in realtà si nasconde un frustrato desiderio di onnipotenza, che si presenta sotto il suo contrario: la rassegnazione. Siccome non posso essere dio, siccome non posso essere l’uomo/la donna ideale che ho in testa, siccome non posso essere il discepolo ideale, allora mi tiro indietro, mi tiro fuori da questo circolo, me ne sto per i fatti miei (e che gli altri vedano che me ne vado!)… O tutto o niente, o perfetto o distrutto, o dio o nulla… Questo è l’uomo… Questi siamo noi… quando cadiamo nella falsa illusione che essere amati voglia dire essere amabili! E siccome ci consideriamo non amabili, non crediamo sia possibile essere amati…
E invece ecco la riconferma del Signore, presente – come visto – in tutte e tre le letture… L’elemento forse più difficile di tutto il percorso del discepolato: riconoscersi amati/graziati/perdonati. All’uomo che non si sente amabile, che non si perdona la sua inadeguatezza e per questo vorrebbe andarsene, sparire, magari orchestrando una sceneggiata che almeno per un momento lo rimetta al centro dell’attenzione, Dio risponde con l’inaspettato sguardo di chi problemi per la nostra inadeguatezza proprio non se ne fa… Anzi… ci si era fatto prossimo quando noi eravamo ancora inconsapevoli della nostra inadeguatezza… e Lui l’aveva già contemplata, accettata, amata… (forse ne aveva anche maternamente sorriso).
È solo dentro a questo orizzonte che prende senso il decider-si del discepolo: solo in questo abbraccio che “tutto-accoglie” si può arrivare (anzi si deve arrivare) a dire: «Eccomi, manda me!», si deve arrivare cioè a giocarsi la vita…
Purtroppo invece a noi capita molto più spesso di non dar credito a questo orizzonte e di arenarci in qualcuno di questi momenti e non venirne fuori più: perché non crediamo sia possibile oggi un farsi prossimo del Signore, oppure perché troppo velocemente arriviamo a sentirci perdonati (nel giusto), senza passare dal rendersi conto purificatore che “Io non sono dio!”, oppure perché non crediamo nell’amore altrui che va ben al di là della nostra amabilità, oppure perché in ogni caso ci fa troppa paura dire «Eccomi, manda me!»…
In ogni caso, dietro ad ogni nostra interruzione sta sempre un’errata considerazione di chi sia Dio e dunque di chi sia l’uomo.

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