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sabato 2 aprile 2011

IV Domenica di Quaresima: Chi è Gesù?

Il lungo vangelo che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima, lascia poco spazio nel foglio per sviluppare una riflessione. “E per fortuna!”, dirà qualcuno… Ma anche noi! Grati che, ogni tanto, la Parola si imponga sulle nostre parole e – come diceva Clemente Maria Rebora – le zittisca: «La Parola zittì chiacchiere mie»!


Ci limitiamo dunque a mettere in luce un unico profilo di questo testo, tra i tanti che offre. E scegliamo quello dell’identità di Gesù, perché raramente nel vangelo, troviamo brani così densi di “titoli” (positivi e negativi) che gli vengono attribuiti o che egli stesso si attribuisce, come quello di questa domenica. Potremmo infatti quasi dire che, tra le molte tematiche che questo brano intercetta, di certo, su tutte, spicca quella cristologica: esso sembra infatti costruito per rispondere alla domanda “Chi è Gesù?”. Una domanda, tra l’altro, che per come è costruito il discorso, non si propone in termini filosofico-metafisici – dunque riservati agli specialisti del mestiere – ma piuttosto in una trama coinvolgente, che trascina nel suo andirivieni concentrico (ma un concentrico “a spirale”, che cioè va sempre più in profondità) il lettore stesso. È lui che – dentro alla complessa dinamica in cui è raccontato lo scontro teologico sull’identità di Gesù (che sarà ciò che lo porterà a morire) – dovrà dare la sua risposta.

Veniamo dunque al testo…
Esso si apre con una domanda che i discepoli – vedendo «un uomo cieco dalla nascita» – pongono a Gesù: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».

Rabbì è dunque il primo modo in cui nel testo viene nominato Gesù: maestro.

Un titolo a cui se ne affianca però subito un altro, contenuto nelle stesse parole di risposta di Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Sono la luce del mondo è quindi ciò che Gesù dice di sé, il modo in cui, in questa prima parte del testo, si autodefinisce. Mentre quindi Gesù, rispondendo ai suoi, corregge la loro teologia (cioè il loro modo di pensare al male del cieco nato come legato ad un peccato suo o dei suoi genitori di cui la cecità sarebbe appunto la punizione… e lo fa mettendo immediatamente in relazione il cieco a Dio e non al peccato!), coglie anche l’occasione per dare un orientamento sulla sua identità: certo è un maestro, un rabbì… ma un maestro diverso da tutti gli altri: egli è infatti la luce del mondo, mandata da Dio.

Ma il brano prosegue, perché dopo la guarigione del cieco inizia la diatriba vera e propria sull’identità di Gesù. Perché il cieco, interrogato su come gli fossero «stati aperti gli occhi», risponde anche lui dando un “titolo” a Gesù. Lo nomina infatti: «l’uomo che si chiama Gesù». Il cieco parte quindi dall’evidenza immediata. È stato un uomo a guarirlo, un uomo di nome Gesù.

Ma i farisei lo incalzano, scettici sui fatti e sulla loro interpretazione. Anch’essi infatti dicono la loro sull’identità di Gesù: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Per loro dunque Gesù è un uomo che non viene da Dio.

Ma non son tutti d’accordo. Qualcuno infatti commenta: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». Per questi altri cioè Gesù non può essere un peccatore… deve in qualche modo “venire da Dio” per compiere segni di quel tipo.

«C’era [dunque] dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». Il nostro cieco ha fatto un passettino ulteriore… la domanda è sempre la stessa (la scena gira infatti continuamente intorno ad essa e la ripropone in continuazione), ma stavolta rispetto alla prima risposta, si va più in profondità: non è riportata solo l’evidenza immediata (l’uomo che si chiama Gesù), ma a partire da essa si fa un passettino ulteriore: mi ha aperto gli occhi, non può essere che un profeta, cioè uno che ha Dio dalla sua parte, non un peccatore!

Ma è proprio su questa interpretazione che i farisei “sbottano”: non può essere un uomo di Dio e tradire il riposo del sabato (vorrebbe dire che per Dio l’osservanza del sabato, cioè della legge non è il riferimento ultimo… quello su cui loro – farisei – hanno impostato tutta la loro vita…). E perciò urlano al cieco: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». In mancanza di ragioni convincenti, ecco che scatta la violenza: è un peccatore, «Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».

Ma qui il cieco si fa raffinato, convinto ormai dalla reazione aggressiva degli altri, di averli messi in scacco: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Per il cieco dunque Gesù non solo è l’uomo che gli ha aperto gli occhi, non solo è un profeta, ma diventa uno che onora Dio e fa la sua volontà, uno che viene da Dio.

Tutto il problema legato all’identità di Gesù sembra così in qualche modo legato alla sua provenienza: viene da Dio o no?

Ma il brano non è ancora finito, perché nel finale presenta un’altra scena rivelativa. Gesù e il cieco si rincontrano dopo che quest’ultimo è stato cacciato dalla sinagoga e nel dialogo che intraprendono, emergono altri due titoli: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

Dunque Figlio dell’uomo e Signore, titoli, entrambi molto forti (anche figlio dell’uomo, che a differenza di quanto si può pensare non indica un’audesignazione umile da parte di Gesù, ma fa riferimento a tutto un mondo antico testamentario e ad un’appropriazione personale che rimandano all’eletto/inviato da Dio): è il riconoscimento finale del fatto che alla domanda “Da dove viene Gesù?”, il cieco (e Gesù stesso) dice “Da Dio”. È il riconoscimento finale sull’identità di Gesù. Come se l’evangelista nell’avvicinarsi della sua narrazione alla Pasqua, sentisse il bisogno di dire: stiamo parlando di questo, del Messia che viene da Dio, cioè di cose serie, di cose determinanti la vita.

Ecco perché a metà Quaresima, nella cosiddetta domenica laetare (quella che fa pendant con la domenica gaudere dell’Avvento – un tempo accomunata all’altra dal fatto di essere le uniche due domeniche in cui i paramenti liturgici erano rosa), quella che in qualche modo vuole porre una “pausa” nei toni concentrati della Quaresima per dare un po’ di lietezza ai fedeli, la Chiesa ci invita a fare una “pausa” per ricordarci che tutti gli sforzi di preparazione a questa Pasqua non sono fini a se stessi o marginali alla vita: il centro, ciò che c’è in questione, ciò su cui bisogna che ci concentriamo in questo tempo speciale è Gesù, il Figlio dell’uomo, cioè il Signore mandato da Dio. Di questo stiamo parlando!

Allora sarebbe bello, come avevamo suggerito per le beatitudini, fare anche noi una pausa e dare la nostra risposta alla domanda “Da dove viene Gesù?”, cioè “Chi è?”, provando a farlo anche noi come il cieco: non nei termini metafisici-filosofici degli addetti ai lavori, ma a partire da quella che è l’esperienza del nostro incontro con lui. E da lì ripensare noi stessi e la nostra vita, perché: «la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa» [Giuliano].

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