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martedì 10 gennaio 2012

II Domenica del Tempo Ordinario

Domenica scorsa abbiamo celebrato la festa del Battesimo del Signore: essa concludeva il Tempo di Natale e inaugurava il Tempo Ordinario; non a caso il vangelo faceva riferimento al primo atto della vita pubblica di Gesù, il Battesimo al Giordano, appunto.

Si è trattato dunque di una “domenica ponte”.

Questa settimana, invece, a tutti gli effetti inizia il Tempo Ordinario. In questa prospettiva mi sembra interessante che tutte e tre le letture narrino l’“inizio” di qualche storia: quella di Samuele, quella della comunità cristiana di Corinto, quella di Gesù e dei suoi discepoli.

Come a dire che ciò su cui è ora necessario sintonizzarsi è l’inizio, gli inizi: quelli originari della nostra vita, della nostra fede, delle nostre relazioni, delle nostre scelte, ma anche quelli congiunturali, quotidiani… i nuovi inizi a cui siamo sempre in qualche modo chiamati dalla storia, perché le situazioni cambiano, gli amici partono, i fratelli muoiono…

In questo senso la coincidenza con il ricominciamento dell’anno sociale, la riapertura delle scuole, la prima settimana del 2012 senza nessun giorno festivo a parte la domenica, è un’ulteriore convergenza verso questo invito a soffermarsi sull’iniziare o il ri-iniziare.

E allora veniamo alle tre storie che ci raccontano le letture, non tanto o non solo mettendoci alla ricerca di suggerimenti e indicazioni che possano orientare i nostri inizi, ma provando ad immedesimarci in esse, come suggerisce in un bellissimo testo uno dei teologi più importanti del XX secolo, H.U. Von Balthasar:
«Noi siamo assillati dalla vita e stanchi e ci guardiamo introno se c’è un luogo di tranquillità, di autenticità, di ristoro. Vorremmo riposarci in Dio, lasciarci cadere in lui, per avere da lui forze nuove ad andare avanti. Ma non lo cerchiamo là dove ci aspetta, dove è da noi raggiungibile: nel Figlio suo che è il suo Verbo. Oppure noi cerchiamo Dio perché avremmo mille cose da chiedergli senza di cui ci sembra di non poter più continuare a vivere, lo aggrediamo con problemi, vorremmo poter sapere, chiarire, alleggerire, e dimentichiamo, in tutto ciò, che egli ci ha risolto nella sua Parola ogni questione, ci ha fornito ogni informazione per noi comprensibile in questa vita. Noi non tendiamo l’orecchio verso il punto dove Dio parla: dove la sua Parola ha risuonato nel mondo in modo così unico e definitivo che vale per tutti i tempi e tutti i tempi non saranno in grado di esaurirla. Oppure noi pensiamo che la parola di Dio ha cessato ormai da tanto tempo di echeggiare sulla terra da essere già quasi logora; una parola nuova dovrebbe essere in arrivo, ne avremmo bene il diritto. E non badiamo che siamo noi, noi soli, i logori, gli alienati, mentre la Parola è viva e sorgiva come prima e a noi vicina come sempre: “Vicina a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore” (Rm 10,8). Non comprendiamo che, quando la parola di Dio risuona per una volta nel centro del mondo, nella pienezza dei tempi, si impone con tanta forza che tutti essa intende e interpella, e tutti in modo egualmente immediato, e nessuno è svantaggiato da distanze di spazio o di tempo. Vero è che certuni sono stati partner del dialogo terreno di Gesù, e noi abbiamo invidia di questa loro fortuna, ma essi si sono comportati in questo dialogo con la stessa goffaggine maldestra con cui ci saremmo comportati noi e chiunque altro; come uditori e interlocutori di ciò che Gesù realmente intendeva, essi non hanno inteso nulla in anticipo rispetto a noi, al contrario, la vista dell’apparenza esterna della Parola nascose ad essi per gran parte il suo lato interiore, divino. “Beati quelli che non vedono e tuttavia credono”, e che credono più facilmente perché non vedono. Anche i discepoli compresero la Parola in ciò che davvero intendeva soltanto dopo la risurrezione ed anche allora molti dubitarono e si mostrarono ottusi: veramente essi capirono solo dopo l’ascensione, nella pentecoste, quando lo Spirito penetrato in essi spiegò loro ciò che il Figlio aveva lasciato inciso nella memoria. Questi partner terreni di Gesù non erano decisamente delle persone speciali. Casualmente si sono trovati ad essere dove anche altri avrebbero potuto stare, o meglio, dove ogni altro realmente sta. Nella samaritana alla fontana Gesù si rivolge certo a questa singola donna, ma anche al tempo stesso a ogni peccatrice, a ogni peccatore. Non per una persona sola Gesù si è seduto stanco all’orlo della fontana: quaerens me sedisti lassus! Non è dunque soltanto un “esercizio pio” se io mi metto al posto di questa donna e recito la sua parte: non solo la posso recitare, la devo recitare questa parte, anzi io sono da lungo tempo coinvolto in questo dialogo senza che me ne sia stato chiesto il permesso. Sono io questa anima sconvolta che esce ogni giorno ad attingere l’acqua terrena perché non sa più nulla dell’acqua celeste che ella va in realtà cercando. […] È dunque troppo poco vedere negli incontri e colloqui del Vangelo soltanto “esempi”, allo stesso modo che, poniamo, un’opera epica presenta esempi di coraggio, ad imitare i quali si sente incitato il ragazzo che legge. Giacché la Parola, che là si è fatta carne per poter parlare con noi, intende in ogni singola volta ogni reale singola volta, intende in ogni peccatore che si converte ogni peccatore, in ogni ascoltatore che è seduto ai suoi piedi ogni ascoltatore» [H.U. Von Balthasar, Nella preghiera di Dio, Jaka Book, Milano 1983, 13-14].

In questi due primi discepoli che vedono Giovanni Battista fissare gli occhi su Gesù e dire “Ecco l’agnello di Dio”, c’è dunque ognuno di noi.

La scelta di questi due – a fronte di questa indicazione, dell’indicazione del loro maestro, così libero da farli andare dietro ad un altro – è quella di seguire Gesù e sentirsi chiedere “Che cosa cercate?”.

Sono le prime parole che l’evangelista Giovanni mette in bocca a Gesù nel suo vangelo: “Che cosa cercate?”.

Noi che cosa cerchiamo? Perché se è vero quanto diceva Balthasar, questa domanda di Gesù non è solo per quei due, ma è rivolta a ciascuno di noi.

Certo, è una domanda che ci siamo indubbiamente già posti chissà quante altre volte in vita… e che tuttavia è sempre necessario far riemergere: Che cosa cercate? Chi cerchiamo di più nella vita? E perché?

«Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio». L’ora decima.

E noi? Siamo andati a vedere? E cosa abbiamo visto? Anche noi ci ricordiamo le nostre “ore decime”, le pietre miliari che hanno segnato il nostro itinerario fino a qui?

Io credo che all’alba di un nuovo inizio sia indispensabile fare memoria della nostra ora decima; ri-accedere a quello squarcio del cuore che il Signore, passando, ci ha lasciato, incandescente – come quello di Isaia, quando il serafino gli mise un carbone ardente sulle labbra –, e che ancora ci fa fremere quando lo guardiamo; credo sia indispensabile tornare a guardare a quell’entusiasmo tenero e ingenuo (eppure così “più vero” dei nostri cervellotici e sterili e tristi ragionamenti prudenti e compromissori) che l’inizio della storia di Samuele nella prima lettura dipinge così bene…

Per tornare anche noi ad andare e a vedere e a rimanere con Lui e a raccontare con le lacrime agli occhi «Abbiamo trovato il Messia».



E poi c’è la seconda lettura, che se si riuscisse a leggere senza una pre-comprensione moralista o sessuofoba (che ce lo renderebbe antipatico), svela tutta la sua grandezza e bellezza: a una comunità al suo inizio, Paolo ricorda che ciò che avviene nel nostro corpo si scrive dentro al nostro cuore (come le terribili storie di violenza sulle donne e sui bambini o sui deboli in generale troppo spesso ci hanno testimoniato, vedendo quanto li hanno segnati in profondità). E allora Paolo dice “Cercate di non fare pasticci”, perché l’amore nel corpo, che è la cosa più bella in vita ed è la più bella perché è quella che raggiunge di più la profondità di ciò che siamo (addirittura è il luogo privilegiato dell’incontro col Signore: «il Signore è per il corpo» / «Chi si unisce al Signore [nel corpo = chi fa l’amore con lui – non a caso appena prima, nella parte di versetto omesso, si cita il fare l’amore con la prostituta] forma con lui un solo spirito»), proprio per la sua potenzialità inarrivabile da qualunque altro esercizio umano, se usata male (per il male) fa male più di qualsiasi altro esercizio umano. Ecco cosa intendeva giustamente la Chiesa quando suggeriva che qui dentro c’era una materia grave, cioè pesante, seria, a rischio di dolorosità potente.

Io credo che su questo si dovrebbe fondare il tentativo degli adulti di “educare” i piccoli: il corpo è il massimo della possibilità d’amore agli altri e a Dio, e infatti solo quando la mano di un altro / di un’altra (che non siano nostro padre o nostra madre) ci tocca nel corpo sperimentiamo e impariamo cos’è l’amore (il medesimo cui facciamo riferimento quando lo associamo a Dio e ai fratelli)… ed è proprio per questo che il nostro corpo (e quello degli altri) va custodito e amato. Credo infatti che tanti facendo memoria delle loro “ore decime” le ricorderanno come eventi che li hanno toccati nel corpo.

2 commenti:

greg50 ha detto...

Chiara! Ti leggo da anni e mi stupisci sempre, mi apri sentieri ogni volta diversi, anche se passavano qui accanto a me. Il testo di Von Balthasar è stupefacente (mi stanno finendo gli aggettivi.....) perchè alla fine è semplice, se ci mediti un attimo non contiene nessuna “concettualità” incomprensibili ai non-teologi: non è altro, secondo me, che osservare e analizzare la nostra vita dal punto di vista di Dio, che ci ha già spiegato tutto nella Parola e che ha già messo in conto peccati, tradimenti, fughe, dimenticanze. Lui è sempre lì, dove meno te lo aspetti forse, ma dove sicuramente passi, sei passato, passerai. Un caro saluto. Greg

chia ha detto...

ciao greg,

un caro saluto a te, con l'affetto che sai. chia

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