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martedì 24 gennaio 2012

IV Domenica del Tempo Ordinario

In questa Quarta Domenica del Tempo Ordinario, entriamo nel vivo del racconto di Marco. Infatti dopo il titolo («Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio», Mc 1,1), il trittico sinottico (Battesimo di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù e Tentazioni nel deserto, Mc 1,2-13) e il prologo letto e meditato domenica scorsa (Mc 1,14-20), dal v. 21 inizia il vero e proprio racconto della storia di Gesù.

La prima serie di episodi raccontati a partire dal versetto 21, fino a Mc 3,6, hanno «come motivo ricorrente una annotazione geografica: Cafarnao e il suo lago. Anzi la prima parte (1,21-34) costituisce una “giornata” [tipo] di Gesù. […] Ed è una giornata di sabato, come si dice all’inizio e come si lascia capire alla fine (le folle aspettano il tramonto del sole, cioè la fine del riposo sabbatico, per portare a Gesù gli ammalati)» [B. Maggioni, il racconto di Marco, Cittadella Ed., Assisi 199912, 40].

La liturgia della Parola spezza questa “giornata tipo” su due domeniche, la IV e la V del Tempo Ordinario (B). Ciò di cui ci dobbiamo occupare oggi è perciò quello che accade in questa prima parte di questa “giornata tipo”, non dimenticando che essa si completerà nel brano di vangelo di domenica prossima.

Il primo atto di questa vicenda consiste nell’entrare di Gesù – di sabato – nella sinagoga di Cafarnao. Di questa “città” abbiamo già parlato la volta scorsa, perciò non mi dilungo. È interessante piuttosto soffermarsi sulle altre due annotazioni: il giorno di sabato e la sinagoga.


Il sabato è il giorno di riposo per gli ebrei, vissuto con puntuale intransigenza soprattutto dal gruppo dei farisei; è un elemento della religiosità giudaica sul quale – sappiamo – Gesù spesso si scontrerà, tentando di riportare i suoi interlocutori allo spirito autentico del precetto sabbatico, riassumibile nell’espressione: «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Ma il sabato è anche il giorno in cui gli israeliti convenivano nella sinagoga per la preghiera e per la lettura e la spiegazione della Legge. Essa era un edificio – presente non solo nei grandi centri, ma anche nelle piccole città e villaggi – che durante la settimana fungeva da scuola (per i soli bambini maschi), mentre di sabato accoglieva gli adulti per la preghiera.

Tutti i partecipanti potevano essere invitati dal presidente a insegnare, non solo gli scribi e gli anziani. Inoltre, ogni israelita poteva chiedere la parola e intervenire. Ecco perché il fatto che Gesù prendesse la parola e insegnasse nella sinagoga di Cafarnao (come riporta il nostro brano evangelico) non è un elemento anomalo. Non è per questo che i presenti si stupiscono! Come dice il testo infatti essi non erano stupiti del fatto che Gesù insegnasse, ma della modalità del suo insegnamento: «infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».

A questo punto del vangelo «a Marco non interessa dirci che cosa [Gesù] ha insegnato», ma il fatto che il suo modo di presentarsi, «diventi un problema per i presenti: che è mai questo? Ecco l’interrogativo centrale» [Maggioni].

E il punto su cui si attesta questo stupore è l’autorità con cui Gesù insegna. Autorità (in greco εξουσία, exusìa) «si potrebbe anche tradurre autorevolezza, potenza. Insomma è un po’ difficile tradurre il senso che ha in quel versetto proprio perché autorevolezza è troppo debole, potenza è fin troppo trucido, perché non è una questione di muscoli. Questo termine è usato qui per indicare l’incomparabilità del modo con cui Gesù afferma e si afferma» [P.A. Sequeri durante il Corso di Teologia Fondamentale, 2002-2003]. Un’incomparabilità che si può riconoscere citando alcuni elementi del suo affermare e affermarsi:

-          per esempio quando “si permette” di dire «vi fu detto, ma io vi dico», dove quel “vi fu detto” fa riferimento a quanto è scritto nella Bibbia. È cioè un’espressione forte, traducibile così: “Nella Bibbia c’è scritto… ma io vi dico”…

-          oppure quando in Giovanni sia autodefinisce “Io sono”, che a noi dice poco… ma che non è altro che il nome di Dio; e ad un orecchio ebraico, di certo, questo non sfuggiva;

-          oppure quando si attribuisce prerogative prettamente divine, per esempio quella di rimettere i peccati: «il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra», (Mc 2,10);

-          infine quando con gesti e parole ordina agli eventi, al male, agli stessi capi religiosi del popolo, ai demoni...

Proprio come nel nostro brano, dove – sempre nella sinagoga – Gesù libera un uomo posseduto da uno spirito impuro.

«Non è facile per noi ricostruire la realtà dell’accaduto. […] Non dobbiamo pretendere da questi racconti diagnosi mediche né dichiarazioni speculative sulla natura dei demoni. Essi riflettono piuttosto la lettura “teologica” del tempo» [Maggioni]. Ma «chi sono questi ammalati? Come possiamo cogliere in base alla nostra cultura quella peculiare esperienza [di liberazione dai demoni] che si viveva intorno a Gesù? In genere gli esegeti tendono a vedere nella “possessione diabolica” una malattia; si tratterebbe di casi di epilessia, isteria, schizofrenia o “stati alterati di coscienza” in cui l’individuo proietta in maniera drammatica su di un personaggio maligno le repressioni e conflitti che lacerano il suo mondo interiore. Oggi è indubbiamente legittimo pensare così, ma ciò che vivevano quei contadini della Galilea ha poco a che vedere con questo modello di “proiezione” di conflitti su un altro personaggio. Avviene esattamente il contrario. Secondo quella mentalità, sono loro a sentirsi invasi e posseduti da qualcuno di quegli esseri maligni che infestano il mondo; questa è la loro tragedia; il male che soffrono non è una malattia fra le altre: significa vivere assoggettati a un potere sconosciuto e irrazionale che li tormenta senza che essi possano difendersene. […] Gesù si avvicinò a quel mondo sinistro e liberò quanti vivevano tormentati dal male. Gesù somigliava ad altri esorcisti del suo tempo, ma era diverso. Probabilmente i suoi combattimenti con gli spiriti maligni non risultavano del tutto strani nei villaggi della Galilea [gli esorcismi erano di moda e la letteratura rabbinica ne parla – Maggioni], ma nel suo operato c’era qualcosa che, indubbiamente sorprendeva quanti lo osservavano da vicino. Gesù si avvicina al linguaggio e ai gesti degli esorcisti del suo tempo, ma, a quanto sembra, stabilisce con gli indemoniati una relazione assai peculiare. Non usa i mezzi utilizzati dagli esorcisti: anelli, cerchietti, amuleti, incenso, latte umano, capelli. La sua forza è lui stesso. Bastano la sua potenza e il potere della sua parola [la sua εξουσία] per imporsi. D’altra parte, a differenza della pratica generale degli esorcisti, che scongiurano i demoni in nome di qualche divinità o personaggio sacro, Gesù non prova alcuna necessità di rivelare l’origine del suo potere: non spiega in nome di chi scaccia i demoni, non pronuncia il nome magico di nessuno, né invoca alcuna forza segreta. Non ricorre nemmeno a suo Padre. Gesù affronta i demoni con la forza della sua parola: “Esci da lui”; “taci”; “non rientrare più in lui”. Tutto fa pensare che, mentre combatte i demoni, Gesù sia convinto di operare con la forza stessa di Dio» [J.A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 190-195].

«Il concetto di exusia è [quindi] il concetto di potere, sovranità, signoria, esibita da Gesù, in quella forma che fa la differenza per i suoi interlocutori, sia popolari che dotti, perché anche immaginandosi al meglio la figura di un profeta, fosse anche degli ultimi tempi, il protagonismo con il quale Gesù interviene nella sfera della Rivelazione è sorprendente, sconcertante e i vangeli lo registrano, registrando anche la conferma da parte di Gesù della percezione di questa scandalosità. Dice: “Beati quelli che non si scandalizzeranno” e “scandalizzeranno” qui vuol dire questo» [Sequeri]. Non scandalizzarsi del suo modo di affermare e affermarsi.

Intanto il vangelo testimonia che le reazioni intorno a lui sono di stupore e timore. Solo i demoni paiono cogliere davvero chi lui sia. Ma egli impone loro il silenzio. Egli infatti sa che questo suo modo di presentarsi sulla scena con autorità (con εξουσία) può essere ambiguo: le sue parole e i suoi gesti, che altro non vogliono che annunciare l’arrivo del regnare di Dio (e dunque la buona notizia per l’uomo della liberazione dal male), potrebbero invece essere fraintesi e considerati espressioni di forza cieca, che può agire tanto per il male che per il bene.

È su questo crinale che si gioca l’incontro col Signore. Ancora oggi.

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