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martedì 7 aprile 2015

II Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 4,32-35)

La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 5,1-6)

Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Ci hanno insegnato a stigmatizzare Tommaso. Eppure è lui che nel vangelo di Giovanni ci rappresenta più di tutti: perché noi – come lui – non c’eravamo a vedere il risorto. Ma soprattutto perché – noi come lui – vorremmo poter vedere e toccare… per poi credere.

Non ci convince nemmeno l’espressione di Gesù «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», tant’è che – a distanza di 2000 anni – riesce ancora a darci da pensare… e anche a darci un po’ fastidio. Perché in fondo, non siamo, a torto o a ragione, non siamo d’accordo con lui: qualcosa in noi si ribella.

La verità è che è difficile credere davvero (non solo a parole o attraverso slogan) nella risurrezione. Io credo che – se la Chiesa in questi 2000 anni ci avesse creduto un po’ di più – avrebbe costruito un mondo diverso. In realtà le nostre vite continuano a essere costruite in base al principio che poi si muore… e quindi… con tutto quello che viene di conseguenza.

Non abbiamo costruito un mondo in cui “poi si risorge, e quindi…”.

Non credo nemmeno che questa sia solo la situazione di noi poveri post-contemporanei, immersi in un mondo in cui la maggioranza delle persone è atea o agnostica. Credo che – anche nei secoli più “cattolici” della storia dell’umanità – sia sempre stata la certezza della morte e non la fede nella risurrezione a guidare le scelte della vita (personale e sociale).

Ha ragione p. Mario, quando in predica dice che abbiamo relegato Dio (Padre e Figlio) nell’aldilà, come si fa coi morti (non con i risorti, che sono dei viventi, stando al vangelo). Io penso che l’abbiamo fatto per comodità (perché il Dio di Gesù è un Dio scomodo, con il suo continuo invito all’amore disarmato) e anche perché siamo dei sani materialisti: abbiamo cioè fatto sostanzialmente questa equiparazione: Dio ha scelto di non agire nella storia (di consegnarla all’uomo) dunque Dio non c’è o è nell’aldilà, lontano: praticamente morto.

E così siamo rimasti con la storia tra le mani, un Dio considerato praticamente morto e di fronte solo la certezza della nostra fine (con una vaga e arcaica speranza – un po’ sciamanica – che quanto abbiamo sentito fin da piccoli sull’aldilà sia poi magari pure vero, chissà). Per questo abbiamo costruito una storia di morte.

Che la storia sia nelle nostre mani e che Dio non vi agisca in senso materiale è un dato inequivocabile; che di fronte a noi ci sia l’incontro con la morte è altrettanto ineluttabile. Nessuna di queste due cose è messa in dubbio dalla rivelazione del volto di Dio che Gesù ha attuato con la sua vita.

Ma di certo il terzo elemento (che Dio sia nell’aldilà, dunque praticamente morto) è esattamente quanto il lieto annuncio di Gesù smentisce: la sua risurrezione – culmine della parabola storica della sua esistenza – ci annuncia invece che Dio è presente e vivo e con noi fino alla fine del mondo, con la sua promessa che la morte non ha l’ultima parola neanche nelle nostre esistenze.

Provare a credere nella risurrezione vuol allora forse dire provare a credere nel Dio dei viventi, nel pensare a noi stessi come a “viventi” e non come a (prima o poi) “morenti”. Che tra l’altro è quello che facciamo – senza accorgercene – molto più spesso di quanto crediamo: ogni volta infatti che – anche senza consapevolezza – acconsentiamo alla vita (respirando, mangiando, ridendo, annusando, guardando, ecc…), di fatto facciamo un atto di fede in lei, nella vita e nel Dio della vita.
Raro caso in cui la carne è pronta, ma lo spirito è debole.

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