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lunedì 10 agosto 2015

XX Domenica del Tempo ordinario (B)


Dal libro dei Proverbi (Pr 9,1-6)

La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,15-20)

Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

In questa Ventesima Domenica del Tempo Ordinario, si apre la quarta e penultima parte del capitolo 6 di Giovanni, che il liturgista ha voluto spezzare perché in queste domeniche estive potessimo riflettere approfonditamente su di esso.

Prosegue il discorso tra Gesù e i Giudei, che, sebbene già serrato nei versetti precedenti, qui trova il momento di più grande tensione prima della drammatica finale che leggeremo domenica prossima.

Questa tensione nasce soprattutto dal fatto che Gesù, coscio del continuo fraintendimento a cui le sue parole sono sottoposte, decide di non tentare più di spiegarsi diversamente, ma sceglie di cavalcare questa incomprensione. Di fronte infatti allo scandalo dei Giudei per l’identificazione di Gesù col pane vivo disceso dal cielo e per l’offerta della sua carne per la vita del mondo, ribadisce ancora più esplicitamente la necessità, per avere la vita, di mangiare la sua carne.

A noi forse sembra strana, se non altro esagerata, la reazione di incomprensione dei Giudei: noi infatti di fronte all’affermazione di Gesù di essere il pane disceso dal cielo e alla proposta di mangiare della sua carne per avere la vita, istintivamente pensiamo all’eucaristia, a quel pane e a quella carne offerti per noi, e dunque non ci viene molto da “sobbalzare sulle sedie” e ci risulta per lo meno strano il vigore con cui i Giudei reagiscono alle parole di Gesù («Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”»).

Questa nostra reazione non è del tutto fuori luogo, anche Giovanni infatti, quando scrive questa parte del suo Vangelo, ha in mente la celebrazione eucaristica delle prime comunità cristiane e cioè il significato che nella prima Chiesa ha assunto l’ultima cena e la morte e risurrezione di Gesù e indubbiamente si sta rivolgendo a dei cristiani: quindi forse il suo intento è quello di mostrare in chiave polemica la durezza dei Giudei o, se non altro, di usare questo escamotage letterario per invitare i suoi a riflettere sul corpo e sangue offerto da Gesù per la salvezza del mondo.

Identificare però immediatamente questo discorso giovanneo di Gesù con quella che è la nostra messa e avere reazioni di perplessità e stupore di fronte alle posizioni che assumono i Giudei, ci impedisce di metterci realisticamente nei loro panni e di entrare in quel gioco letterario in cui invece lo stesso Giovanni vuole introdurci: cioè attraverso gli occhi dei Giudei, fare, noi cristiani, la fatica di andare a capire o a ripensare quale sia il senso vero dell’eucaristia che celebriamo e in cui già crediamo. Soffermarci infatti sullo scarto linguistico tra Gesù che parla e i suoi ascoltatori sempre più irrigiditi nell’incomprensione, può aiutare anche noi a capire lo spessore delle questioni in gioco, senza correre il rischio di accontentarci di risposte preconfezionate, non pensate e dunque estrinseche al nostro cuore.

In questo senso, ciò che pare suscitare più clamore fra i Giudei è la pretesa di Gesù di essere mangiabile. Ciò che essi non riescono ad accettare è infatti non tanto che egli abbia un cibo per loro (avevano appena assistito alla moltiplicazione dei pani e dei pesci reagendo molto positivamente), quanto piuttosto che sia Lui tale cibo.

E io credo che il nocciolo della questione stia proprio qui: anche a livello intraecclesiale. Il problema cioè è quale sia la pretesa (la proposta) di Gesù di fronte all’uomo («colui che mangia me vivrà per me») e d’altra parte la riduzione di tale pretesa di cui noi continuamente siamo tentati (ci spaventa quel “vivrà per me” detto di noi… e quindi continuiamo a depotenziarlo).

Ciò che infatti Gesù propone non è un cibo, ma è se stesso come cibo; non propone una via, ma è Egli stesso via; non propone uno stile di vita, ma è Egli stesso vita; non propone una o alcune verità, ma è Egli stesso verità («Io sono la via, la verità e la vita», Gv 14,6).

Noi spesso invece, sia personalmente che ecclesialmente, siamo andati e andiamo alla ricerca di cibo da Lui, non di Lui; di indicazioni per trovare la strada, di consigli o norme per uno stile di vita, di definizioni o concetti per capire il senso della vita, ma non della via, verità e vita che Lui è.

Spesso cioè lo scollamento – che Giovanni visibilizza magistralmente in questi versetti del suo Vangelo prendendo come prototipi i Giudei – è quello tra la persona di Gesù e tutta una serie di accessori alla relazione con Lui che, se possono essere utili a favorire tale rapporto, di certo non possono sostituirlo.

Per i Giudei questo era naturale, perché di fronte avevano Colui che a loro pareva essere solo un uomo: magari un uomo un po’ speciale, un profeta, uno degno di essere fatto re, anche un uomo di Dio. Ma pur sempre un uomo, dunque uno da cui non ci si deve aspettare la salvezza, ma istruzioni per raggiungerla, consigli, indicazioni, norme, ma nulla più.

La pretesa di Gesù invece è quella di non essere un cartello indicatore della meta, ma la meta stessa. Questo è l’inaccettabile per i Giudei e dall’altra parte è il fondamento – a volte dimenticato – dei cristiani: il cristianesimo infatti non è una religione del libro o della morale, addirittura non è nemmeno una religione, ma è una fede, cioè una relazione con il Vivente. Non si fonda cioè su un insieme di precetti da rispettare, su un insieme di definizioni da apprendere, su dei traguardi graduali da raggiungere: ma sul rapporto a tu per tu di ciascuno col Signore.

Questo, spesso per paura della responsabilità (nostra) o della impossibilità alla gestione di coscienze libere (dal punto di vista istituzionale), è stato storicamente adombrato, lasciato in secondo piano; non necessariamente per malizia, ma per tutta una serie di andirivieni storici, sociologici, psicologici, ecc… che non sta ora a noi ricostruire.

Ma, ad ogni modo, ogni volta che ecclesialmente o personalmente questa centralità della relazione a tu per tu col Signore va in ombra, stiamo riducendo la portata della proposta di Gesù all’uomo: se non si dà questo dialogo interiore tra la nostra libertà e la sua, ma ci si accontenta di sapere alcune cose di Lui, di applicare alcune cose che ha detto, di ripetere alcune cose che ha fatto ricadiamo nell’errore dei Giudei di cercare da Lui del cibo, ma non di assumere Lui come cibo, ci illudiamo di essere bravi cristiani, senza conoscere il nostro Signore, ci illudiamo di comportarci bene, senza andare ad indagare con Lui, nell’autenticità che si denuda di fronte a chi la ama, le profondità più nascoste e più tenebrose della nostra interiorità.

In altre parole, se non ci avventuriamo in questa relazione personale, ci limitiamo a credere ad un’ideologia (piuttosto che ad un’altra), sposiamo un codice etico (piuttosto che altro), seguiamo alcuni orari (piuttosto che altri), leggiamo un certo libro (piuttosto che un altro), facciamo certi gesti (piuttosto che altri), ecc… non uscendo mai da quell’estrinsecismo, da quella lontananza, da quella sensazione per cui in fin dei conti tutto questo con me non c’entra proprio niente… anzi mi passa tre metri sopra la testa e non entra mai a interrogare davvero la mia intimità, a interpellare la mia libertà, a chiedermi “Chi sono?” e “Chi voglio essere?”.

La proposta di Gesù sembra invece proprio andare contro questo modo estrinseco di vivere il rapporto col Padre, che poi è il rapporto col senso, con la vita, con la morte, con gli altri… Il suo invito è ad entrar-ci dentro, a smuoversi verso un affidamento, un lasciarsi andare, un dare credito, un fidarsi… è un invito a mangiare il cibo che dà la vita e non tanti piccoli cibi che non saziano (che son tutti cibi religiosi, per rispondere alla domanda che ci ponevamo qualche domenica fa all’inizio della lettura di questo cap. 6 di Giovanni), a puntare alto, a puntare al centro, senza disperdersi – per paura di non farcela o di essere ingannati – alle tante proposte periferiche che non sono mai definitive… è un invito a giocarsi per Lui, ad accettare la sua pretesa di essere via, verità e vita nostra… è un invito ad accogliere questo sguardo alto sull’uomo, chiamato non a sentir parlare di Dio, non a fare cose per Lui, non a parlargli per interposta persona, ma a vivere della relazione personalissima con Lui.

Se non avremo il coraggio di questo rapporto (sia di attuarlo come singoli, sia di permetterlo e favorirlo come Chiesa) rimarremo con in mano una vuota struttura del sacro incapace di salvare e dunque di entusiasmare, interessare, interpellare e più che il dramma di chiese vuote, dovremo affrontare quello di vite senza vita.

 

Prima dell’ultima tappa, allora, una breve sintesi dei traguardi raggiunti:

-          Gesù (e quindi Dio) non è un prestigiatore che ha risolto il problema della fame dell’uomo, nemmeno quand’egli gli ha proposto di consegnargli la sua libertà (e farlo re); anzi a questo modo di essere Dio, Gesù si sottrae;

-          Non è chiesto a noi di fare “opere di Dio”, ma ci è chiesto di credere all’opera di Dio, a Gesù, autoproclamatosi pane che dura per la vita eterna, pane di Dio, pane del cielo, pane della vita;

-          Il nucleo del discorso è allora chiedersi cosa voglia dire mangiare di questo pane, mangiare la sua carne e (insieme) cosa voglia dire credere, dato che sono le due azioni che Giovanni collega all’accesso alla vita;

-          Sia mangiare Lui, sia credere a Lui rimandano inequivocabilmente ad una relazione personale non evitabile. Tutto il cap. 6 porta qui: a lasciare da parte ciò che non nutre (tutte le cose religiose che ci fanno saltare il rapporto personale col Signore) per orientarsi sullo stare a tu per tu con Lui.

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