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giovedì 1 febbraio 2007

La "virtù" più importante? il coraggio

Vorrei partire da dove ci eravamo lasciati…
Dicevamo nel precedente articolo che essere cristiani non aveva niente a che fare con una vita comoda e tranquilla e che la fede non è cosa per timorosi che si accontentano di poco… Per questo il cristiano è colui che è amante del rischio, senza paura del nuovo che sempre gli si presenta…
Se mi chiedessero, infatti, quale sia, oggi, la “qualità” più importante per essere un buon missionario, senza esitare risponderei subito: “il coraggio!”. Perché mi rendo sempre più conto che a poco valgono le altre doti, fossero anche le più nobili ed elevate, senza il coraggio di metterle in gioco nella vita. Quello che manca oggi è proprio la consapevolezza del dono ricevuto e il compito che abbiamo di farlo fruttificare anche a rischio di sbagliare: questo è l’unico modo perché il frutto non ci marcisca in mano!
Veramente senza il coraggio, a niente servirebbe ogni altra virtù, foss’anche infusa da Dio!
Certo non un coraggio qualunque… Non il coraggio di chi sgozza la gola a un povero indifeso; non il coraggio di chi “armato”, schiaccia, umilia e distrugge la vita altrui; non il coraggio di chi mette in pericolo la propria vita per sopprimere quella altrui e per permettere ai propri figli di condurre una vita agiata sullo sfruttamento dei figli di coloro che ha soppresso…
No! il coraggio di cui parlo è un’altra cosa. È il coraggio di chi si sa “disarmato”, forse anche “inadeguato”, e che “a mani nude”, come “agnello in mezzo ai lupi”, comunica/annuncia agli altri il dono che crede aver ricevuto. E lascia che “la storia” ne giudichi il valore, senza lasciarsi intimorire dal suo giudizio.
La “parabola dei talenti”; il “Non abbiate paura!”, gridatoci fin dall’inizio del suo pontificato da Giovanni Paolo II; l’audacia dei santi; sono lì a ricordarci che senza coraggio non esiste il missionario, non esiste il cristiano, non esiste l’uomo.
È il coraggio di chi prende coscienza delle proprie paure e sa vincerle una ad una. Sa vincerle od è “costretto” a vincerle, per un bene più grande che la paura non riesce a soffocare…
Accadde a me tanti anni fa, all’inizio del mio sacerdozio in Camerun, era una domenica mattina, stavo andando in una chiesa della nostra parrocchia di Nkoabang, a Nkolodou perché dovevo celebrarvi la messa.
Nkoabang e Nkolodou sono in periferia rispetto a Yaounde, c’è una strada periferica che li unisce direttamente ma in quel periodo la strada non era in buono stato e ancor meno la mia macchina, quindi decisi di fare il giro più lungo passando per la città, perché almeno per buona parte la strada era asfaltata… Partii quindi da Nkoabang per Yaounde e da lì avrei raggiunto dall’altro versante la chiesetta di Nkolodou. Arrivato quindi ai due incroci che mi permettevano di raggiungere la meta, feci per imboccare quello più vicino, se non che mi trovai sbarrata la strada da un mucchio di gente che occupava completamente l’incrocio… Lì per lì pensai che fosse l’ennesimo raduno politico e feci per imboccare, seccato, il secondo incrocio, nella speranza che anche quello non fosse per qualche ragione inagibile… Fu nello svoltare la macchina e gettando l’occhio in mezzo alla folla, per cercare di intravedere quel politico così importante da agglomerare intorno a sé tante persone, che mi resi conto che quel raduno aveva ben poco di politico. In mezzo a un cerchio di gente scalmanata vidi un uomo con un coltello militare enorme e davanti a lui un giovane in mutande tutto impaurito.
Quello che passò in me in quel momento è difficile descriverlo, un vortice di immagini e di pensieri: “vedevo” i miei confratelli che mi dicevano di non mettermi in situazioni di pericolo, “risentivo” le notizie sulla “giustizia popolare” e sulla fine che avevano fatto coloro che avevano cercato di ostacolarla, e così via… ma su tutto questo crogiolo di sentimenti, che lascio a voi immaginare, uno prevalse su tutti: mi sarebbe stato impossibile sopportare il ricordo di non aver fatto assolutamente niente! Sarebbe stato impossibile sopravvivere a me stesso…
Rigirai la macchina, e decisi di entrare in mezzo alla folla, premetti sul clacson, abbassai il finestrino, e facendo il finto tonto, dissi che ero in ritardo per la messa… Tanto bastò, per disorientare i “teatranti”, che dai loro volti capivo che mi prendevano per pazzo. Ma questo permise al malcapitato in mutande di fuggire. Tutti allora smisero di urlare contro di me e si misero a seguirlo. Capii che non ce l’avrebbe fatta: correva troppo piano… Allora? oramai il più era fatto no? Feci retromarcia e mi misi a inseguire il gruppo con la macchina lo superari e raggiunsi in testa l’inseguito. Senza fermare la macchina, Dio solo sa come riuscii a farlo, aprii la portiera del sedile a fianco e gli urlai di “saltare su”. Dovetti urlarglielo due volte perché alla prima non sembrava fidarsi, usai allora le buone maniere, che qualche volta scuotono l’intelligenza dal torpore, gli dissi allora “Imbecille, Sali!”, evidentemente le mia buona educazione deve averlo convinto che forse era meglio fidarsi, anche perché il gruppo di uomini e donne stava proprio per agguantarlo. Salì, sgommai, e dal secondo incrocio imboccai la strada sterrata che mi conduceva alla chiesetta di Nkolodou…
Mi accorsi che era leggermente ferito, niente di grave… Lo lasciai in macchina e entrando in chiesa invitai il gruppo di uomini che era seduto in fondo, proprio all’entrata, sulla destra, di prendersi cura di lui e di dargli dei pantaloni…
Col senno di poi, a sangue freddo mi resi conto, che tutto quel coraggio, chiamiamolo pure così, non era tanto per salvare la vita di quel povero malcapitato, ma così agendo era soprattutto la mia vita che “salvavo”… Ma su questo, torneremo con più calma il prossimo mese…

lunedì 1 gennaio 2007

Introduzione articoli a "Il Carmelo Oggi"

Quando mi fu chiesto di contribuire a questa rivista con qualche articolo sulla “tematica missionaria” che “aiuti i lettori (e tutti noi) a maturare dentro uno spirito missionario”, vi confesso che stavo per rifiutare, sentendomi, nonostante l’esperienza vissuta in “terra di missione”, alquanto inadeguato ad affrontare il tema… Altri saprebbero farlo certamente meglio di me. Ma visto il numero esiguo di lettori, paganti, (da cui se ne deduce lo scarso interesse di chi evidentemente non ritiene valga la pena di sostenere lo sforzo e la fatica di tanti che vi lavorano), mi sono convinto che comunque vadano le cose, e qualunque cosa scriva, il “danno” arrecato alla rivista e ai suoi fedeli lettori non sarebbe poi stato così esteso…
Va da sé quindi che quello che scriverò non impegna che me stesso, e il lettore vorrà scusarmi se non sempre quello che dico combacerà con la sua esperienza e la sua riflessione di fede. Se invece quello che leggerà in queste righe lo aiuterà a crescere e a maturare nella vita cristiana, sappia da subito che non è certo merito mio, ma di tutte quelle persone, soprattutto confratelli e consorelle nel Carmelo, che in un modo o nell’altro mi hanno aiutato a scoprire il valore delle cose che ho vissuto e che vivo.
Non mi resta che aggiungere quello che dissi anni fa, ancora diacono, al mio ritorno dalla mia prima esperienza missionaria in terra camerunese, a un mio confratello, che mi chiedeva ragione di quello che dicevo, stupito come era della “diversità delle cose che comunicavo” sulla mia esperienza “missionaria”, che si distaccavano alquanto — sempre a suo dire — dalle esperienze e riflessioni degli altri missionari… Gli feci notare, e ora lo faccio notare a tutti voi, che “…quando un missionario, torna dall’Africa, di tutto quello che dice, occorre gettare l’80-90% e ritenere per buono il 10 o al massimo il 20%, in quanto troppo forti sono i “toni”, le esperienze, per riuscire a darne una descrizione fredda e distaccata, che si avvicini ad un’analisi oggettiva dei fatti”. Al ché lui, con quell’arguzia che da sempre lo distingue, con un sorriso ironico mi chiese “Devo includere quello che mi stai dicendo nella regola appena datami?”… Annuii con una fragorosa risata… Anche perché come dicevo tutto sembra più grande visto da... lontano! Lettore avvisato…

Il problema sta però nel cominciare… un certo sentimento di pudore mi invade, in fondo scrivere è un po’ come confessarsi, pubblicamente… Sì ma da dove partire? Come riuscire a districarsi nel marasma di immagini e sensazioni che si sovrappongono in me… da dove partire per camminare insieme a comprendere al di là del fatto episodico, il senso profondo della vocazione cristiana e dell’essere missionari? E se cominciassi dall’inizio? Sì, ma dall’inizio-inizio, là dove tutto ha avuto origine, la culla di ogni vocazione, di ogni missione, ogni vocazione: dalla cresima. Che c’entra, direte voi, la mia cresima, con la mia esperienza in terra di missione? C’entra, c’entra, in quanto ritengo che tutto sia cominciato da lì, e da quello schiaffo che Mons. Tarcisio Benedetti, vescovo di Lodi, mi diede quel giorno. Io di quella cerimonia ricordo solo quello schiaffo, altro che buffetto, il suo fu veramente qualcosa di più, ne sento ancora la sensazione sulla guancia, diciamo che gli scivolò la mano... Diciamo che assegnò per sempre alla mia memoria di bambino, il ricordo che nella vita cristiana non ci sono solo carezze ma anche schiaffi e chissà perché si cresce di più ad affrontare il disagio che a crogiolarsi nell’agio… La cresima ti faceva “Soldato di Cristo”, si diceva allora, già, ma con quali armi? Imparerò crescendo che era un esercito disarmato… Ma una cosa era già certa fin da allora: essere cristiani non aveva niente a che fare con una vita comoda e tranquilla, chiusa nelle proprie quattro mura. Non so chi abbia mai inventato la storia della religione come forma consolatoria, fuga dai problemi della vita. La religione forse, ma la fede non è cosa per timorosi di chi si accontenta di poco, di una vita “tranquilla”… Non è il luogo del “compromesso esistenziale”, e se compromesso c’è, è solo una breve sosta, un pianerottolo per prendere respiro e ricominciare l’avventura… Ecco ho sempre pensato che essere cristiani è come una grande avventura, la più bella, la più affascinante. Perché sempre, dove ci si trova, si è in “luoghi” che mai nessuno ha esplorato prima, perché dove devi andare tu, nessun altro può andarci, ma solo tu e il tuo Cristo… e per questo bisogna essere amanti del rischio, senza paura del nuovo che sempre ci si presenta… La “noia” non è cristiana! Forse è per questo che il Carmelo mi ha subito affascinato. La felicità, mi diceva qualcuno, è sapersi accontentare delle piccole cose. Sarà! Ma a me questa cosa non ha mai veramente convinto. Certo, se si intende, che a furia di sognare un cibo migliore si rischia di morire di fame, questo è vero. Ma c’è una dimensione della vita, che si nutre dell’“infelicità” di non essere ancora sazi. Come l’amore che si nutre di fame.
Diceva qualcuno, che “C’è chi passa la sua vita a sognare e chi invece fa della sua vita un sogno”. Ecco essere cristiani è proprio questa avventura in cui ci è proposto di realizzare nella nostra vita concreta, non il mio sogno, ma il sogno di Dio su di noi. Perché il sogno non si trasformi incubo per me e per i fratelli e sorelle che incontro.
Le nostre scelte concrete saranno modulate su questo sogno di Dio su di noi. Per cercare di “vedere” e giudicare le “cose” con “gli occhi di Dio”, per quanto possibile in questa vita. È il cammino che vorrei facessimo insieme attraverso queste pagine.
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