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sabato 10 aprile 2010

In qualunque casa entriate, prima dite: Pace!

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”«, così Giovanni descrive il primo incontro che i discepoli fanno con Gesù risorto (solo la sua Maria l’aveva già incontrato, ma per lei – si sa – Gesù aveva una predilezione). Manca Tommaso, si scoprirà più avanti nel racconto, ma ciò che colpisce di più a questo punto della narrazione è vedere il registro su cui Gesù si colloca per ritrovare i suoi. “Pace a voi”, gli dice; e lo ripeterà ancora due volte (una dopo aver mostrato i segni della passione e l’altra “otto giorni dopo”, quando finalmente ci sarà anche Tommaso).
La paradossalità di questo saluto – che magari in prima battuta sembra piuttosto naturale (dato che siamo abituati a sentire che Gesù risorto saluta in questo modo e che – se ci ricordiamo un po’ anche ciò che diceva da vivo – era stato proprio lui a consigliare ai suoi di salutare così quando entravano in casa di qualcuno: «In qualunque casa entriate, prima dite: Pace», Lc 10,5) – salta agli occhi se proviamo ad andare a vedere come si erano lasciati i discepoli e Gesù l’ultima volta che si erano visti... Gv 18,1 era l’ultima volta in cui i discepoli comparivano, là dove si diceva appunto che «Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli». Da questo momento in avanti essi spariscono: in quel giardino infatti arriverà Giuda, «con un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi» e arresteranno Gesù. Soltanto Pietro ricomparirà ancora – ma nell’episodio del rinnegamento – e in seguito il discepolo amato – l’unico che fa una bella figura – perché “adotta” Maria. I discepoli non ci saranno nemmeno quando si tratterà di andare a recuperare il corpo morto di Gesù: ci andranno infatti Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, due che erano discepoli “di nascosto”… E non faranno nemmeno il tentativo di raggiungere il loro Maestro morto – la mattina – come le donne, per rendergli omaggio. Non crederanno nemmeno a Maria di Magdala che pure era andata ad annunciargli: «Ho visto il Signore!». Niente! In Gv 20,19 essi sono ancora con le porte chiuse per paura dei Giudei.
Bene, in questa situazione a Gesù la prima cosa che viene in mente di dire è: “Pace a voi!”. «neppure qui come in nessun altro testo, li rimprovera rivangando la faccenda che quando lui era in pericolo i suoi prodi se la sono svignata. Questo è il primo gesto della redenzione, il più bello che ci sia in tutte le Scritture del Nuovo Testamento, quello simboleggiato dall’espressione di Gesù che dice: “Chi cercate voi?” “Gesù, il Nazareno” “Sono io!”, gli altri non c’entrano (cfr. Gv 18,4-9). Impara, evangelizzatore d’assalto! Gesù è quello stesso che prima, quando le cose andavano bene, ai suoi ragazzotti diceva: “Se non prendete la vostra croce e non mi riconoscerete davanti agli uomini, un giorno io non saprò neanche chi siete”. Giusto, perché quando stiamo tutti bene i ragazzotti hanno bisogno di essere istruiti sul fatto che qui non è come iscriversi al club della vela…ci sto, non ci sto, mi va, non mi va, devo provare i buoi, …stai a casa! Ma quando viene il pericolo vero, lo stesso che quando le cose vanno bene ai suoi dice “Ragazzi, questo è un gioco duro, non è una roba per dilettanti!”, i suoi li chiude nella cuccia (e non è vero che non c’entrano perché non han fatto altro che dire: “Signore ci siamo noi! Cosa possiamo fare? Ci organizziamo…”) e alle guardie dice: “Prendete me, tutto quello che sanno, che credono, che fanno, è perché gliel’ho insegnato io, quindi prendete me!”. Questa è la redenzione. Questo è lo stile dell’Evangelo e della testimonianza. Questo è stile, le due parti insieme e cioè: non c’è il Vangelo allo zucchero filato che dice: “Se venite con me vi faccio stare bene, vi spariscono anche i brufoli, vi faccio volare, vi faccio vedere Dio…”…No! Non c’è, il Vangelo non è piazzato come un coefficiente del benessere, ha la durezza che deve avere, però, siccome la Parola di Gesù è che ciascuno deve offrire la propria guancia, non quella di suo fratello (tanto perché qualche volta ci confondiamo), quando viene il momento del pericolo il Signore si aspetta che come fa lui, ciascuno dei discepoli per suo conto offrendo la propria, tenga al riparo i suoi. Anche quelli che di per sé hanno ricevuto dal Signore la vocazione a farsi avanti, non si devono fare avanti al posto suo. Questa è la differenza, questo è Dio. L’uomo sarà anche peccatore, ma Dio non vuole che si faccia avanti al posto suo» [P.A. Sequeri, sbobinatura della lezione del 12 marzo 2003 del Corso di Teologia Fondamentale in FTIS].
Ecco il primo elemento fondamentale del brano: Gesù non è risorto per arrivare a tirare i conti, non ha cambiato l’atteggiamento di redenzione verso i suoi che aveva tenuto durante la passione, ha riconciliato quel pezzetto di storia – piccolo ma tanto determinante – del tradimento di tutti i suoi, semplicemente presentandosi e esordendo con “Pace a voi!”.
E che la chiave di lettura del vangelo odierno sia precisamente il perdono – e più radicalmente il perdono in senso forte, cioè la vera e propria ricostruzione delle condizioni affinché l’altro possa ricostruirsi e ricostruire la relazione – è dato anche dalla seconda cosa che Gesù dice: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Gesù cioè come prima istanza – da Risorto – ha quella di fare dei suoi “ministri della riconciliazione” – come dice Paolo in 2Cor 5,18. Perché – come ricordava il prof. Luca Moscatelli in una sua recente conferenza – “se mi dicessero che posso perdonare chi voglio – e so cosa vuol dire essere perdonato – beh, perdonerei tutti! O no?”… Anche perché lì Paolo è interessante davvero; dice: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,14-16) – alla maniera umana, infatti, uno avendo un potere (in questo caso quello di rimettere i peccati) potrebbe farne anche un uso scorretto, tipico di chi non sa cosa vuol dire davvero avere il cuore e la storia e la provenienza riconciliata (come cantava Zaccaria in Lc 1,72: «egli ha concesso misericordia ai nostri padri»). Ma in più Paolo – giusto per non lasciare adito a dubbi – dice: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» – è l’esperienza dell’essere riconciliati che abilita alla riconciliazione. È perché a Pietro e agli altri non imputa le loro colpe, il motivo per cui subito dopo può invitarli a farlo con chiunque!
Se pensiamo a cosa invece spesso voglia dire nella nostra vita cristiana “riconciliazione”, c’è proprio da mettersi le mani nei capelli e concludere con Petrosino che “L’uomo fa sempre così: prende una roba e ne fa una schifezza”…
Interessante – ad ogni modo – che a Gesù prema così tanto questo fatto della riconciliazione… Forse perché a ben guardare, presa nella sua caratura profonda, essa è l’unica dinamica che può permettere la vita: viviamo – infatti – solo quando gli altri ci abilitano a farlo, quando ci perdonano la nostra inadeguatezza, il nostro non essere mai all’altezza, il nostro tradire, il nostro non riempire i loro desideri… Ciascuno di noi, per gli altri, è sempre inevitabilmente anche questo… Ma se la paura, o l’inacidimento, o l’intransigenza, o la durezza, o “la convinzione di avere la verità”, o chissà che altro, chiude l’altro nel suo errore, nella sua uscita infelice, nel male che ha fatto, se cioè prevale il nostro bisogno di avere ragione sul bene che vogliamo all’altro – beh lì lo uccidiamo e uccidiamo la nostra relazione con lui. Gli spegniamo la fonte zampillante del suo cuore, mettendoci sopra la pietra delle nostre buone ragioni…
Ecco – invece Gesù – da vivo, da morto e da risorto proclama sempre (non solo a parole, ma con le decisioni concrete della sua libertà) che è sempre più importante la faccia dell’altro, cha abbia lo spazio per ricostruirsi, che noi gli facciamo questo spazio, che gli ri-creiamo quelle possibilità di Vita, che magari lui stesso da solo ha rovinato…
E a ben guardare è la stessa cosa che fa con quel rompimento di Tommaso: al quale concede tutto, gli va dietro in tutto, pur di ricostruirgli intorno – intorno alla sua intransigenza («Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo») – la possibilità di un ri-allacciamento della relazione.
È questo il compito di ciascun cristiano e della Chiesa tutta: avere pazientemente il coraggio di mettersi lì a ricreare per tutti la possibilità della Vita.

3 commenti:

Denise Cecilia ha detto...

Spazio per la (auto)ricostruzione dell'altro, possibilità di riallacciare la relazione... in altre parole: una porta lasciata aperta.
La quale però costituisce solo una metà del rifiorire della relazione, della ricostruzione e della rinascita... perché è appunto l'altro che, ricevuti da me possibilità e spazio (perdono) deve mettere di suo la volontà e l'ingegno per ripartire. La rinascita è una possibilità in potenza che il mio perdono offre all'altro, ma non si compie se l'altro non l'accoglie a sua volta.
Io mi porto dentro un concetto che Stefano Levi della Torre espresse, qualche anno fa, all'interno di una conferenza: non esiste perdono senza (previo) pentimento.
Che il pentimento avvenga 'prima' del mio perdono, o successivamente (come per Tommaso che si pente della propria incredulità soltanto in seguito alla prova tattile), resta un dato: se l'altro non riconosce il proprio errore, ma approfitta della mia apertura senza mutare nulla del comportamento o atteggiamento che l'ha condotto alla rovina (e magari, ma solo magari, ha danneggiato anche me) il mio perdono sarà vano e non vi sarà riconciliazione, ma solo un riavvicinamento formale.
Perché l'altro non si sarà salvato, anzi sarà forse incorso nell'illusoria convinzione di aver 'sistemato tutto'.

E quel 'previo' assume allora un ruolo cruciale nella mia scelta di perdono (e non parlo in senso generale, intendo proprio mia personale).
Mi chiedo sinceramente se sia bene perdonare a prescindere dal pentimento del prossimo (non solo sensato, non 'giusto' per la norma sociale, ma giusto e buono per l'uomo e per il destino dell'altro che mi ha tradito).

Mi sto forse ponendo la classica domanda da un milione di euro, che corrisponde fondamentalmente a: sono o non sono cristiana?

chia ha detto...

io credo che l'amore sia amore anche quando non è ricambiato, umanizzi chi lo prova/attua.

Denise Cecilia ha detto...

Lo credo anch'io, Chia - e secondo le mie forze lo provo, lo attuo - ma il perdono discende dall'amore, o anche ne è preludio; in entrambi i casi nè è ben distinto.
Compiere atti d'amore (oltreché provarne il sentimento), non include necessariamente perdonare; vi può essere amore sincero e soprattutto non egotico anche in assenza di perdono.
Comprendo, certo, che cristianamente i due addendi viaggiano di pari passo: eppure non sono la medesima cosa.

Grazie per le parole.

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