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giovedì 1 aprile 2010

La Pasqua di Gesù, uno che mangia e dorme

In questa domenica di Pasqua, il giorno più importante per i cristiani, la Chiesa ci propone tre bellissimi testi: At 10,34.37-43; Col 3,1-4 e Gv 20,1-9.
Innanzitutto il vangelo: il racconto riprende esattamente là dove lo avevamo lasciato la domenica delle palme (la sepoltura) e dove la liturgia del Triduo ci ha fatto più volte ritornare: Gesù muore di venerdì e quello stesso giorno viene sepolto in tutta fretta, perché il giorno seguente era sabato, giorno sacro per gli ebrei, in cui le donne e i discepoli «osservarono il riposo come era prescritto» (Lc 23,56). «Il primo giorno della settimana» – la domenica – invece «Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1). Cioè, appena cessata la prescrizione sabbatica, Maria va da Gesù; meglio: dal suo corpo morto.
Sarebbe molto interessante riflettere su questo dato incontrovertibile del vangelo: sono le donne ad andare per prime al sepolcro di Gesù e ci vanno per prendersi cura del suo corpo morto; tutti e quattro gli evangelisti lo sottolineano. Certo in gioco vi sono gli usi e costumi ebraici del tempo, ma questo fatto non deve essere irrilevante per il lettore: a fronte degli apostoli nascosti (nei quali prevale la paura: non sono stati loro nemmeno ad andare a richiedere il corpo di Gesù a Pilato, ma Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, due discepoli dell’ultim’ora), le donne escono alla scoperto (vincono le paure) e vanno da un corpo morto. Scenograficamente è come se – dopo la morte di Gesù – tutti i suoi e le sue fossero rintanati in qualche nascondiglio silenzioso, tramortiti dal dolore e bloccati dal terrore. Ecco, da qui, dopo che un grande silenzio avvolge il tutto e la telecamera inquadra una città deserta, a far capolino da quelle tane in cui si erano ritirati, non sono i discepoli, ma delle donne, armate di oli e unguenti e determinate a rimanere attaccate all’ultimo pezzo del loro Signore che gli era rimasto: il suo corpo morto.
Interessante: rischiano la vita per un cadavere… A testimonianza imperitura che quando una donna ama, diventa atea: nessuna legge sovrasta quell’amore, nessun dio, nessuna paura può normarne il cuore. Quel cadavere infatti non è un cadavere qualsiasi: quello è l’ultimo brandello di carne dell’amato; morto, ma visibile; muto, ma a cui ci si può ancora rivolgere; immobile, ma ancora accarezzabile; freddo, ma cui si può ancora regalare il calore di un bacio.

E ancora più strepitoso è il fatto che Giovanni riduce il numero delle donne alla sola Maria di Magdala (la sua Maria): quella stessa che qualche versetto dopo, per prima (e senza nessuno scrupolo di discriminare gli altri) incontrerà il Signore risorto, il suo Maestro. Con buona pace di tutti quelli che sentono il bisogno di ricordarci ogni due per tre che Gesù era casto, celibe, vergine, ecc… che son cose vere, ma che spesso fanno passare Gesù come un ectoplasma cosmico, incorporeo e fantasmico, quasi inconsistente, di certo poco umano. Lo straordinario di Gesù è invece che in Lui finalmente il Dio dell’AT «si scioglie nell’assoluta intimità di un uomo col quale si può passeggiare lungo il mare e bere un whisky». Se infatti noi non abbiamo nessuna possibilità di costruire il Regno di Dio che guardando a Cristo, bisognerà pure che lo guardiamo! «Soltanto che bisogna guardare a Cristo in un mettere a fuoco che non sfuoca […]. Qui Ignazio è forte, quando dice: “Guardate a Cristo”. Tutti gli esercizi di Ignazio sono: “Guardate a Cristo”. Però dovremmo essere più ignaziani di Ignazio e cioè dire: “Ma lui come beveva? Come camminava? Come dormiva? E come guardava le donne? Come sognava? Come mangiava?”. I vangeli dicono delle cose. La santità infatti è in relazione al modo di mangiare, di baciare, di camminare, di guardare il cielo, non è che sia un’altra roba. […] Per questo è importante che Gesù sia una persona storica e non sia l’idealizzazione di un modello: perché se è l’idealizzazione di un modello hanno ragione quelli che dicono che è una contromossa della psiche (idealizzo l’ideale, che è una parola che non a caso è così vicina alla parola “idolo”). Invece di fronte a Gesù, tu non sei in presenza di un ideale, sei in presenza di uno che mangia e dorme […]. Per quello dico: bisogna guardare a Lui. Come sta con le donne, poi si può fare tutta una fenomenologia delle cose […]: mangia, si fa toccare dalle donne, tocca. Ricordo un prete che una volta mi diceva: “Silvano, a me in seminario hanno detto: ‘Non toccare, non farti toccare, non toccarti’”. Però Gesù non fa altro che toccare: sputa, fa… tocca, si fa toccare da donne, prostitute, bambini, malati…» [tratto da una conferenza di Silvano Petrosino].
In quest’ottica, forse, si capiscono molto meglio gli stati d’animo con cui Maria va al sepolcro.
Solo che quando ci arriva «vide che la pietra era stata tolta. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”». Maria non interpreta immediatamente il sepolcro vuoto come un indizio della risurrezione. Siamo noi ad aver dato questo significato a quel simbolo. Per lei è soltanto l’ultima espropriazione: anche quel brandello di carne di Gesù rimastole, le è stato tolto. Tant’è che quando ricomparirà nel racconto (qui infatti lascia la scena a Pietro e al discepolo amato), la ritroveremo ancora disperata: «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. (Gv 20,11-15).
Nel frattempo però, i due discepoli “più importanti” del Vangelo di Giovanni, Pietro e il discepolo amato, sono andati al sepolcro, tirati fuori dal loro nascondiglio da una donna (e anche qui la finezza con cui l’evangelista legge le dinamiche umane è strepitosa), svegliati a tal punto che ormai corrono. Giunti sul luogo, essi a differenza di Maria, entrano, uno dopo l’altro, nel sepolcro: prima Pietro, che pure era arrivato per secondo, e poi il discepolo amato. Anche in questo correre insieme, superarsi, aspettarsi c’è molto di ciò che abita i cuori di questi uomini e – attraverso loro – i cuori degli uomini di tutti i tempi: le paure, le trepidazioni, le speranze. Dopo tutto quello che avevano vissuto in quegli ultimi giorni, chissà che cosa pensavano mentre correvano?
E poi c’è il finale di questo brano: dopo la descrizione di ciò che trovano nel sepolcro (teli posati, sudario) e soprattutto di ciò che non trovano (non c’è il corpo di Gesù) si dice quasi contemporaneamente «l’altro discepolo vide e credette», «infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Ma se non avevano ancora compreso che doveva risorgere dai morti, in cosa credette l’altro discepolo?
La domanda sorge solo se ci si ostina in una lettura troppo cerebrale del vangelo e non si fa invece lo sforzo di farsi prendere per le viscere, di tentare cioè un’immedesimazione nei vari personaggi, dove allora il punto non è il contenuto oggettivo di un credo, ma è il ripetersi interiore dello squarciamento del velo del tempio: come quello non era solo un lenzuolo strappato, questo non è solo un sepolcro vuoto; senza ancora dire – come faranno giustamente poi – che il velo del tempio squarciato voleva dire che era annullata la distanza tra Dio e l’uomo o che il sepolcro vuoto voleva dire che Gesù era risorto…
Non sanno ancora che Gesù è risorto, ma dentro gli si è girato qualcosa: «vide e credette».
E precisamente questo giramento interiore sono le “cose di lassù” che Paolo invita i Colossesi a cercare. Infatti, anche se la nostra cultura e formazione cattolica ci porterebbe a pensare la dicotomia “cose di lassù” / “cose della terra” come se si trattasse di anima / corpo, soprannaturale / naturale, spirituale / carnale, o più esplicitamente sesso / castità, in realtà Paolo sta parlando, paradossalmente (per noi, non ancora girati dentro) del contrario, cioè di come abitare l’aldiqua in prospettiva cristica, abitando davvero l’amore, guardando davvero a Gesù che mangia e dorme e tocca e si fa toccare; dice infatti: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere, non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-21, che sono i versetti immediatamente successivi alla nostra seconda lettura). «Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo ha creato. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,9-10.12-14).
Che è la stessa scoperta di Pietro, che fa il discorso che riporta la prima lettura in casa di Cornelio, il centurione pagano, a cui aveva detto poco prima: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28), che esso sia donna, immigrato, malato, anziano, colpevole, diverso…

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