Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

giovedì 14 febbraio 2008

La Trasfigurazione: il coinvolgimento dell'uomo nella drammatica della libertà di Gesù, il Cristo

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa attraverso il Vangelo di Matteo (17,1-9) ci invita ad addentrarci in uno degli eventi più enigmatici dell’esperienza terrena di Gesù, che è appunto la sua trasfigurazione.
Già di fronte al solo pronunciare questa parola, trasfigurazione, in noi è come se si creasse un senso di inadeguatezza, un alone di mistero… quasi forse un sentimento di inquietudine: ci sentiamo messi di fronte a uno di quegli episodi della vita di Gesù che, per come ce li hanno raccontati fin da piccoli, si discostano troppo dalla nostra capacità di comprensione, perché li sentiamo al di là della nostra umanissima esperienza. E chissà come, dalle profondità ataviche del Cristianesimo succhiato al seno di nostra madre, sentiamo improvvisamente che l’umanissimo Gesù che siamo abituati a trovare nel Vangelo, ora ci pare così lontano… ci incute quasi timore.
Eppure, se guardiamo bene al testo, non ci sarebbero poi così tanti elementi a sostegno di questa sensazione istintiva che ci nasce in cuore: tutta la vicenda è infatti raccontata nel giro di pochi versetti, manca di qualsiasi presentazione dal sapore enfatico, è priva di ogni euforico senso del miracoloso e addirittura si conclude con un deciso invito a non sponsorizzare l’accaduto.
Si potrebbe quasi anzi dire che il modo di raccontare questo fatto da parte di Matteo (come anche di Luca e Marco) sia il più demitizzato possibile: volendo, avrebbe potuto caricarlo di prodigiosità, avrebbe potuto sfruttarlo per convincere alla fede i suoi lettori, avrebbe potuto anche forzare un po’ la mano e sottolinearlo tanto da farlo diventare il momento clou del suo vangelo.
E invece no: invece, appunto, gli dedica pochi versetti e tiene un profilo narrativo basso.
Questo è un indizio significativo di quale sia l’intento dell’evangelista: egli non sta pubblicizzando Gesù, come una delle tante proposte di salvezza presentate all’umanità, ma dentro all’evoluzione della narrazione evangelica, con la quale questo brano sta in continuità, vuole portare pian piano il discepolo all’incontro con l’identità del suo Maestro e Signore.
È in questa prospettiva che va letta anche la trasfigurazione: essa, da un lato, è uno dei momenti della vicenda della libertà di Gesù (è un’esperienza che fa Gesù); dall’altro, è il coinvolgimento in questa vicenda da parte dei suoi discepoli, i quali non la conoscono su un libro o attraverso il sentito dire di qualcun altro, ma lasciandosene implicare e compromettendosi in prima persona.
Questo modo, che è l’unico vero, di conoscere qualcuno, non è stato possibile solo allora e a noi precluso per un’incolmabile distanza spazio-temporale: tutto il NT anzi trasuda la certezza di un’accessibilità reale per il discepolo di qualunque tempo alla drammatica storica di Gesù. Essa è percorribile proprio nella stessa dinamica di implicazione e compromissione, che era propria dei discepoli della prima ora.
Ecco perché credo utile provare a ripercorrere il senso del brano evangelico che la liturgia ci propone, puntualizzando proprio questa dimensione: il coinvolgimento con la sua identità che il Signore ha inteso proporre ai tre discepoli, in questo episodio della trasfigurazione.
Dicevo prima infatti che questa è sia un’esperienza di Gesù, sia un coinvolgimento dei discepoli (e di noi in quanto discepoli) in questa stessa vicenda. Perché sottolineo questo? Perché mi veniva da chiedermi: Ma Gesù quando ha chiamato «in disparte su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello» sapeva che sarebbe stato trasfigurato «davanti a loro»?
So che sono quelle domande che non si dovrebbero mai fare, perché – come insegnano agli studiosi – al testo non si dovrebbero mai porre domande eterogenee al testo stesso, però mi pare che possa aiutarci a inquadrare un po’ la situazione.
Infatti, leggendo il resto del brano, sembra che Gesù viva con molta naturalezza questa esperienza: di lui non è raccontata nessuna reazione, nessuna parola, se non sul finale quando appunto «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Forse questo può farci dire che non è stata un’esperienza così inaspettata per Gesù; forse possiamo addirittura arrivare a dire che il suo comportamento, per come ce lo dipingono i sinottici, in quell’occasione è stato quello di chi vive qualcosa di conosciuto, quasi di usuale: Gesù non si è spaventato come gli altri.
In questa prospettiva, riprendendo la nostra impertinente domanda, potremmo dire che, sì,in qualche modo, Gesù ha scelto di portare con sé i tre discepoli (quelli delle occasioni importanti) per coinvolgerli appunto in uno dei momenti essenziali della sua identità: la sua relazione col Padre e in Lui, con la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).
Di questo rapporto, quello che emerge dai versetti matteani, sono sì i tratti classici della teofania (la luminosità, l’apparizione, la voce dalla nube…), che stanno lì a dire che appunto in gioco c’è il relazionarsi a Dio, ma soprattutto la messa in campo di una dialogicità: «Mosè ed Elia, che conversavano con lui», «una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”».
È in questa sua esperienza di relazione dialogica con Dio e con la storia della salvezza che Gesù vuole coinvolgere i suoi tre discepoli, quasi a tirarli dentro nel più intimo della sua intimità (il suo rapporto col Padre). In questo senso questa è davvero un’esperienza rivelativa, un momento cioè in cui Gesù dice davvero di sé; ma appunto lo fa non con un bel discorso, ma tirando dentro alla sua vicenda (intanto che la vive!) anche altri.
E questi altri?
Beh, questi altri… che siamo poi un po’ anche noi, fanno un po’ la figura degli inetti…
La prima cosa che si dice a loro riguardo, di Pietro in particolare (gli altri sono addirittura ammutoliti), è che prende la parola, ma, come Marco e Luca addirittura esplicitano, non sa che dire: «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento» (Mc 9,6), «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33). Matteo invece, per mostrare il suo dire inopportuno, non lo fa neanche finire di parlare: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce…».
Matteo inoltre aggiunge anche un’ulteriore notazione dell’inebetimento dei discepoli: «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore».
Pare che il tentato coinvolgimento di Gesù non sia andato a buon fine: i tre discepoli non capiscono, non sanno che dire e anzi si spaventano, tanto da ritrovarsi a terra tremanti e quasi tramortiti…
Ma non è il caso di essere troppo duri con loro, anche perché forse non sono così lontani da noi e da quell’immagine che tutti noi uomini abbiamo misteriosamente impressa nella mente di un dio spauracchio dell’uomo, di un dio rivale all’uomo, di un dio che fa paura («il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»)!
In questa ottica è comprensibile la reazione dei tre; senza contare che stiamo parlando di Ebrei, per i quali udire la voce di Dio può comportare addirittura la morte (Dt 4,32-33: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità dei cieli all'altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?»).
Eppure la voce di Dio («voce di tuono» secondo Es 19,19) stavolta aveva un messaggio di speranza: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ma neanche questo basta.
È qualcos’altro che fa da chiave di volta nell’emotività dei discepoli. Perché effettivamente un cambiamento in loro c’è; li ritroviamo infatti un versetto dopo (v. 10) tutti tranquilli che intraprendono un discorso teologico con lo stesso Gesù: «Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”».
Cosa gli ha fatto ritrovare il riordinamento della sensibilità poc’anzi così sconvolta?
È stato il tocco di Gesù: «Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».
È proprio questo modo nuovo di essere Dio in Gesù che permette all’uomo di non stare più prostrato pieno di paura, ma, toccato, di rialzarsi e coinvolgersi, in un ritorno al dialogo con Gesù, il Figlio che rivela un Dio che ama («Questi è il Figlio mio, l’amato»), che promette affidabilmente benedizione («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»). E questa è la buona notizia (Vangelo) per cui val la pena anche soffrire («soffri con me per il Vangelo»): che Dio è questo qua!

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter