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mercoledì 4 luglio 2012

XIV Domenica del Tempo Ordinario


In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone una serie di testi biblici davvero pregnanti… Contrariamente al mio solito, vorrei però stavolta provare a lasciare un po’ nell’ombra il vangelo, per concentrarmi sulla seconda lettura, quella tratta dalla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui Paolo afferma «affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina».

Questa espressione paolina è infatti troppo intessuta nelle mie viscere (e credo – proverò a spiegarlo! – nelle viscere di ciascuno) per lasciarla passar via… perché io credo di averla questa “spina”, anche se non la saprei ben definire, come quella di Paolo, rispetto alla quale intere generazioni di esegeti han provato a dire qualcosa senza arrivare a individuarla, nello specifico.

Ma il punto forse è proprio quello, che la “spina” che ciascuno ha, è talmente sua che – forse – la si può dire solo a mezza voce a qualcuno che magari, una sera, ti sta sdraiato accanto e ha voglia di ascoltarti le viscere…

Ma anche se non è “definibile”, “circoscrivibile”, se anche non la si può racchiudere in un concetto, quella di Paolo, come quella di ciascuno, credo meriti davvero di essere un po’ guardata, perché ci dice come siamo fatti e come questo nostro modo di essere determini in maniera strutturale e non contingente il nostro rapporto al Signore.


Paolo infatti dice che questa “spina”, gli è stata “data”…

Non credo che qui intenda questo passivo, in senso materialistico: non è che ad un certo punto Dio (o chi per esso) interviene nelle nostre piccole storie per inserire in maniera estrinseca (dal di fuori) una “spina”, un male… con un fine morale: «affinché io non monti in superbia»… cioè per ricordarci la nostra precarietà, a fronte della sua onnipotenza.

Credo, anzi, che quel «è stata data alla mia carne una spina», sia molto più “semplicemente” una presa di coscienza di un dato che la storia di ciascuno incontra: tutti, nel nostro costruirci come umani, ci intessiamo di una storia che nel suo dipanarsi segna sempre – nella carne (e quindi anche nello spirito) – una ferita…

Una ferita che è un po’ diversa da quella che ci possiamo fare quando ci tolgono il dente del giudizio, o ci tagliamo con una tazzina, o veniamo punti da un’ape… perché è una ferita che determina il nostro essere, che diventa non solo parte di noi, ma diventa noi, perché segna il nostro modo di stare nella vita, di amare, di decidere, di temere, di sognare…

Non voglio fare esempi, perché il rischio è quello di ridurre questa “spina” alla puntura dell’ape… Se infatti dicessi: “Un esempio di ‘spina’ potrebbe essere che c’hai il diabete che ti accompagna tutta la vita, o che ti viene la poliomielite a 5 mesi, o che ti si separano i genitori quando sei piccolo, o che cadi nel fuoco a un anno e ti rimane la faccia bruciata a vita, o che ti muore la mamma”, immediatamente la nostra testa risponderebbe: “Eh già… ma anche in tutte queste circostanze si può continuare a vivere (e non solo a sopravvivere, ma a Vivere), anzi si deve, si deve trasformare quella che lo sguardo altrui potrebbe leggere come una non abilitazione a vivere, come qualcosa invece nonostante la quale bisogna vivere!”.

E invece no!

Perché questa logica è una logica che salta la storia, che salta la carne (che – guarda caso – è proprio il contrario di quello che fa Dio in Gesù!); è una logica che “salta” appunto… che non assume, che non trat-tiene, che non considera che quella ferita non è come la puntura dell’ape, che mi lascia tale e quale a prima, ma che mi plasma e mi fa diventare ciò che sono, foss’anche un “non abilitato” alla vita dei “normali”.

Che poi chissà dove sono questi “normali”? Io non ne ho ancora trovato uno! Tutti, tutti li ho trovati con la “spina”!

E mi pare che Paolo vada anche lui in questa direzione… Ci prova – è la reazione di tutti – ad adoperare la logica che “salta” la ferita e infatti chiede a Dio per ben tre volte che gli tolga la spina («per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me»), ma poi coglie che non è così che il Signore ragiona: «Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”».

Che non è la rassegnata considerazione di chi dice “Tanto non ce la farò mai a vivere, meno male che il Signore ci penserà poi lui, con la sua grazia”, quasi che la grazia sia un aiutino che ogni tanto ci arriva per colmare quel pezzettino in più che servirebbe e che noi non riusciamo a riempire… o quella forza misteriosa che trasforma i nostri fallimenti in riuscite…

Arrivare a dire “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” è piuttosto l’approdo ad una logica nuova, quella del Signore, quella per cui la debolezza, la “spina”, la “ferita”, il non essere abilitati alla vita perché a-normali, non è un’obiezione alla vita, ma anzi è la realtà, è la verità, è ciò che siamo, è il mio essere più intimo e più vero, quello che spesso nascondo e mi nascondo, ma che per tutta la vita non fa altro che aspettare qualcuno che lo veda e lo ami.

“Ti basta la mia grazia” è il prendere coscienza che è proprio quell’intimo lì, il già da sempre visto e amato dal Signore, Lui, che in ciò che io chiamo debolezza (e che temo e nascondo, perché penso mi renda in-abile) vede “semplicemente” me e mi sorride (questa è la grazia: che Dio mi guarda e mi sorride!).

Per questo Paolo conclude: «quando sono debole, è allora che sono forte»… quando sono debole è allora che sono (punto!). E che non nascondo più, non “salto” più, non fingo più.

In questo senso mi piace concludere ricordando l’altra frase che mi ha fatto sobbalzare delle letture di questa domenica, quella che il profeta Ezechiele ascolta da Dio: «Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Un profeta – Ezechiele – che farà proprio questo: finché il popolo si sentirà (fingerà di essere) “forte”, lo sgriderà veementemente, ma quando la storia gli riconsegnerà la sua debolezza (il popolo andrà in esilio!) lo consolerà ricordandogli che il Signore non li ha abbandonati («Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti’. Perciò profetizza e annuncia loro: ‘Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò’”. Oracolo del Signore Dio», Ez 37,11-14).

Io credo che proprio di questi profeti, abbiamo bisogno anche noi – popolo dalla testa dura! – di questi uomini di Dio che ci ricordino: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»… perché non montiamo in superbia, cioè perché non falsiamo la verità della nostra identità… [non a caso “superbia” è il contrario di “umiltà”, che S. Teresa di Gesù, lontana anni luce dai nostri moralismi, definisce “la verità su se stessi”!].

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