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mercoledì 18 luglio 2012

XVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Geremìa (Ger 23,1-6)

Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia».



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 2,13-18)

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.



Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6,30-34)

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.



In questa Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario, le letture che la Chiesa ci propone, insistono sulla mancanza o sull’inadeguatezza dei pastori.

Le parole del libro di Geremia, in proposito, sono molto dure («Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati»), ma anche l’implicito giudizio di Gesù sui “pastori” del suo tempo non è meno amaro: «vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore».

In più, leggendo questi testi, sembra di sentire quasi la triste sensazione, che nulla sia cambiato…

Molti di noi oggi, a livello personale ed ecclesiale, si sentono “pecore senza pastore”, se non addirittura “gregge disperso, scacciato, dimenticato”, con la vertigine di chi si ritrova esposto alla vita, senza una voce autorevole e normativa (presso il proprio cuore) che indichi la giustezza di una via, che mostri come incamminarsi sui sentieri interrotti delle nostre vite, che rassicuri, semplicemente, essendoci.


Ci ritroviamo dispersi, spesso avventurati su itinerari in solitaria, a brindare come don Primo Mazzolari davanti ad uno specchio, dicendo “Però abbiamo ragione noi!”… ma affaticati dal dover ritrovare sempre da noi stessi le ragioni del nostro andare, credere e sperare… stanchi delle insinuazioni, botte e calunnie con cui i sedicenti “pastori” coi loro pecoroni si fanno forti… delusi da noi stessi, per le troppe volte che abbiamo pensato che “andare a fare altro” forse era meglio perché vivere all’incrocio dei venti ti fa bruciare vivo – come canta De Gregori in una delle sue più belle canzoni, Santa Lucia, che vi riporto integralmente sotto.

E allora val la pena tornare – ancora una volta – al vangelo, dove Gesù – registrando il perverso meccanismo di ogni forma di potere, anche religioso – si propone come unico pastore (“Io sono il buon pastore”), invitando tutti noi, suoi sbrindellati innamorati, a non chiamarci tra di noi maestro, padre, guida («Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo». Mt 23,8-10), ma a rimetterci dietro a lui, a lui che commosso dai nostri sbandamenti, torna a “insegnarci molte cose”… in primis quel suo vangelo, quella sua buona notizia per cui abbiamo un Padre che soli non ci lascia mai, neanche quando siamo soli…

È di lui che Gesù invita a fidarci, è su di lui che ci invita a fondarci, è in lui che ci invita ad arroccarci.

Come scrive infatti J. A. Pagola nel suo Gesù. Un approccio storico, «L’esperienza di Dio è stata centrale e decisiva nella vita di Gesù. Il profeta itinerante del regno, colui che curava gli ammalati e difendeva i poveri, il poeta della misericordia e il maestro dell’amore, il creatore di un movimento nuovo al servizio del regno di Dio, non è un uomo dissipato, attratto da interessi diversi, bensì una persona profondamente unificata intorno al nucleo di un’esperienza: Dio, Padre di tutti. È lui a ispirare il suo messaggio, a unificare la sua intensa attività e a polarizzare le sue energie. Dio è al centro di una tale vita. […] Ma qual è l’esperienza che Gesù ha di Dio? Chi è Dio per lui? Come si colloca davanti al suo mistero? Come lo ascolta e si affida alla sua bontà? Come lo vive? Rispondere a queste domande non è facile. Sulla sua vita interiore, Gesù si mostra molto discreto. Tuttavia parla ed agisce in maniera tale che le sue parole e le sue azioni ci permettono di intravedere in qualche modo la sua esperienza.

Qualcosa si avverte immediatamente; Gesù non propone una dottrina su Dio; non lo si vede mai mentre spiega la propria idea di Dio. Per Gesù, Dio non è una teoria; è un’esperienza che lo trasforma e lo fa vivere alla ricerca di una vita più degna, amabile e felice per tutti. Egli non pretende mai di sostituire la dottrina tradizionale su Dio con un’altra nuova. Il suo Dio è il Dio di Israele. […] Nessun gruppo giudaico discute con Gesù sulla bontà di Dio, la sua vicinanza o la sua azione liberatrice; tutti credono nello stesso Dio.

La differenza sta nel fatto che i dirigenti religiosi di quel popolo associano Dio con il loro sistema religioso, non tanto con la felicità della vita della gente. Per loro, la prima e più importante cosa è rendere gloria a Dio osservando la legge, rispettando il sabato e assicurando il culto del tempio. Al contrario, Gesù associa Dio con la vita: la prima e più importante cosa per lui è che i figli e le figlie di Dio godano della vita in maniera giusta e degna. I gruppi più religiosi si sentono spinti da Dio a curare la religione del tempio e l’adempimento della legge; Gesù, al contrario, si sente mandato a promuovere la giustizia di Dio e la sua misericordia.

Se Gesù sorprende, non è perché espone nuove dottrine su Dio, bensì perché lo coinvolge in maniera diversa. Non critica l’idea di Dio che viene trasmessa in Israele, ma si ribella contro gli effetti disumanizzanti prodotti da quella religione così com’è organizzata. A scandalizzare è soprattutto il fatto che Gesù non esita a invocare Dio per condannare o trasgredire la religione che lo rappresenta ufficialmente, ogni volta che essa si trasforma in oppressione e non in principio di vita», pp. 339-340.

È a questo Dio, unilateralmente ed inequivocabilmente amico dell’uomo, che Gesù ci invita a riferirci, lui che – unico pastore – si è fatto agnello con noi e per noi, per farci vedere cosa vuol dire essere figli di questo Padre.

Unici pastori, allora, ammessi nella comunità dei credenti, dovrebbero essere quelli che ti conducono al gregge e che ti mostrano come anch’essi non sono che pecore, come te; quelli cioè capaci di convertire ogni rapporto – che magari per contingenze storico-culturali nasce verticale – a orizzontalità, a fraternità, a inclusività.

Altrimenti rischiamo, con la prassi, le strutture, i compromessi, di annunciare un altro vangelo…



Per questo mi piace concludere con una preghiera laica che fa dell’empatia, cioè del «sentire e comprendere l’altro, cioè entrare in vibrazione “nel proprio interno”, con ciò che la gente sente dentro di sé» [Giuliano] la chiave della vita fraterna. Ciò di cui – forse – i nostri “pastori” dovrebbero attrezzarsi un po’ di più…



Santa Lucia, per tutti quelli che hanno gli occhi

e un cuore che non basta agli occhi

e per la tranquillità di chi va per mare

e per ogni lacrima sul tuo vestito,

per chi non ha capito.



Santa Lucia per chi beve di notte

e di notte muore e di notte legge

e cade sul suo ultimo metro,

per gli amici che vanno e ritornano indietro

e hanno perduto l'anima e le ali.



Per chi vive all'incrocio dei venti

ed è bruciato vivo,

per le persone facili che non hanno dubbi mai,

per la nostra corona di stelle e di spine,

per la nostra paura del buio e della fantasia.



Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata

e un ragazzino al secondo piano che canta,

ride e stona perché vada lontano,

fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe,

anche la solitudine.

  

1 commento:

maria sole ha detto...

Grazie e un abbraccio

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