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venerdì 27 luglio 2012

XVII Domenica del Tempo Ordinario - Gv 6 (I)


Dal secondo libro dei Re (2Re 4,42-44)

In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 4,1-6)

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.



Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,1-15)

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.



Con questa Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario, la Liturgia lascia la narrazione di Marco per aprire un ciclo di 5 settimane in cui ci viene proposto quasi per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni.

La narrazione del miracolo della moltiplicazione dei pani, diventa lo spunto per l’evangelista per intessere un lungo discorso eucaristico su Gesù pane di vita, discorso che “sostituisce” la narrazione dell’ultima cena che in Giovanni manca (al suo posto è infatti narrata la lavanda dei piedi).

Di domenica in domenica, cercheremo quindi di metterci in ascolto di questa proposta giovannea, per tentare di intercettare le numerosissime tematiche che offre.

Oggi si tratta di focalizzarsi sull’incipit e sull’occasione (il fatto!) che ingenera questo lungo discorrere dell’evangelista: la moltiplicazione dei pani (narrata ben sei volte nel Nuovo Testamento!).


Siamo al capitolo sesto – dicevamo – e visto che ultimamente siamo stati polarizzati da Marco, val forse la pena ricordare per un momento come il Quarto Vangelo (QV) abbia organizzato il materiale che aveva a disposizione. Giovanni sostanzialmente divide il suo vangelo in due parti (Gv 1,1-12,50 e Gv 13,1-21,25): la seconda tratta degli ultimi giorni della vita di Gesù, a partire dall’ultima sera trascorsa coi suoi, fino alla narrazione della sua passione-morte-risurrezione; mentre la prima – quella che più direttamente ci interessa oggi – narra del suo ministero pubblico… anche se in una modalità inedita rispetto ai sinottici.

Il QV, infatti, dopo il famoso prologo poetico («In principio era il Verbo…»), inizia con la narrazione della cosiddetta “settimana inaugurale”; una serie, cioè, di eventi, che l’evangelista organizza nello spazio di una settimana: la presentazione della figura del Battista (Gv 1,19-28), la sua testimonianza (Gv 1,29-34), il successo della sua testimonianza con i primi discepoli che vanno a vedere dove dimora Gesù (Gv 1,35-42), il diffondersi – come un passa parola – dell’incontro con Gesù fra i nuovi discepoli (Gv 1,43-51) e – infine – il primo segno, a Cana di Galilea (Gv 2,1-12). Segue poi la prima salita di Gesù a Gerusalemme (“salite” che scandiscono l’ordito narrativo), dove accade l’episodio della cacciata dei venditori e dei cambiavalute dal Tempio, con il primo battibecco coi Giudei. Questa vicenda diventa l’occasione per un fariseo, Nicodemo, di intessere con Gesù un lungo discorso sulla necessità di rinascere dall’alto (cap. 3).

Rientrando poi in Galilea, Gesù passa dalla Samaria, e anche lì si intrattiene in uno dei dialoghi più significativi di tutto il NT, quello con la donna samaritana, sull’acqua viva che zampilla per l’eternità (cap. 4). Prima dell’inizio del quinto capitolo, è narrato un nuovo “segno” di Gesù a Cana di Galilea: la guarigione del figlio di un funzionario reale.

Infine – al capitolo 5 – viene narrata la seconda salita di Gesù a Gerusalemme, dov’egli guarisce l’infermo della piscina di Betzaetà, che diventa l’occasione per una nuova disputa con i Giudei, perché questa liberazione dal male, avviene in giorno di sabato.

È alla fine del lungo discorso che Gesù fa ai Giudei, che inizia il nostro capitolo 6, con l’annotazione geografica che ci informa come Gesù sia frattanto tornato in Galilea. È lì – sull’«altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade», che si svolge la vicenda: «Lo seguiva una grande folla»… «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi».

C’è tanta gente, dunque, intorno a Gesù… e in qualche modo questo “tira su il morale”: in tanti lo seguono! Ma immediatamente Giovanni annota, che la motivazione del loro andargli dietro era legata ai “segni che compiva”.

Non lo dico in maniera sprezzante, tutti si incamminano dietro a lui, perché intuiscono in ciò che dice e in ciò che fa, che il personaggio è interessante: anche noi abbiamo fatto (e forse spesso ancora torniamo a fare) così!

Lo dico, per sottolineare come l’atmosfera sia quella di un grande entusiasmo, che però ha qualcosa di effimero, che lascia come un sapore amaro: non è un quadro – questo iniziale – di totale lucentezza e limpidità. E Gesù lo sa: lo sa meglio di tutti e – come vedremo settimana prossima – avrà qualcosa da dire in proposito.

Eppure, dentro a quest’atmosfera dove il chiaro e lo scuro si rincorrono, il passo che Gesù muove è quello della compassione: «Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”»… In queste parole riecheggiano infatti quelle di settimana scorsa, quando Gesù alzando gli occhi sulla folla «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».

È uno dei tratti più belli della personalità di Gesù (e quindi del volto del Padre), quello cioè per cui, di fronte alla mai piena lucentezza dell’uomo (noi tutti siamo quei perenni ambigui uomini opachi), Lui si china, ci nutre, si mette a insegnarci tante cose… Non si arrabbia, non chiede una preventivo livello di adeguatezza, un certificato che garantisca la nostra fedeltà… Sa che ce ne andremo tutti, prima o poi, ma – proprio come col giovane ricco – comunque ci fissa e ci ama.

Nel contesto di Giovanni 6, questo lineamento del suo essere, si esplicita nel desiderio di nutrire questa processione di sperduti (come è ogni generazione che passa su questa terra). Ma i pani sono pochi, non c’è dove comprarli… arriva un ragazzino, ha qualcosa, 5 pani d’orzo e 2 pesci… MA CHE COS’È QUESTO PER TANTA GENTE?



Il prof. Pierangelo Sequeri ha scritto un libro (che consiglio a tutti!) con questo titolo. Si tratta di un tentativo di raccontare i sacramenti cristiani. Il significativo sottotitolo recita infatti: Itinerario rieducativo al sacramento cristiano

E quando deve parlare della comunione, mette all’inizio proprio il nostro brano di vangelo, e poi scrive:

«Tu che porti nella celebrazione comune? Il Signore Gesù è in grado di far diventare cibo per un’immensa folla pochi spiccioli di pane e di pesce. Ma la bellezza del segno è che egli non moltiplica propriamente il cibo, bensìla disponibilità di alcuni a prendersi cura della fame degli altri. Della fame altrui, capisci? Qualcuno deve sporgersi oltre la propria fame, affinché tutti siano saziati. I discepoli sono quelli che celebrano, nell’eucaristia, la loro disponibilità a sporgersi, nella vita, oltre la propria fame. E questo deve apparire nella celebrazione dell’eucaristia.

[…] L’eucaristia è il buon pane che ci nutre. È il pane spezzato che ci dà la grazia di riuscire a sporgere ben oltre la nostra vita in favore della vita altrui. Ha bisogno del nostro desiderio di stare con il Signore e di mangiare la Pasqua con Lui, per imparare a vivere per Lui. E a morire per altri. Sarà sempre poco quello che noi portiamo all’eucaristia. E sempre distratti ci ritroveremo, lì, nell’ascolto della parola. Ma se desideriamo ascoltare anche per altri, la parola arriverà pure a noi. Se desideriamo che altri abbiano cibo, noi stessi verremo abbondantemente nutriti.

[…] Basterebbero un pesciolino e un pezzettino di pane che noi avessimo portato per altri, e già il rito sarebbe stato diverso e rifocillante per molti. E ne avanzerebbe. Quando noi invece diamo la sensazione di resistere eroicamente davanti al Signore, per avere il diritto di occuparci d’altro, dobbiamo domandarci: qualcuno di noi aveva portato un pesciolino?

Perché se non c’era nulla da moltiplicare per altri, anche il nostro pesciolino resiste poco. E dopo mezz’ora già puzza, e noi stessi non ne possiamo più mangiare. Così il pane spezzato rimane da solo: come la prima volta, quando il Signore va in croce da solo e i suoi discepoli se la squagliano. E si domandano, pur con affettuosa nostalgia del Signore e apprezzamento sincero di Lui, “che cosa ci è rimasto?”.

Succede anche a noi. È necessario che meditiamo con molta umiltà e con molto amore sulla desolazione dell’eucaristia che non diventa né cammino né sosta con il Signore. La placida rassegnazione che spesso contraddistingue questa liturgia non ci commuove abbastanza. La futile ilarità che la precede e la segue non promette nulla di buono per la prossima volta.

Non è neppure necessario che tuttiabbiano le sporte piene di pani e di pesci. Basterebbe qualcuno. E sarebbe necessario che qualcuno di coloro che vigilano affinché tutto rimanga esattamente così come sta (ci sono “commissioni liturgiche” che ne fanno un punto d’onore) si lasciasse riscaldare dal cuore della parola del Signore che spiega la necessità della sua morte commentando le scritture, e si lasciasse commuovere dalla tenerezza di Gesù che pensa a non lasciare senza nutrimento nessuno di coloro che ascoltano la sua parola. Basterebbe questo e, come d’incanto, tutti si troverebbero con un buon pane in mano: anche molti che vengono alla messa senza sapere bene perché. E ne uscirebbero con la sensazione di aver ricevuto, magari per la prima volta nella loro vita, non un “esorcismo” ma un buon “nutrimento”. Se non accade, è sicuro che non c’era nessuno, disposto a mettere a disposizione degli altri neppure due miserabili pesciolini».

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