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martedì 5 novembre 2013

XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Maccabei (2Mac 7,1-14)

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco teglie e caldaie. Appena queste divennero roventi, il re comandò di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre. Dopo averlo mutilato di tutte le membra, comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo quando ancora respirava. Mentre il fumo si spandeva largamente tutto intorno alla teglia, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, dicendo: «Il Signore Dio ci vede dall’alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente: “E dei suoi servi avrà compassione”». Venuto meno il primo, allo stesso modo esponevano allo scherno il secondo e, strappatagli la pelle del capo con i capelli, gli domandavano: «Sei disposto a mangiare, prima che il tuo corpo venga straziato in ogni suo membro?». Egli, rispondendo nella lingua dei padri, protestava: «No». Perciò anch’egli subì gli stessi tormenti del primo. Giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita”.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2Ts 2,16-3,5)

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Da vangelo secondo Luca (Lc 20,27-38)

In quel tempo, gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

I testi che la liturgia di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.

In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…

Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita nell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte… possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo?

E se ritengo Gesù credibile, come la fiducia in una vita che non finisce nella tomba riscrive la mia vita nell’aldiqua?

Per tanti secoli, una certa predicazione ha portato avanti l’idea che se esiste la vita eterna, allora tutto l’aldiqua si gioca nel “guadagnarsi” il paradiso, accumulando meriti presso Dio…

Ma – tornando nuovamente all’annuncio di Gesù – la prospettiva evangelica sembra essere altra: Gesù non insiste mai sulla necessità dell’uomo di meritarsi qualcosa da Dio. Piuttosto la sua insistenza è perché l’uomo accolga il messaggio di un Dio-Padre che porta la salvezza, non che chiede di guadagnarsela.

E non chiede che l’uomo l’accolga, per dire che – conseguentemente – chi non la accoglie non si merita il paradiso, ma perché chi la accoglie ha già la possibilità nell’aldiqua di vivere una vita da salvato: una vita cioè che l’uomo non ha bisogno di redimere, ma che ha solo la preoccupazione di vivere; senza quella competizione con l’altro che ogni meta (foss’anche quella della salvezza eterna) ingenera tra fratelli/concorrenti, ma quella di chi – proprio perché la sua vita è già salvata da un Altro – può dedicarsi alla costruzione del mondo come Dio lo vuole, un mondo in cui ciascuno trovi la sua pienezza umana. Solo per questo motivo il cristiano è disposto a privarsene personalmente (addirittura a perdere la sua vita), come Gesù: che proprio per testimoniare l’amore di Dio per tutti, ha accettato di morire. Nient’altro può giustificare una morti-ficazione della propria vita o l’insegnamento della morti-ficazione della vita altrui.

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