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venerdì 27 giugno 2008

Pietro e Gesù: l'uomo che dà credito a Dio e Dio che dà credito all'uomo

In questa XIII domenica del tempo ordinario la Chiesa celebra anche la festa dei santi Pietro e Paolo. Le letture proposte infatti, fanno riferimento proprio ad essi, alla loro vita, alle situazioni che si sono trovati a vivere, alle loro parole.
Più che il ribadire l’ovvia decisività di questi uomini nella vita della Chiesa, mi pare sia di maggior interesse il tentativo di leggere quanto la liturgia ci propone, liberi dai pregiudizi che la storia (confessionale) ha posto sulle spalle di noi cristiani del 2000.
Mi spiego: leggendo questo brano del Vangelo di Matteo (16,13-19), a me inevitabilmente e involontariamente salta subito in testa l’idea che siamo di fronte alle parole che fondano, da un lato, il ministero petrino, per cui l’espressione di Gesù «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» sarebbero l’istituzione del primato papale; e dall’altro, con la frase «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», il sacramento della confessione, come ce l’abbiamo in testa noi, con il sacerdote come ministro, la stola viola, ecc...
Questa immediatezza con cui la nostra testa legge una cosa e ne pensa un’altra, è frutto di quella sedimentazione culturale che l’umanità, e in essa anche la chiesa, porta avanti generazione dopo generazione e che noi introiettiamo semplicemente perché ne siamo impregnati fin da subito: la succhiamo dal seno di nostra madre.
Eppure, alla luce del rinnovamento degli studi biblici e teologici del secolo scorso, dei loro risultati, della fatica di uomini che hanno passato la vita sui libri per studiare, approfondire, capire (spesso osteggiati, frenati, perseguitati dal Magistero), non possiamo più accettare questo fascio di pregiudizi con cui leggiamo il vangelo: dobbiamo toglierci le lenti distorte con cui guardiamo al testo e tornare a farlo parlare.
Anche perché se solo ci fermassimo un attimo, già da soli capiremmo l’assurdità di quanto immediatamente ci viene da pensare: davvero Gesù, in quel momento a Cesarea di Filippo, rivolgendosi a Pietro, ha in testa la storia dei papi? Davvero dicendogli «tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», Gesù pensava ai nostri confessionali intarsiati e alle loro lucine verdi e rosse perché il fedele sappia se sono liberi o occupati?
Non voglio esagerare nella demitizzazione, e ovviamente è giusto che, chi oggi si occupa teologicamente o magisterialmente del primato petrino e del sacramento della riconciliazione, faccia riferimento a questi testi; ma, concesso questo, a noi rimane il dovere di evitare di distorcere il testo, ricollocandolo nel suo contesto e non riferendolo immediatamente ai problemi ecclesiali odierni.
Il contesto proprio del brano dunque è quello in cui Gesù, «giunto nella regione di Cesarèa di Filippo», dopo 16 capitoli in cui Matteo ha tentato di delineare il suo volto, pone la domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi hanno percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».
La vita pubblica di Gesù è ormai ben avviata, a questo punto del vangelo infatti Gesù ha già detto molte cose (Matteo nei capitoli precedenti ha infatti già riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole), ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei) ed è come se volesse fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?
Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; risposta che fa sussultare Gesù, a cui addirittura scappa detto «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Tenendo sempre presente quanto detto sulla necessità di liberarci dai pregiudizi nella lettura e interpretazione del testo, proviamo a guardare semplicemente alla dinamica che si sviluppa tra Gesù e Pietro.
Gesù sta tastando il terreno, vuole capire in che misura ciò che dice e fa, mostri effettivamente alla coscienza della gente chi lui sia. Questa è la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra.
Perché è così importante per Gesù che l’uomo non fallisca l’idea su di lui? Perché nello svolgersi della storia di questo uomo, si rivela Dio. E Gesù sa bene che dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso in cui imposta la sua vita, la sua idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...
L’interrogazione di Gesù dunque non è un pour parler; mostra anzi il costruirsi storico della rivelazione di Dio: Gesù infatti non è solo l’occasione del rivelarsi di Dio, non è il portatore di una serie di norme o definizioni, piuttosto «Questi è Dio», cioè quella libertà storica (di Gesù) nel suo decidersi in nome del Padre!
Ecco perché è così importante anche la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nella categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile dalla categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio. La Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico (da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani) è una delle bestemmie peggiori, perché infrange in primo (e più importante) comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» (Dt 5,6-7).
Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore «Beato sei tu, Simone»! Ed ecco anche perché proprio qui, dopo questo riconoscimento di Pietro, Gesù pone nei suoi confronti parole così cariche: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ancora una volta proviamo a fare una piccola pausa prima di lasciar scorrere il flusso dei pensieri: perché associare immediatamente la pietra su cui si edifica la chiesa, con la cattedrale di san Pietro o le chiavi del regno dei cieli, con l’accesso, permesso o vietato, al paradiso è, non solo banale, ma sbagliato!
Un discorso molto più serio è piuttosto quello di soffermarsi su ciò che qui Gesù sta facendo: di fronte alla professione di fede di Pietro, cioè di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Gesù e in lui, di Dio, Gesù risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ecco la dinamica seria, e insieme sconvolgente, che c’è dentro a questo testo: che la vita dell’uomo non è costituita solo da una fiducia anonima e infantile in un dio che sta nell’alto dei suoi cieli, ma che la vita dell’uomo è Vita proprio perché consiste nel dare credito che essa è possibile perché fondata su un Altro, che ha il volto di Gesù Cristo, che a sua volta si fida di me, dà credito alla mia buona riuscita.
Eppure senza neanche girare una sola pagina del vangelo, sembra che questo credito accordato a Pietro da Gesù, sia mal riposto. Dopo il nostro episodio infatti Gesù pone un ulteriore gesto di rivelazione della sua identità: forse incoraggiato proprio dalla risposta di Pietro annuncia la sua passione. «Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”». E Gesù: «Lungi da me satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Ma come? È lo stesso Pietro di un attimo fa, lo stesso Gesù... Cosa ha rotto quella che sembrava la reciproca fiducia, tanto che Pietro, a chi ha appena chiamato Messia e Figlio di Dio, si sente in dovere di fare un rimprovero; e Gesù, a chi ha appena detto «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», «A te darò le chiavi del regno dei cieli», risponde ora appellandolo satana?
In realtà non si tratta di una rottura del rapporto di fiducia, ma ancora della preoccupazione di Gesù che essa abbia il referente veritiero. Ciò che Pietro, pur avendo dato la risposta giusta alla domanda «Voi, chi dite che io sia?», non ha ancora capito è in che senso vada intesa la sua risposta: in che modo cioè Gesù è Messia e Figlio di Dio? E la prospettiva che Gesù stava lanciando – quella della croce – («Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» Mt 16,21) non gli pareva compatibile con l’idea di Messia e Figlio di Dio che aveva in testa lui.
Ecco perché Gesù è così intransigente: perché la questione è teologica, si tratta proprio del modo di intendere ‘Dio’ e dunque l’uomo. È questa la fatica che Pietro – e con lui tutta la Chiesa – deve intraprendere, immischiandosi nella vicenda storica del Figlio! Un intreccio di libertà fondata sul credito che l’uno dà all’altro. Con la consapevolezza che se anche l’uomo a volte confonde Dio con il serpente, Dio non lo confonde mai con l’uomo. Tanto che, se anche io disperdessi questa fiducia in me, la tiene salda lui per me. Neanche il mio peccato intacca questo suo darmi credito, perché ai suoi occhi io non mi riduco mai a quello che ho fatto!

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bel discorso!!! Molto teologico e poco ancorato alla storia reale... Ma perchè la preoccupazione deve essere sempre quella di difendere uno spirito (carisma?) contro gli assalti del temuto Primato petrino? Il fatto che Gesù non abbia pensato alla storia dei papi durante l'elezione petrina, è irrilevante! Ma noi sappiamo, per esperienza, che il potere fa gola a tutti: è uno stato, quello del potere, che non resta mai disabitato!!! Nella sua millenaria sapienza la Chiesa ha colto questo pericolo è ha prefrito, ad una comunità dispotica, una "congregatio Fidelium" gerarchizzata. E' questa scelta nasce in seno ai monaci e laici, non certo nella mente dei vescovi o del papa. E' un fervorino carino, ma un pò troppo pietista!!!!!!!!!!!!!!!!!!

mario ha detto...

Caro Anonimo, proprio non capisco il tuo commento:
forse hai letto con troppa fretta perché non credo che qui si voglia difendere chicchessia dal primato petrino che per questo non è temuto qui da nessuno ma anzi auspicato e evocato nella sua autenticità non solo scritturistica.

In quanto al fatto che il potere faccia gola a tutti, non so cosa intendi con questo tutti, perché ti assicuro che conosco molti a cui invece "comandare" fa persino paura: io personalmente poi preferisco una donna a una poltrona... È vero però che molti vi aspirano come insegna il vangelo stesso che non nasconde (differenziandosi da certi moderni apologisti) le "voglie" di potere (primeggiare, guarda caso) anche degli apostoli: come vedi il problema è "genetico" e Gesù dà la sua chiave risolutiva a cui noi non possiamo non associarci...

Inoltre:
- non mi sembra che quello che pensi o abbia pensato Gesù sia "irrilevante" per un cristiano...
- nella storia bi-millenaria della Chiesa, essa è stata saggia e stolta, è stata ed è santa e meretrice allo stesso tempo: se non si vuole scadere nel moralismo bisogna tenerli entrambi! Infatti come per il mistero della persona di Cristo non basta sottolinearne un solo aspetto per poterne cogliere la complessa verità della sua persona, così il mistero della Chiesa è colto nella sua totale bellezza solo se è "com-presa" la totalità della sua realtà: il suo essere santa, non tanto perché impeccabile ma perché continuamente perdonata e salvata da Cristo: perché cioè si riconosce meretrice, o se preferisci, si “riconosce” santa perché si riconosce meretrice perdonata...

Restano ancora alcuni dubbi sul tuo anonimo commento che forse domandano un ulteriore chiarimento:

1) Che cosa intendi quando dici E' questa scelta nasce in seno ai monaci e laici, non certo nella mente dei vescovi o del papa?
2) Non ti appare "buffo" che non ti interessa (se irrilevante!?) cosa pensi Gesù e invece sei preoccupato (e sembra che tu conosca alla perfezione) di quanto pensano vescovi e papi?...
3) La conosci la differenza tra "essere cattolici" ed "essere papisti"?
4) Non credi che sarebbe buona azione cristiana non solo uscire dall'anonimato ma anche ridurre il numero dei punti esclamativi? li hai contati? Cordialmente.

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