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giovedì 5 giugno 2008

Voglio l'amore e non il sacrificio

«Possiamo anche stordirci con la retorica, pur di sfuggire alle nostre inquietudini e lasciare tranquilla la gente. Ma non dovremmo troppo disinvoltamente sfuggire alle nostre responsabilità, soprattutto se siamo credenti» [P.A. Sequeri, Il timore di Dio, 125]. E di fronte alle letture che la Chiesa ci propone per questa decima domenica del tempo ordinario, non sfuggire alle nostre responsabilità vuol dire far parlare questi testi, senza stordirci con la retorica, senza annacquare, attutire, stemperare il potenziale esplosivo che contengono: «voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti».
Già solo questa affermazione infatti, contenuta nel libro del profeta Osea e per altro ribadita da Gesù stesso («Misericordia io voglio e non sacrifici»), se presa sul serio, sarebbe capace di scardinare la religiosità arcaica che abbiamo radicata nel profondo. Una religiosità che:
- da un lato ha in testa un dio ambivalente, capriccioso, dal quale può venire per l’uomo tanto il male quanto il bene e perciò va placato, rabbonito, ingraziato con sacrifici, olocausti, rinunce… un dio che, ritradotto dal potere religioso costituito, istituisce leggi e codici e cavilli giudiziari, tutti discriminanti tra chi riesce a soddisfarlo, accontentarlo, conquistarlo e chi invece in una trasgressione si brucia la vita nell’aldiqua tanto quanto nell’aldilà…
- e dall’altro propone una tipologia di relazioni tra gli uomini concorrenziale: non solo la lotta per la sopravvivenza nell’aldiqua ci fa rivali, ma anche la corsa per conquistarsi l’aldilà. Tant’è che la frase dei farisei che riporta Matteo lascia trapelare che proprio da questo sono scandalizzati: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Come mai cioè uno che pretende di parlare in nome di Dio, addirittura di essere suo Figlio, trasgredisce la discriminatorietà tra buoni e cattivi, tra giusti e peccatori, tra sani e malati, cambiando le regole del gioco? Rompendo cioè il tentativo dal basso di regolamentare l’arbitrarietà di dio?
Questa affermazione dei farisei, come le tante altre discussioni con Gesù, come per esempio quella riguardante le guarigioni in giorno di sabato, o quella sul digiuno, rivelano chiarissimamente come essi non lo percepiscano conforme e nemmeno compatibile con questa religiosità. E di fatti Gesù la fa esplodere!
Innanzitutto (per esempio con la parabola degli operai che ricevono tutti la stessa paga pur avendo lavorato per più o meno ore) rivela come la logica della giustizia di dio che regolamenta la sua arbitrarietà sia infantile e solo falsamente acquietante: perché, se anche io rispettassi tutte le norme di giustizia, chi mi assicura che questo basterebbe agli occhi di un dio capriccioso? Se l’asticella dell’accesso al paradiso si alzasse proprio quando arrivo io?
Mostra dunque per prima cosa, come il problema del rapporto con Dio non si possa risolvere così! E a noi forse, dopo questa digressione, pare scontato, ma quante volte ci ritroviamo a fare o non fare qualcosa per paura che dio “veda e provveda”; quante volte scegliamo in base al criterio del “far contento dio”, del “non farlo arrabbiare”; e quante volte l’abbiamo insegnato ai nostri figli? Alimentando a nostra volta la paura di vivere nell’aldiqua, per non perdere l’aldilà?
Ma tutto questo oltre a essere «un pio oltraggio all’intelligenza», per rubare una celebre frase di Maritain, è anche un pio oltraggio al vangelo, alla buona notizia di Gesù per il quale Dio sta sempre dalla parte dell’uomo!
Ecco infatti un altro tratto della sua incompatibilità con la struttura religiosa che ci portiamo dentro e che lui vuol abbattere: è venuto «non a chiamare i giusti, ma i peccatori»!
Ed ecco la reazione violenta contro di lui, che lo porterà alla morte, nata da un inaccettabile stravolgimento della idea di Dio e di conseguenza da un inaccettabile stravolgimento dell’idea dell’altro!
Perché quello che fa problema qui (e lo fa così spesso anche a noi) è il bene che capita a un altro, che immancabilmente è sentito come un bene che è tolto a me, soprattutto se l’altro non se lo merita e io sì! Ma è proprio questo il meccanismo, così immediato in noi, che Gesù vuole sradicare, perché dietro a questo ragionamento c’è l’idea di un dio da meritarsi (non gratuito e quindi non amante) e di un “prossimo” da vincere o, peggio, di un rivale da sopprimere.
È questo il fulcro vitale in base a cui si imposta la vita: che Dio e dunque che Uomo hai in testa? È quello che Paolo dice di Abramo, il quale «di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento». Ecco il dar credito originario (perché originante ogni nostra successiva determinazione e modalità d’essere): la fiducia nella promessa iscritta nella vita, la fiducia nella vita, nel senso della vita, che per Gesù è che essa è fondata sulla paternità di Dio e sulla fraternità degli uomini.
Per dirla facendoci aiutare da Sequeri: «più che rappresentare un elenco di immagini destinate a comporre il quadro scolastico di una definizione di Dio e della sua giustizia» Gesù sembra voler «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza. Una sorta di estremo e radicale confronto fra il suo inconscio e il nostro: davanti al quale dobbiamo prendere posizione noi stessi. Gesù sa, con una forza e una trasparenza che non attingono da nessuna istruzione a noi accessibile, chi è Dio. […] Ma pure nella nostra memoria è iscritta, ben più a fondo di qualsiasi catechismo ricevuto, l’ancestrale memoria della qualità non originaria e non assoluta dell’ambivalenza con la quale pensiamo Dio. È a questa che Gesù vuole ridare tutta la sua forza. È a questo movimento profondo di identificazione , della nostra vaga memoria con la sua acuminata certezza, che ci viene chiesto – prima di tutto e dopo tutto – di consentire».
Ecco la conoscenza di Dio a cui ci invita Osea…
Ma da un Dio così non può che venire l’invito «Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”»!
Eppure… come dice ancora Sequeri: «Interroghiamoci francamente: ci fa piacere naturalmente pensare che Dio è così, quando si tratta di noi. Ma, […] se siamo sinceri fino in fondo, possiamo facilmente liberarci da un vago senso di disagio, allorché cominciamo a pensare in termini generali alla “giustizia” di questo eccesso della letizia del Padre? […] L’immagine dell’abbà non ferisce forse l’egoismo della salvezza di chi si sente colpito a morte dalla dedizione di Dio anche per l’altro?».
Ma è proprio questo sguardo che poniamo sull’altro la cartina tornasole della qualità della nostra scelta fondamentale: infatti, «se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
E questo amare va preso in senso forte! Dicevo: è lo sguardo che poniamo sull’altro. Se quello della competizione, della paura, del sospetto… o se quello dell’accoglienza, della cura, della solidarietà…
Uno sguardo che si fa storia, decisione, impegno… uno sguardo che diventa più normante di qualsiasi norma, più vincolante di qualsiasi vincolo (familiare, istituzionale, legale…), più obbligante di qualsiasi obbligo! Perché nell’amore, quello vero (che è quello che ci ha insegnato Gesù incarnandolo), sono implicate la dedizione, la cura, il rispetto, l’accudimento, l’ascolto, la custodia… A un innamorato nessuno deve ricordare di baciare la sua donna; a un padre nessuno deve imporre di accarezzare suo figlio…
La soglia che deve essere superata però è quella dell’amore dei “nostri” per accedere all’amore tendenziale per tutti. Non che l’amore per i nostri vada castrato, anzi: è la matrice dove impariamo la dedizione, nella persuasione (da cui non si può più tornare indietro quando la si sperimenta) che solo nell’amore si può accedere all’inaccessibilità di ciascuno, Dio compreso! Ma che appunto deve farsi matrice per l’amore a tutti, perché quello sguardo sia lo sguardo con cui guardiamo tutti.
Impossibile? Beh, sicuramente segnato dalla drammaticità della vita, dalla fatica, dal non essere sempre all’altezza, dalle nostre sbavature… ma: o ci si persuade di questo (non solo intellettualmente, ma esistenzialmente) o c’è ancora qualche bastione da abbattere, nella nostra interiorità, nelle nostre comunità, nella nostra società, nella nostra chiesa…
E a chi pensasse, dentro o fuori la chiesa, che questo abbatterebbe ogni ordine costituito (e penso alle ipotesi di legge sull’immigrazione, alle politiche ecclesiastiche sui divorziati, per fare solo qualche esempio attuale), ricordiamo solo che per Gesù è sempre contata più la faccia dell’altro, che l’ordine costituito… e per questo c’è morto… urlando «Misericordia io voglio e non sacrifici»!

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