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venerdì 10 ottobre 2008

L'assurdo dell'uomo: il rifiuto di ciò che è Vita

Come nelle domeniche precedenti, anche in questa (ventottesima del tempo ordinario) ci troviamo nel contesto della polemica di Gesù (appena entrato a Gerusalemme) con i capi dei sacerdoti e i farisei. Il testo di Matteo che la liturgia ci propone è costituito nuovamente da una parabola: l’ultima di questa serie, dopo quella dei due fratelli (Mt 21,28-32) e quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45): si tratta della parabola della grande cena.
La trama è nota, anche se l’abitudine ad ascoltarla non deve far correre il rischio di perdere la capacità di cogliere le numerose sorprese e i colpi di scena che la caratterizzano: si parla di un re che manda i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze del figlio. L’invito è presentato a due riprese, con insistenza, ma entrambe le volte, nonostante le aspettative, esso viene rifiutato (questa è la prima sorpresa). Ciò che colpisce è che si tratta di un diniego senza motivo: per alcuni infatti l’invito non è importante («non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari»); per altri è addirittura irritante e fonte di una reazione omicida («altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero»). Il rifiuto degli invitati suscita così la rabbia del re, che reagisce duramente («il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»), ma egli – e questa è la seconda sorpresa – non desiste dalla sua iniziativa. Manda così di nuovo i suoi servi con l’ordine, questa volta, di invitare «tutti quelli che trovano, cattivi e buoni». «E la sala delle nozze si riempì di commensali».
La storia potrebbe finire qui... Invece prosegue con un’ultima scena. Anch’essa immancabilmente contiene una sorpresa: il re infatti, entrato nella sala, vede un uomo senza abito nuziale e decide di ordinare ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
Questa la parabola. Ma come va intesa questa narrazione? Chi rappresentano questi personaggi? E che senso hanno i colpi di scena che l’autore continuamente inserisce?
La prima cosa da mettere in chiaro è la necessità immediata di smascherare il pericolo di un’interpretazione distorcente: ad un primo sguardo infatti verrebbe istintivo fare una lettura di questa parabola che rimandi alla fine dei tempi. In questo senso perciò il re sarebbe Dio, il banchetto il paradiso, il fuori, in cui viene gettato colui che non ha l’abito nuziale, l’inferno; e così via...
Ma, a parte la difficoltà di rendere ragione del fatto che il Dio rivelato da Gesù Cristo ragioni come il re di questa parabola («il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città» - che tra l’altro pare essere un versetto inserito probabilmente dopo la distruzione di Gerusalemme per opera dei Romani nel 70 d.C.), anche stando solo al testo è chiarissimo che «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio». Non dunque Dio, ma il regno dei cieli è paragonato a questo re. E seppur è vero che il regno dei cieli è il mondo come Dio lo vuole (non dunque immediatamente e unilateralmente il paradiso!), è vero altrettanto che non si tratta di Dio.
Perché è necessario fare queste precisazioni? Perché altrimenti sarebbe troppo facile ricadere nei classici luoghi comuni per cui la parabola parlerebbe del Dio giudice, dei buoni dentro e dei cattivi fuori e si perderebbe l’occasione di cogliere la novità di Gesù: che dio è lì col bilancino quando muori e che se sei stato bravo vai in paradiso e se sei stato malvagio vai all’inferno, lo si sapeva infatti già prima di Cristo. Non c’era certo bisogno che si desse tanto da fare (addirittura morire) per annunciare ciò che era già noto dall’alba dei tempi...
Forse però è proprio qui l’inghippo per chi (come purtroppo anche molti cristiani) la fa così semplice: che Gesù è venuto a dire altro, a rivelare il Dio che è totalmente Altro rispetto a quello che possono immaginarsi gli uomini, e che proprio per questo va ascoltato con attenzione, senza la sufficienza di chi pensa che tanto son sempre le solite cose («Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: “Su questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta», At 17,32) o la supponenza di chi crede di aver inquadrato dio nel suo schemino e vuol far tornare i conti («mormoravano dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato per un’ora sola e tu li hai equiparati a noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo della giornata”», Mt 20,11-12).
Tornando alla nostra parabola e tenendo ben presenti le precisazioni fatte, proviamo allora a ripercorrere il testo e a dare qualche indicazione per la risposta alle domande che si siamo poste.
Dicevamo che il paragone proposto da Gesù non è tanto tra Dio e il re, quanto tra quest’ultimo e il Regno dei cieli. Dicevamo anche che l’espressione regno dei cieli non va identificata totalmente ed esclusivamente col paradiso, ma piuttosto va associata a quella di regno di Dio e dunque indicherebbe il mondo (di qua) come Dio lo vuole. Esso è simile a un re che fa un banchetto nuziale per le nozze del figlio e manda a chiamare gli invitati.
Essi però non vengono. Il testo non riporta né il loro pensiero, né esplicita le loro motivazioni, o giustificazioni, o scuse. Semplicemente indica il fatto del loro diniego.
È evidente che dietro a questo rifiuto si cela la polemica della non accoglienza del Messia da parte degli Ebrei, ma la logica che il testo sembra far trasparire, rompe la contingenza storica e si apre alla struttura di sempre del cuore dell’uomo. Il problema in campo è dunque il rifiuto, il rifiuto immotivato! È il problema di sempre: da Adamo ed Eva, che senza motivo rifiutano la paternità di Dio, a Israele che non accoglie il Messia e anzi lo crocifigge; fino ad arrivare ai giorni nostri dove continuamente senza uno straccio di buona ragione si respinge l’invito al banchetto, si respinge il vangelo, la buona notizia sulla nostra vita, che – per rubare le parole a un noto teologo – non è la stessa cosa che respingere il parroco, perché se a qualcuno non gli piace il nero, si può discutere: nessuno di noi infatti è semplicemente il Regno (neanche il parroco)... ma rifiutare l’amore cristico – l’amore che cioè sa morire per l’altro – come il bene della vita dell’uomo, è un’altra cosa... è il dramma del peccato del mondo, che Paolo ha descritto magistralmente nella sua lettera ai Romani: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [...] Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7,15.19).
È l’auto-distruttività di questo marchingegno che la parabola vuole smascherare. Per questo usa termini così duri: il rifiuto del Regno è la morte dell’uomo! Non per ritorsione o punizione divina (questo non è vangelo!), ma perché Dio sta dalla parte della vita, dell’esser-ci dell’uomo, della sua libertà, della sua integrità, della sua dignità, della sua gioia... Il Regno di Dio infatti non è quell’impalcatura di dottrine, codici etici e spiritualismi mortificanti che purtroppo a volte ci hanno insegnato (se fosse questo il rifiuto non sarebbe immotivato); secondo Matteo 11,4-6, il Regno di Dio sono piuttosto occhi ciechi che ci vedono, gambe storte che si raddrizzano, pelli deturpate che si aggiustano, orecchie sorde che ci sentono, cadaveri che vivono, afflitti che ridono...
È il rifiuto immotivato di tutto questo, l’assurdo incomprensibile della storia, che fa usare a Gesù parole di fuoco; ma proprio perché ci si renda conto di cosa c’è in gioco!
Ecco la necessità del re della parabola di mandare i servi a chiamare tutti quelli che trovano, buoni e cattivi! Perché da questo banchetto nessuno è escluso, se non è lui a rifiutare l’invito. Non vale neanche il discrimine morale: sono invitati sia i buoni che i cattivi!. L’aveva già intuito Isaia: «Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande».
Ma... se è per tutti, quello senza abito nuziale?
Lungo la storia sono stati moltissimi i tentativi di identificare cosa si celasse dietro a questo abito; essi spesso erano figli della mentalità che leggeva questo brano come descrizione dell’inferno/paradiso, per cui il fervore di conoscere cosa fosse questo abito nuziale, era dettato soprattutto dalla paura di ritrovarvisi senza al momento giusto... Esso dunque a più riprese è stato identificato col battesimo, con la morte in stato di grazia, con una condotta di vita moralmente inoppugnabile, e via discorrendo...
Il punto debole di tutte queste letture però è che perdono di vista il testo, tentando di sovrapporgli problematiche e riflessioni a lui del tutto estranee... Esse, sebbene in passato abbiano nutrito la fede di molti cristiani e anche solo per questo vadano guardate con rispetto, paiono però non cogliere nel segno.
Stando al brano, forse, tutta l’enigmaticità di questo personaggio si scioglie, osservando semplicemente che ciò che gli viene rimproverato (e per cui poi è giudicato) è la mancanza dell’abito nuziale, cioè il fatto di trovarsi al banchetto ma con in mente (e addosso) altro. Ricordando poi che la parabola è rivolta agli uomini religiosi del tempo, vien da pensare che i referenti siano tutti coloro che dal punto di vista di Gesù “usano” del Regno, ma per fare altro...
Molto probabilmente perciò siamo nuovamente di fronte alla condanna da parte di Gesù dell’ipocrisia della maschera religiosa, la peggiore, stando al vangelo, quella che annichilisce l’uomo nella sua interiorità più intima, nel rapporto con Dio («Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito», Mt 23,4), al solo scopo di preservare la sua commistione con la logica del potere («Essi ci ameranno e ci guarderanno come dei, per aver accettato di metterci alla loro testa e di dominarli. [...] Ma noi diremo che ubbidiamo a Te e che regniamo in Tuo nome. Dicendo così li inganneremo, perché noi non ci lasceremo più avvicinare da Te [che li volevi liberi]», Il grande inquisitore, Dostoevskij).

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