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venerdì 3 ottobre 2008

Se non è per l'uomo, non è da Dio

La liturgia della parola che la Chiesa ci propone per questa ventisettesima domenica del tempo ordinario, mette chiaramente in relazione il canto della vigna di Isaia con la parabola di Matteo sui vignaioli omicidi. Ciò che c’è di comune è evidentemente il fatto che entrambe hanno come oggetto principale della narrazione una vigna: pare addirittura che Gesù stesso, nell’elaborazione di questa parabola, abbia attinto dal profeta.
Ma nonostante questo, le due parabole non sono identiche. Anzi, forse per comprendere la novità del messaggio evangelico bisogna proprio concentrarsi sulle loro differenze!
Isaia infatti, come si evince dal proseguimento della narrazione, identifica chiaramente la vigna con il popolo di Israele: come il diletto del canto aveva una vigna che aveva prodotto uva selvatica, invece che uva buona, così il Signore aveva un popolo dal quale si aspettava giustizia e rettitudine e dal quale invece ha ottenuto solo spargimento di sangue e grida di oppressi.
Per Gesù invece la vigna non è identificata con un popolo, con un gruppo o con qualche personaggio storico particolare. Essa sembra piuttosto corrispondere infatti al Regno di Dio (il discorso non a caso si conclude: «vi sarà tolto il regno di Dio»).
Questo ci fa immediatamente cogliere che l’attenzione della parabola evangelica è concentrata non tanto sulla vigna, ma su coloro a cui essa era stata affidata!
È chiaro che questo non vuol dire che non ci sia sotto anche il problema riguardante il popolo di Israele (la questione era infatti sul motivo per cui Israele aveva rifiutato l’annuncio, mente i pagani sembravano accoglierlo), ma questo aspetto sembra solo secondario.
A ben guardare infatti i vignaioli della parabola, non rappresentano tutto Israele, ma in particolare i custodi del Regno, e cioè i capi religiosi del tempo. Non a caso Gesù, raccontando questa parabola, si sta rivolgendo proprio a loro: «Gesù disse ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo...».
Questa, che forse potrebbe apparire come un’osservazione di poco conto, in realtà indica la chiave di lettura corretta della parabola: essa infatti non è tanto raccontata (o scritta) per rimproverare e far ravvedere il popolo di Israele, quanto piuttosto per rendere evidente ai responsabili di sempre del Regno (allora i principi dei sacerdoti e gli anziani, oggi la Chiesa, in particolare nella sua forma istituzionale e gerarchica) i rischi che corrono.
Gesù infatti per tutto il vangelo si scandalizza molto più per le distorsioni della religiosità osservante che per qualsiasi altra forma di peccato. È lì che lui vede il pericolo più grande per la verità dell’uomo e dunque per la sua possibilità di incontrare Dio; è sempre contro farisei, scribi e sacerdoti che usa parole di fuoco; è con loro che si scatena la polemica esasperata che lo condurrà alla morte.
Ma cos’è che inquieta così tanto Gesù di questi personaggi?
Il pericolo più grande che egli vede in loro è rappresentato in modo evidentissimo proprio dalla colpa dei vignaioli della nostra parabola: è quello di dimenticarsi che la vigna è del padrone, e dunque che il Regno è di Dio.
Nella parabola evangelica infatti il problema di fondo non è tanto quello di produrre uva selvatica, come in Isaia, quanto piuttosto di non consegnare al padrone i frutti della vigna: «Quando fu il tempo dei frutti, il padrone mandò i suoi servi dai vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono».
È il considerare la vigna (e i suoi frutti) come propria che rende i custodi del Regno omicidi; essi infatti, nella riflessione che Matteo gli mette in bocca prima dell’uccisione (addirittura) del figlio del padrone, rivelano di puntare proprio all’impossessarsi dell’eredità: «quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità».
Ecco qual è il pericolo per l’uomo religioso, per colui a cui è affidato il Regno, per i custodi del sacro: dimenticarsi di essere di Dio e per gli altri.
Forse immediatamente di fronte a questa osservazione ci verrebbe da reagire bonariamente: preti, religiosi e uomini di chiesa non sono tutti così! È una caricatura esagerata questa... non si può fare di tutta l’erba un fascio...
E certo, sono osservazioni vere...
Ma la perentorietà con cui Gesù torna su questo tema, la passione (addirittura la durezza) che lo caratterizza quando si confronta con esso, l’atteggiamento che invece tiene con tutte le altre forme di degradazione umana, non possono non far pensare alla centralità di questa mortifera commistione tra potere e religiosità che Gesù indica come il problema dei problemi!
La questione infatti è radicale! In gioco non c’è tanto la buona gestione della vita parrocchiale, quanto piuttosto l’identità di Dio e il rapporto con Lui. Questo hanno in mano i custodi del Regno!
Nel momento in cui essi falliscono il volto di Dio («avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9), o addirittura lo sostituiscono al loro (come mirabilmente descrive Dostoevskij ne “Il grande inquisitore”: «Perché sei venuto a disturbarci? [...] Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo. [...] La libertà della fede già allora, millecinquecent’anni or sono, Ti era piú cara di tutto. Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”. Sí, questa faccenda ci è costata cara, ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. [...] Adesso, proprio oggi, questi uomini sono piú che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo. [...] Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità») ne va dell’uomo, che è Uomo solo nell’incontro liberante con la Vita.
Ma perché succede questo? Perché i custodi del Regno sono così tentati dalla dimenticanza di essere loro stessi di Dio e per gli altri? Gesù è chiaro anche su questo: «quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità». È la commistione col potere che inquina il cuore dell’uomo religioso!
Ecco perché il Signore non si mischierà mai con esso, non entrerà neanche mai a compromessi: sa troppo bene che il potere dimentica l’uomo; e Lui, il Figlio del Dio dell’uomo non può accettare la soggiogazione di nessuno dei volti dei suoi figli, in nome di istanze superiori (neanche religiose).
Questo è il messaggio nuovo che il vangelo introduce (rispetto a Isaia, ma rispetto anche a qualsiasi altra saggezza umana): tutto ciò che è contro l’uomo non è da Dio, neanche se è rivestito di sacralità!
È il messaggio che chiunque si trova a custodire anche solo un pezzettino di Regno (che poi vuol dire anche solo un pezzettino del cuore di un uomo) deve sempre avere presente: è sul volto dell’uomo che si misura qualsiasi scelta pastorale, qualsiasi indicazione morale, qualsiasi proposta spirituale! Se non è per l’uomo, non è da Dio!

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