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venerdì 17 ottobre 2008

Potere politico e coscienza

In questa ventinovesima domenica del tempo ordinario il brano del vangelo di Matteo proposto dalla liturgia, pone in campo lo spinoso problema del rapporto tra potere politico e fede. Nelle pagine precedenti (che corrispondono all’incirca ai brani letti nelle domeniche passate: la cacciata dei venditori dal tempio - Mt 21,12-17; l’animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani - Mt 21,23-22-14 - con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale), Gesù aveva portato la sua durissima critica contro la commistione tra potere politico e potere religioso.

Ora la prospettiva, pur rimanendo sempre nell’ambito della tensione con i capi religiosi ebraici, pare ricevere un leggero, ma determinante, mutamento: in gioco non è più tanto il rapporto del potere politico con la religione (intesa come organizzazione esteriore dei rapporti tra gli uomini e Dio), quanto la possibilità della fede (dell’autentico rapporto personale con Dio) alla luce del potere politico.
Sostanzialmente all’operazione di farisei e affini che vincolavano la fede personale a un impianto religioso rigido e intransigente («Gli scribi e i farisei legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito», Mt 23,4), in più intrallazzato col potere politico («Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati», Mt 23,17), Gesù oppone una duplice separazione dei piani: nella polemica coi capi religiosi rompe l’identificazione tra fede e forma religiosa, ponendo quest’ultima come relativa alla prima (la forma religiosa serve la fede, la regola serve l’uomo, mai viceversa: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Mc 2,27); e, nel brano di oggi, separa l’intreccio tra fede personale e potere.
Ma andiamo con ordine...
Per comprendere a fondo le letture che la Chiesa ci propone e le problematiche a cui essa fa riferimento, bisogna fare una piccola digressione sulla situazione storica di Israele.
Nella prima lettura infatti si parla del re Ciro. Egli era il re del popolo persiano: non era dunque un ebreo, ma un dominatore straniero! Perché allora il brano di Isaia lo celebra come un eletto di Dio («Dice il Signore del suo eletto, di Ciro»)? Perché Ciro era stato il re che nel 538 a.C. aveva sconfitto i babilonesi (il popolo che aveva costretto Israele all’esilio nel 586 a.C.), permettendo agli ebrei di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. È sempre stato quindi guardato dalla storiografia ebraica come uno strumento (inconscio?) nelle mani del Dio di Israele («io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca»).
Ma il motivo più plausibile per cui questa lettura è stata accostata al brano del vangelo di Matteo sul tributo a Cesare, non è tanto l’edificazione che risulterebbe nell’apprendere che Dio interviene nei giochi politici storici servendosi di strumenti umani anche inusuali – stranieri – (che è una lettura molto banalizzante i rapporti tra Dio e l’uomo), quanto piuttosto il fatto che anche nel vangelo il problema è quello di un dominatore straniero, i Romani: molto meno amati di Ciro.
Nel 63 a.C. infatti le truppe romane avevano conquistato Gerusalemme, rendendo la Palestina una provincia dell’Impero, con tutte le conseguenze socio-politico-economiche che questo comportava, e suscitando molta scontentezza. Non a caso forte era l’attesa della liberazione da parte di un Messia che avrebbe liberato dalla dominazione straniera.
Questo breve excursus forse rende più evidente come il problema che soggiace alla provocazione dei farisei e degli erodiani nei confronti di Gesù non sia semplicemente – come già detto – il rapporto tra potere politico e coscienza personale, ma piuttosto il rapporto tra potere politico straniero e la fede. Sostanzialmente dietro la domanda «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?», non c’è semplicemente la richiesta di un’indicazione pratica (cosa è opportuno fare), ma la pretesa di una presa di posizione di Gesù rispetto alla dominazione straniera. Da che parte sta? Da quella degli zeloti, che volevano cacciare i romani attraverso una rivoluzione violenta; o da quella dei capi religiosi che si adattavano alla dominazione?
Il problema in Israele infatti (ma in generale nelle società antiche) non era quello del rapporto coscienza personale – potere politico, perché quest’ultimo spesso era un tutt’uno col potere religioso. Non a caso, agli ebrei non avrebbe fatto alcun problema se il potere politico fosse stato ebraico. Al di là della realtà storica infatti essi hanno sempre idealizzato il periodo della monarchia (cfr il re Davide) e – come detto – molti al tempo di Gesù sognavano un messia re, guerriero e liberatore politico.
Ma la dominazione straniera, odiosa soprattutto perché pagana, proponeva un problema nuovo per la storia dell’umanità; il punto infatti è se per la fede è necessariamente implicata l’autorità politica su un territorio o su un popolo.
In verità non era un problema dell’ultima ora per Israele: l’aveva già affrontato durante l’esilio, quando i profeti avevano sottolineato come il vero tempio, la vera legge, sarà quella scritta nei cuori degli uomini («porrò la mia legge in mezzo a loro e sul loro cuore la scriverò», Ger 31,33). Ed è proprio nella scia di questi uomini di Dio che anche Gesù pone la sua risposta: No – dice – per la fede personale dell’uomo, per il suo rapporto intimo col Signore non è necessario né un impianto religioso, né un dominio politico. I piani sono separati, riguardano sfere diverse dell’interiorità umana: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Sono tutte vere poi le obiezioni che potrebbero nascere, in particolare quella per cui non sarebbe possibile separare come con un bisturi gli ambiti che riguardano l’uomo (in questo caso il potere politico e la fede): l’uomo infatti è un tutt’uno, non è fatto a compartimenti stagni e quanto vive rifluisce sempre sulla totalità di quello che è...
È vero, ma queste sono tutte osservazioni in seconda battuta: che possono essere accolte e che anche possono (e magari devono) correggere la radicalità della separazione che Gesù pone in campo (lui stesso sperimenterà sulla sua pelle l’impossibilità di dividere rapporto con Dio e potere politico: morirà infatti per un motivazione religiosa, ma per mano romana), ma che valgono solo dopo che si è fatta salva la questione fondamentale, cioè che la struttura fondante dell’uomo è il suo sempre possibile rapporto con Dio (l’unica cosa che lo fa Uomo), in qualsiasi condizione, non certo da chi è governato.
Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio («viene un' ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità», Gv 4,23), neanche la perdita della libertà (Etty Hillesum scrive da dentro un campo di concentramento: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio»), neanche la perdita della vita («Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». Detto questo, spirò», Lc 23,46).
Certo, non bisogna fraintendere: questo non vuol dire che Gesù giustifichi o promuova il disimpegno sociale e politico! Riprendendo le parole di Armido Rizzi, infatti, è indubitabile che «la risposta dell’uomo all’amore di Dio è l’amore per il prossimo»!
Eppure, c’è una risposta ancora più fondante di fronte alle cose che ci si stringono addosso (dominazione straniera, sofferenze, fallimenti, malattie, morte...): l’amicizia con Dio. È la risposta che ha dato anche Teresa di Gesù, un’altra grande donna che la storia dell’umanità ha partorito. Un’altra che come Etty, di fronte a una situazione storica di profonda oppressione e di forte limitazione (in proposito scrive: «Signore dell’anima mia, tu, quando peregrinavi quaggiù sulla terra, non aborristi le donne, ma anzi le favoristi sempre con molta benevolenza e trovasti in loro tanto amore e persino maggior fede che negli uomini. Infatti vi era fra loro la tua santissima Madre... Nel mondo le onoravi... Ci sembra quindi impossibile che non riusciamo a fare alcunché di valido per te in pubblico, che non osiamo dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto, che tu non debba esaudirci quando ti rivolgiamo una richiesta così giusta? Io non lo credo, Signore, perché faccio affidamento sulla tua bontà e giustizia. So che sei un giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, i quali essendo figlio di Adamo e in definitiva tutti uomini, non esiste virtù di donna che non ritengano sospetta»), ha saputo custodire la sua interiorità, lo spazio di un’amicizia, che diventa possibilità di custodire un senso, una globalità positiva dell’esistenza, ultimo approdo della coscienza dove solo io decido a chi appartenere:
«L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenersi in solitudine con Colui dal quale sappiamo di essere amati. [...] Voglio dire anzitutto – secondo la mia debole capacità – in che consista la sostanza dell’orazione perfetta. Mi sono incontrata con alcune anime che credevano consistesse tutta nell’esercizio dell’intelletto. Se potevano tenersi a lungo con Dio, fosse pure a prezzo di grandi sforzi, si credevano subito spirituali. Se poi, loro malgrado, si distraevano, benché per occuparsi in cose buone, cadevano nello scoraggiamento ritenendosi perdute. In questi errori ed ignoranze non finiranno certo i dotti, benché ne abbia trovato qualcuno anche fra di loro. Ma noi donne conviene che ce ne stiamo in guardia. Non voglio dire con questo che non sia una grande grazia di Dio poter meditare continuamente sulle sue opere: anzi, è bene che lo si faccia. Però bisogna persuadersi che non tutti sono atti di loro natura ad applicarvisi, mentre tutte le anime sono capaci di amare. [...] Ne viene quindi che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».

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